Heidegger attraverso l'Intelligenza Artificiale

Il problema.

Le intelligenze artificiali (IA) hanno la loro base filosofica nel razionalismo, nel concettualismo, nel formalismo, nell'atomismo logico – più in generale, nell'idea che la rappresentazione interna del mondo esterno si fondi su concetti-regole universali formalizzabili in linguaggio logico. Quest'idea è il risultato del progetto filosofico, quello della “modernità”, riconducibile a Cartesio, su cui si fonda la stessa scienza empirica (progetto a sua volta inscrivibile nella storia della Metafisica, per cui dai greci in poi nihil est sine ratione). Il mondo esterno fornisce raw facts, che vengono assunti come theory laden data e ordinati in un sistema. La IA è, apertis verbis, progettata per funzionare come si crede che funzioni la mente di uno scienziato. Uno dei problemi cruciali all'interno della scienza dell'IA è il cosiddetto frame problem. È possibile per un'IA non solo cogliere e ordinare innumervoli fatti, ma distinguere tra un oggetto particolare e il contesto che lo determina? Tale oggetto particolare infatti non può essere considerato come un “conglomerato” di fatti, ma il risultato dell'interazione tra un contesto particolare e orientato e la cosa stessa. Se, ad esempio, un computer sta eseguendo una rappresentazione dello stato attuale del mondo e qualcosa nel mondo cambia, come determina il programma quale dei suoi fatti rappresentati si può presumere che sia rimasto lo stesso e quale dovrebbe essere aggiornato?

Le cose.

Le cose sono sempre innanzitutto πράγματα, ci dice Heidegger. Le cose sono «ciò con cui si ha a che fare nel commercio prendente cura»i. All'interno di questo commercio, ossia il quotidiano e costante rapportarci agli oggetti come “usabili” (dall'azione più utilitaristica all'atteggiamento teoretico puro), questi manifestano la struttura del per, un rimando a qualcos'altro, e così via. La cognizione del mondo non riguarda mai una sommatoria di oggetti, ma innanzitutto una totalità di πράγματα, rimandantesi l'un l'altro. All'interno di questa rete di rimandi, si manifesta l'oggetto. Esso ha già in sé l'interezza del suo contesto – decontestualizzato (se qualcosa come la decontestualizzazione è possibile), un oggetto non si manifesta nella sua purezza, ma piuttosto come “castrato”. Quando i rimandi si interrompono (la rottura di un oggetto taglia il suo rapporto col contesto, ad esempio), esso «assume il modo della importunità»ii. L'essere di un oggetto, che Heidegger definisce ente intramondando, è l'appagatività: esso è sempre un ente-per (verso...)-qualcosa, e presso questo qualcosa l'oggetto si compie, è appagato. A partire da questo reperto ontologico, Heidegger interpreta poi il senso della spazialità quotidiana e costante, di questo contesto in cui gli enti intramondani si manifestano. Il fulcro si questa spazialità è naturalmente l'uomo, l'Esserci, che è costitutivamente essere-nel-mondo, solo a partire dal quale possiamo dire che un oggetto sia ciò che è. All'interno di questa spazialità (da non confondersi con lo spazio puro e semplice, newtoniano o anche einsteiniano, il quale è innanzitutto un'astrazione, prima di essere reale) gli oggetti manifestano il loro essere-alla-mano (Zuhandenheit, ossia essere zur Hand, alla mano – gli inglesi traducono con ready-to-hand). Ora, per comprendere un oggetto è necessaria una precomprensione complessiva del contesto. Per Heidegger, questo è un dato originario dell'essere dell'Esserci: l'uomo ha sempre una familiarità col contesto di rimandi e legami, e solo per questo l'oggetto si manifesta come familiare – lì dove questa familiarità viene meno, gli oggetti particolari assumono un che di perturbante, sembrano “fuori posto”. L'essere degli enti intramondani si articola in questa rete di significati, essi hanno originariamente, ossia all'interno del mondo-ambiente in cui innanzitutto e primariamente sono, il loro valore. Inoltre, tale mondo-ambiente non è solo definito spazialmente dall'essere-alla-mano, ma è orientato, ossia, la stessa rete di rimandi è “pre-compresa” nell'ottica di un progetto esprimente le possibilità e le scelte dell'Esserci stesso.iii Nel corso della critica all'interpretazione di Cartesio dello spazio e dell'essere degli enti, Heidegger afferma: «In verità allo stesso modo che Cartesio non colse l'essere della sostanza con la sua teoria della extensio come proprietas, il ricorso a proprietà «fornite di valore» non apre il minimo spiraglio sull'essere in quanto utilizzabilità e tanto meno ne fa un tema ontologico»iv. Schiettamente: una volta interpretato l'essere degli enti come semplice presenza (mero fatto in un'estensione di spazio), ogni valore che diamo all'oggetto è posticcio, ontologicamente non rilevante. L'ente non si manifesta più nel suo contesto – anzi, una volta per tutte decontestualizzato, ogni tentativo di ri-contestualizzazione è destinato a fallire. O, secondo le parole di Hubert L. Dreyfus: «[T]he meaningful objects … mong which we live are not model of the world stored in our mind or brain; they are the world itself».v

L'IA non è un Esserci: il problema dell'esistenza artificiale.

Qui possono sorgere i problemi per le IA (e invero per tutta l'ontologia tecnologica), nel contesto del frame problem. Una formulazione di questo problema è quella di Michael Wheeler, in Reconstructing the Cognitive World:

[G]iven a dynamically changing world, how is a nonmagical system ... to take account of those state changes in that world ... that matter, and those unchanged states in that world that matter, while ignoring those that do not? And how is that system to retrieve and (if necessary) to revise, out of all the beliefs that it possesses, just those beliefs that are relevant in some particular context of action?vi

È possibile insegnare ad un'IA dei frames tipici, con dei caratteri più o meno costanti, tali per cui in presenza di questi l'IA potrebbe cercare oggetti prevedibili. Ma un insieme di contesti non è una situazione vera e propria. La comprensione stessa di un contesto tipico richiede a sua volta un contesto in cui il precedente contesto ha senso, e così via. Se questo lavoro di riconoscimento dei contesti è svolto dall'uomo in maniera naturale e originaria, un'IA necessita di essere istruita su un numero inevitabilmente finito di contesti. Inoltre, per poter scegliere, nel suo “set” di contesti, quale applicare, un'IA dovrebbe riconoscere degli oggetti a partire dai quali orientare la scelta. Ma abbiamo visto che il senso di un oggetto si determina solo a partire dal suo contesto, che è particolare ed orientato. Come farà l'IA a scegliere un contesto se non potrà determinare, per mancanza di contesto, ciò a partire dovrebbe compiere la scelta? In questo senso, l'intelligenza dimostrata da un computer non mima assolutamente la forma della cognizione umana dei senso di oggetti e contesti. Un'IA progettata per riconoscere fatti rilevanti in un contesto si ritroverebbe in un regresso all'infinito di contesti per riconoscere fatti per riconoscere contesti ecc. Come insegna Kant, il regresso all'infinito è sempre indice di un problema sistematico, di una contraddizione insolvibile. Lo studio sull'intelligenza artificiale si arenò negli anni '70 proprio su questo problema. Le IA sembravano funzionare all'interno di micro-worlds (è il caso di SHRDLU, sviluppato dall'informatico e filosofo Terry Winogradvii), in cui il frame interpretativo e i relativi oggetti erano forniti a priori dal programmatore, ma risultavano insufficienti nella prospettiva di un vero e proprio mondo-ambiente. Informatici e filosofi come Winograd o Fernando Flores si sono rivolti alla fenomenologia e all'ermeneutica nel tentativo di definire una forma cognitiva tale da rendere un'IA capace di un'intelligenza più umana – scoprendo però che, per così dire, un'IA non è un Esserci. In particolare, in quanto programmata un'IA manca di uno dei caratteri più fondamentali dell'essere dell'Esserci, la gettatezza. L'essere-gettato dell'Esserci non riguarda solo la sua dimensione etica (autenticità e inautenticità, essere-per-la-morte, colpa e decisione anticipatrice), ma anche il suo aspetto cognitivo. L'Esserci è già da sempre gettato in una rete di significati (e poiché in ultima analisi ogni senso, e quindi ogni significazione, è linguistico, in un linguaggio), in una pre-comprensione del mondo (il mondo è già da sempre compreso), in un'orizzonte di senso in cui si danno gli oggetti. L'essere degli enti che incontriamo (entri intramondani, ma anche altri Esserci, è la struttura del con-essere) è già da sempre compreso e interpretato. Ma l'uomo non è programmato. Afferma Heidegger che l'Esserci è aperto al mondo (in quanto essere-nel-mondo) nella Lichtung (des Daseins in Essere e Tempo, e sempre di più negli anni successivi al libro Lichtung des Seyns, l'apertura stessa dell'Essere nella quale qualcosa come l'esistenza – storica – dell'uomo è possibile). Quest'apertura non è sottoposta all'arbitrio dell'Esserci, ma in questa lui è gettato, e solo in questa «è possibile qualcosa come la visione»viii, ossia la cognizione di enti. Quest'apertura non è il mero limite della cognizione umana, ma il limite stesso dell'essere degli enti. L'Esserci intrattiene quindi un rapporto privilegiato con l'essere degli enti: la verità, ossi la possibilità stessa che si dia qualcosa come un ente veramente essente, è un modo stesso dell'Esserci – scendendo ancora nelle profondità dell'ontologia, nel far sì che gli enti siano, l'Essere li fa essere nell'apertura, ossia “nell'essere”, dell'Esserci. Il fatto che l'apertura sia poi articolata come linguaggio ecc., viene relativamente dopo. A differenza di un'IA, l'Esserci non dev'essere programmato per incontrare gli enti, ma l'incontro con (ossia la cognizione di) essi gli è essenziale, ed è radicata ontologicamente nell'Essere. Riferendosi al frame problem, Dreyfus afferma:«this problem is avoided by human beings because their model of the world is the world itself»ix. La difficoltà che si presenta all'informatico che vuole creare un'intelligenza artificiale, che potremmo definire esistenza artificiale, è quella di un compito quasi paradossale: tradurre in codici (quindi fondare un'intelligenza attraverso codici: nell'ontologia della tecnologia nihil est sine ratione) una cognizione che ha il carattere della non fondatezza (l'Esserci non ha fondamento su alcun ente, e soprattutto non si fonda su sé stesso).

Ugualmente inconsistente fu il tentativo empiricista portato avanti da Rodney Brooks e Daniel Dennet di costruire un robot, Cog, con un'intelligenza artificale capace di apprendere da e rispondere agli stimoli esterni (in particolare, l'interazione con altri umani), senza frames pre-programmati. Precedentemente a questo progetto Brooks aveva tentato di sviluppare un'IA che imitasse il comportamento di certi insetti, nella prospettiva di avvicinarsi all'intelligenza umana aumentando la complessità del robot stesso e la sua somiglianza organica all'uomo. Il modello empiricista presupponeva un sistema fisso di caratteristiche dell'ambiente, e un'interpretazione del rapporto ambiente-uomo in termini di stimolo-riflesso. Ma Cog non raggiunse mai il livello di antropomorfismo sperato, e il progetto fu accantonato nel 2003. Riflettendo su questo fallimento e considerando la necessità di guardare l'uomo in quanto organismo biologico in una maniera diversa, ammise: «we simply do not get it»x.

Programmare la Zuhandenheit.

Un approccio più esplicitamente heideggeriano fu quello di di Phil Agre e David Chapman. Definito da loro interazionismo, esso doveva fondarsi sull'intuzione fenomenologica che le attività quotidiane si fondano sul corpo e le sue interazioni con gli enti intramondani – dunque, sullo studio del corpo come primaria apertura dell'Esserci sul mondo. In questa maniera si sperava di riuscire a superare l'isolamento epistemologico imposto dalla filosofia cartesiana.

Poiché lo spazio stesso in cui l'IA deve muoversi deve essere programmato per aderire alla struttura ontologica del mondo-ambiente, è necessario che questo non sia costituito da meri oggetti (semplicemente-presenti), ma da possibilità d'azione. L'oggetto in questo senso il frutto delle rappresentazioni deittiche che simulano il carattere di essere-alla-mano degli enti intramondani. Esso viene così a essere designato come il ruolo stesso che esso ha all'interno di un'interazione tra agente (l'IA) e l'ambiente in un certo lasso di tempo – in linguaggio heideggeriano, l'oggetto non è più un mero che, ma un a-che. Interpretando gli oggetti come funzioni, ossia valori, Agre riesce a costruire una spazialità dell'utilizzabile intramondanoxi, ossia una «peculiare e non frantumata unità dei posti»xii. Posti che compongono però il mondo-ambiente, che non è un modo d'essere speciale del “mondo esterno”, ma una componente ontologica dell'Esserci in quanto essere-nel-mondo. Essere e Tempo infatti non fornisce alcuna trattazione sull'essere “in sè” degli oggetti, se qualcosa del genere è possibile – come tenta invece di fare, nell'ambito dell'ontologia contemporanea, la Object Oriented Ontology. Gli oggetti sono sempre enti intramondani, in un mondo che è aperto dall'Esserci e all'Esserci appartiene ontologicamente. Solo in questo senso l'essere di un oggetto è un a-che, ed è questa l'interpretazione che deve mantenere chiunque voglia progettare un Esserci artificiale.xiii Più in particolare, l'oggetto non è solo un oggetto con una funzione, ma rimandando direttamente alla propria appagatività, è una chiamata all'azione, «a solicitation to act»xiv. L'essere dell'oggetto nel suo a-che (quindi come mezzo, come dice lo stesso Heidegger) si manifesta in maniera più originaria nel momento in cui noi lo usiamo, nel momento in cui la nostra attenzione è rivolta già all'a-che dell'oggetto piuttosto che all'oggetto stesso.

«Quanto meno la cosa martello è oggetto di uno stare a guardare [ossia tema di un atto teoretico], quanto più adeguatamente viene adoperata, e tanto più originario si fa il rapporto ad essa e maggior il disvelamento in cui essa ci viene in contro in ciò che è, cioè come mezzo. È il martellare a scoprire la specifica «usabilità» del martello. Il modo di essere del mezzo, in cui questo si manifesta da sé stesso, lo chiamiamo utilizzabilità [Zuhandenheit]».xv

Il comportamento teoretico, non coglie il carattere originario dell'oggetto in quanto si presenta all'uomo all'interno di un progetto. Lungi dal non essere pratico, nella sua (legittima) pretesa di “neutralità” nei confronti degli oggetti, esso costruisce un'interpretazione tale che l'oggetto viene preso a tema nella sua pura presenzialità. In questo modo l'a-che dell'oggetto ricade per così dire sull'oggetto stesso, o meglio sulla cognizione dello stesso, permettendo sì un'approfondita conoscenza ontica dell'oggetto, ma coprendone la dimensione ontologica. Questo movimento riflessivo non mostra l'oggetto nella sua dimensione più originaria di utilizzabile alla-mano, ossia di essente-per (es. il martello è-per martellare) – dimensione che si mostra piuttosto nel ritirarsi dell'oggetto. Afferma Heidegger: «La peculiarità di ciò che è innanzitutto utilizzabile sta nel ritirarsi in un certo modo nella sua utilizzabilità, per essere così autenticamente utilizzabile»xvi. Il martello, per poter essere utilizzato propriamente, deve cedere il posto al suo stesso martellare, eclissarsi per così dire dietro la propria appagatività: solo così compie il proprio essere ed è ciò che propriamente è (all'interno dell'orizzonte in cui si dà). «Ciò con cui il commercio quotidiano ha anzitutto a che fare non sono i mezzi per attuare l'opera, ma l'opera stessa»xvii afferma Heidegger, e così l'Esserci “sà il fatto suo”. Il rapporto con gli oggetti nel mondo sorpassa direttamente gli oggetti stessi, normalmente. Un oggetto si dà innanzitutto come quel punto di passaggio verso quella che è la nostra meta: ad esempio. una maniglia, una porta ecc. sono, all'interno del progetto quotidiano, nient'altro che il passaggio, il varco attraverso il quale io compio una certa possibilità d'azione (es. entrare in una stanza), compimento in cui l'essere di questi enti si appaga. Questo non perché tale compimento è l'essere della porta in quanto struttura di legno con cardini ecc., ma perché ancora prima di essere la porta nella sua struttura, quel dato ente è (nel progetto dell'Esserci) la sollecitazione ad una certa azione. Solo successivamente (e retroattivamente) noi possiamo rivolgerci alla porta in quanto porta, trarla dal suo ritiro e farla tema di un atto teoretico in senso generale. La porta si scopre come porta solo quando il suo essere viene interpretato come la sua semplice-presenza. In questo momento l'Esserci sa ancora il fatto suo, la forma ontologica del ritiro non viene meno, ma viene coperta (obliata) dal nuovo ambito tematico – in altre parole, si fa meno evidente. Ma come si programma un'IA che sa il fatto suo?

Le rappresentazioni deittiche di Agre finirono invero per oggettificare le funzioni e la loro situazione. L'IA rispondeva ancora a regole, che interpretavano sì gli oggetti incontrati come trigger di una risposta programmata (una certa vicinanza quindi al carattere di Zuhandenheit), senza però poter disporre di questa stessa programmazione. La possibilità costitutiva dell'uomo di mutare progetto, dunque interpretazione degli enti intramondani, a seconda dei mutamenti che avvengono nel mondo e delle sue mete, rimaneva preclusa alle IA – e Agre finiva per ricadere all'interno dei micro worlds, dunque nel frame problem, non senza aver compiuto passi avanti però. La difficoltà consiste nell'integrare nel mondo stesso le interpretazioni possibili che nel corso di un'esistenza vengono prodotte. Attraverso quello che potremmo definire un atto sintetico-tautologico (https://endtimesphilosophy.blogspot.com/2019/09/logica-dellessenza-appunti-da-slavoj_50.html – v. Il tautologico “Ritorno della Cosa a Sé stessa”), ciò che l'Esserci interpreta nel mondo, lungi dall'essere imposto estrinsecamente, viene presupposto come una possibilità intrinseca degli enti che l'Esserci incontra. Tali enti sono presupposti avere già la loro possibile appagatività nell'azione che soddisfa il progetto dell'Esserci. Solo perché questo modo di manifestarsi degli enti all'Esserci è, in quanto «scoprimento», un modo di essere dell'Esserci, esso può essere sottratto al suo arbitrio.xviii Ad esempio, una volta imparata la strada da un luogo ad un altro in una città, ciò influenza il modo in cui la città si manifesta, presupponendo la possibilità di quella strada (frutto invero della nostra interpretazione) nella città stessa. Una città è infatti innanzitutto un sistema di posti, e serve una visone piuttosto artificiosa per ritrovarsi con un insieme di meri oggetti. Un'IA funzionante attraverso action-oriented rapresentations, pur avendo cose alla-mano, difficilmente potrà dirsi un essere-nel-mondo, un'Esserci tale da essere costantemente sollecitato dal mondo stesso all'azione. Per un'IA il motivo dell'azione risiede necessariamente nell'IA stessa, e questa può dunque produrre rappresentazione in base a questi motivi, in base alle azioni da compiersi via via – l'Esserci al contrario ha nel mondo stesso il motivo del proprio agire.xix

Da Wheeler a Brooks fino a Agre, i vari modelli di IA si fondavano su un sistema che potremmo definire rappresentazionale. Dalle rappresentazioni “cartesiane” a quelle action-oriented, un siimile paradigma non è fedele fino in fondo all'importante intuizione heideggeriana per cui l'essere-nel-mondo elimina la distinzione tra mondo interno e mondo esterno. L'Esserci, in quanto apertura e accadere dell'Essere, in fondo non è circoscritto alla sola persona umana, ma è coinvolge l'interezza del mondo. Da una parte l'Esserci è completamente rivolto verso gli enti (anche nell'introspezione, s'intende), dall'altra il mondo è il luogo dove si compiono i progetti dell'Esserci, e gli enti intramondani non sono che gli organi, per così dire, di questo compimento. L'Esserci, afferma Heidegger, è quell'ente cui nel suo essere ne va di questo essere stesso, che si rapporta al suo essere come alla sua possibilità più propria. L'essenza dell'Esserci consiste nella sua esistenza.xx Ma in questa sua esistenza l'Esserci assume di volta in volta delle possibilità come le sue più proprie, si mette, per così dire, all'opera. Così l'esistenza è quello che onticamente possiamo definire un atto insieme pratico e cognitivo, ma più correttamente, ossia ontologicamente, il fatto stesso di un già-da-sempre prendersi cura delle cose del mondo in un orizzonte di comprensione. E questo non è altro che l'essere-nel-mondo, l'essenza stessa dell'Esserci. Il mondo, in quanto ambiente dell'Esserci, appartiene all'essenza stessa dell'Esserci – «L'Esserci, esistendo, é il suo mondo»xxi, e il mondo, in quanto è, è sempre il mondo di un essere-nel-mondo. Tra Esserci e mondo non v'è una polarità, bensì una globalità. È su questo nodo centrale che ogni tentativo di programmazione di un'intelligenza artificiale fenomenologicamente informata deve reggersi. Non si tratta più di fornire all'IA i meccanismi di rappresentazione e operazione adeguati, né di porla in un mondo “su misura” – IA e mondo andranno progettati insieme, “in simbiosi”. Possiamo ipotizzare che questo sia fattibile nello spazio chiuso di un computer. Come questo si possibile invece nel caso di un robot, o comunque di un'IA operante nel nostro stesso mondo, è difficile a dirsi. Uno dei problemi principali concerne ciò che intefaccia l'IA col nostro stesso mondo “umano”. Il fatto stesso che, attraverso organi meccanici, l'IA debba lavorare con stimoli/segnali che sono innanzitutto esterni, per quanto complessamente processati, la fa ricadere nel modello dualista e, a ben vedere, empiricista. Tali stimoli hanno di default il carattere di “mondo esterno”, e ogni tentativo di plasmarli per formare delle rappresentazioni (per quanto “heideggeriane”) vi applica in maniera posticcia ciò che per l'Esserci è il modo stesso di manifestarsi delle cose nel proprio orizzonte di comprensione. Ma ogni forma di esternalismo cognitivo presuppone un esternalismo metafisico, e tenendo conto delle considerazioni heideggeriane sulla metafisica come oblio dell'Essere e la coappartenenza di Essere ed Esserci, non stupisce che fin'ora ogni tentativo di produrre una vera e propria esistenza artificiale siano falliti. Se è vero che l'uomo è Esserci, e la cognizione è un modo dell'essere-nel-mondo, non ci sono motivi per credere che le ricerche informatiche, cibernetiche ecc. possano dar luce ad un Esserci artificiale – in particolare, non è prerogative dell'uomo dare luce ad alcunché secondo il suo arbitrio.

L'oblio dell'oggetto come condizione di possibilità di ogni incontro con l'oggetto stesso.

Anche nell'eventualità che un'IA capace di un'interazione heideggeriana col mondo, un altro problema resta irrisolto. Abbiamo detto che il modello del mondo dovrà essere il mondo stesso. Gli enti intramondani che incontriamo nel commercio quotidiano si danno sempre innanzitutto come un rimando, e il contenuto di questo rimando è una possibilità immanente all'ente in quanto interpreto in un progetto. Questa possibilità si manifesta solo nel ritirarsi dell'ente – per usare una metafora, quando il dito punta alla luna, l'utilizzabilità del dito si manifesta proprio nel fatto che noi guardiamo alla luna (non a caso chi guarda al dito non coglie il punto). Quando poi torniamo all'ente intramondano, tematizzandolo, scopriamo in esso la possibilità stessa di quel rimando, scopriamo l'oggetto nel suo essersi ritirato per lasciar posto alla sua appagatività. Ma quando ci rivolgiamo all'ente in quanto ritirato, in un primo momento scopriamo che esso possiede potenzialmente infinite possibili appagatività, tante quanti sono i progetti esistenziali possibili dell'Esserci. Ma è veramente così? Un oggetto è veramente in potenza tutte le cose? O questo oggetto deve potersi ritirare in un modo tale da rendere attualmente possibili certe utilizzabilità? Il problema che ci poniamo è quindi quello del ritirarsi dell'oggetto – in inglese, the withdrawal of the object.

Innanzitutto, un ente intramondano ha sempre un a-che, deve poter appagarsi in qualcosa. Ma questo qualcosa deve poter essere possibile nel mondo, ossia deve poter essere a sua volta appagato e così via. Qui non ci ritorviamo con un regresso all'infinito, anzi: nella rete di rimandi, “tutte le strade portano all'Esserci”, gli enti del mondo hanno in ultima analisi la loro appagatività nell'esistenza dell'Esserci, in quanto quest'ultimo li comprende e interpreta all'interno di un progetto. In secondo luogo, in quanto si ritira, l'oggetto manifesta un eccesso rispetto al progetto attuale stesso, a cui non è riducibile. Le possibilità stesse che noi scopriamo attuali in un oggetto sono il frutto di quell'atto sintetico-tautologico che fa delle possibilità possibili delle possibilità attuali. Questo atto è però determinato dall'orizzonte di comprensione dell'Esserci, all'arbitrio del quale è sottratto (l'Esserci vi è gettato).

Ora, nel suo ritirarsi e nascondersi l'oggetto funziona, ma il suo ritiro si coglie solo quando il funzionamento dell'oggetto viene interrotto (prestiamo attenzione teoretica all'oggetto, oppure l'oggetto si rompe, rendendo evidente la passata possibilità attuale). Fintanto che l'oggetto svolge il suo compito all'interno del nostro mondo, non solo esso si ritira, ma il fatto stesso del suo ritiro non è sotto i nostri occhi, è nascosto. Senza questo doppio movimento il mondo non può essere propriamente abitato, poiché ci ritroveremmo costantemente di fronte all'abisso di possibilità che costituisce un oggetto – in questo senso, l'oggetto reale che propriamente usiamo svanirebbe, lasciando essere un oggetto puramente alieno, su cui nessun progetto può essere costruito. Nell'abisso delle infinite possibilità che un oggetto costituisce, nessuna si troverebbe ad essere possibile in maniera attuale e privilegiata. Affinché l'Esserci possa di volta in volta decidersi per il suo poter-essere, il mondo deve “assecondarlo” nella decisione, rendendola possibile. Persino quando ci rivolgiamo teoreticamente ad un oggetto, non facciamo che trarlo via dal suo ritiro in maniera superficiale. Nell'atteggiamento teoretico l'oggetto si scopre come essentesi ritirato per lasciar appagare delle possibilità attuali (es. notiamo la distribuzione del peso in questo martello, che gli ha permesso di essere utilizzato per martellare!), ma non notiamo il ritirarsi di questo stesso ritiro. Ciò non significa che non ci accorgiamo di non aver prestato attenzione all'oggetto “in sè”: ogni nascondimento, ritiro, dimenticanza di qualcosa non è possibile senza che il nascondimento ci sia celato, che il ritiro si ritragga dai nostri occhi, che la dimenticanza venga dimenticata. Questo è ancora solo il primo livello. Ciò che noi propriamente non notiamo mai (se non almeno nel momento in cui facciamo ontologia, ossia interroghiamo l'essere e non l'ente) è il fatto che l'essere dell'oggetto nella sua possibilità attuale di utilizzo consiste primariamente in questo ritirarsi dell'oggetto stesse, nel suo eclissarsi dietro la sua appagatività, nel suo sacrificio ontologico per l'esistenza dell'Esserci. In questa eclissi più originaria, l'oggetto nasconde l'atto sintetico-tautologico che rende reali e attuali certe possibilità, che determina in che modo/a qual fine l'oggetto debba ritirarsi. In quanto nascosto, dimenticato, quest'atto è esso stesso un dimenticare, specificamente l'oggetto come abisso di possibilità. In questo senso, se l'oggetto è un ritirarsi, ossia un rimosso, la rimozione di questa rimozione (ossia, della natura di rimosso dell'oggetto) appartiene in ultima analisi all'Esserci stesso. Affinché ci siano cose, l'Esserci deve imparare a dimenticare – dimenticare cosa? Il Niente, sul fondamento del quale non è possibile alcuna decisione. Anche in questo senso (ancora superficiale nei termini della domanda fondamentale) possiamo affermare che il destino obliato dell'Essere sia il suo stesso oblio. Di fronte a questa prospettiva abissale gli heideggeriani hanno imparato la situazione emotiva fondamentale dell'angoscia (Angst), che nella maniera più radicale fonda ogni possibilità, pratica o cognitiva, dell'uomo. È possibile programmare l'angoscia in un'intelligenza artificiale? Ed è quindi possibile programmare la morte come possibilità più propria di un'IA, non in quanto stabilita, ma nel suo carattere di costante e immutabile minaccia?

Neuroscienze e fenomenologia?

Come abbiamo visto in Programmare la Zuhandenheit, è necessario abbandonare ogni modello rappresentazionale. L'uomo abita il mondo in una originaria e fondamentale apertura ad esso, tale da non necessitare di rappresentazione. L'essere-nel-mondo dell'Esserci opera ad un livello che potremmo definire “inconscio” (non nel senso psicologico), o, prendendo in prestito un termine dall'informatica, in background. Ogni forma di rappresentazione (che pure l'uomo produce coscientemente) è possibile solo sulla base dell'essere-nel-mondo. Sviluppare un'intelligenza artificiale heideggeriana richiede innanzitutto lo sviluppo di questa operazione non rappresentativa di background, che fornisca la base di intelligenza propriamente “umana” a tutti quei processi, insieme complessi e “stupidi”, che già oggi le macchine compiono molto meglio dell'uomo. Questi ultimi processi interpretano il mondo in un modo che non è assolutamente il modo originario con cui l'Esserci abita il proprio mondo-ambiente, ma piuttosto quello in cui un certo tipo di uomo ha imparato a descrivere il mondo.

Poiché non è possibile pretendere di programmare con i mezzi dell'ingegneria informatica qualcosa come un'apertura ontologica (la quale rimane, agli occhi del fisico, quasi un miracolo), dobbiamo cercare nella materia stessa la tracce formali della struttura ontologica dell'uomo. In che senso? Tenendo a mente la differenza tra ontologico e ontico, dobbiamo notare che, al di là dei coprimenti storici, in quanto è ontico si possono trovare le tracce di quanto è ontologico – ci riferiamo a fenomeni ontici, quindi oggetto dell'interpretazione scientifica/empirica, più aderenti alla struttura ontologica dell'uomo.xxii Dovendo indagare dunque i fondamenti ontici della cognizione umana, al fine di riprodurla, il primo ente cui ci rivolgiamo è senza dubbio il cervello. Naturalmente noi non siamo un cervello, non abitiamo un cervello né siamo ad esso riducibili. Ma il cervello ha senso in quanto organo, deve poter almeno descrivere (non spiegare, e sopratutto, non rispondere a domande di carattere ontologico ed esistenziale) l'interezza dell'esperienza umana, almeno ad un livello estremamente forte di riduzionismo. Ossia, anche al costo di mancare il punto di molteplici fenomeni riguardanti la psiche o lo spirito, si deve poter individuare nel cervello il “corrispettivo cerebrale” di ciò che accade nell'uomo su tutti i livelli. Se è vero che natura non facit saltus, questo deve valere anche fra i diversi livelli ontologici che strutturano l'uomo: ogni livello ha le sue regole autonome e sufficienti a fornire un quadro coerente e soddisfacente (finchè non vengono poste domande di ordine ontologico, come quella dell'hard problem of consciousness). Poiché un'IA è programmabile solo sul piano fisico, è sul piano fisico-naturale che dobbiamo cercare le tracce dell'essere-nel-mondo (così come presumibilmente dobbiamo poterle cercare anche sul piano psichico e su quello del Geist).

Generalmente i modelli neurali sono di tipo rappresentazionale, fondandosi su due presupposti che hanno origine nella gnoseologia cartesiana: il cervello riceve degli input attraverso gli organi di senso (dunque input visivi, uditivi, tattili ecc.); da questi stimoli vengono astratte delle caratteristiche immanenti agli stimoli stessi, che il cervello usa per costruire rappresentazioni. In fondo non siamo lontani dalla gnoseologia di Democrito o Anassagora: ciò che il nostro cervello riceve non è il mondo esterno, ma lo contiene – le particelle e le onde che stimolano i nostri organi (i fotoni, le vibrazioni, le molecole) sono esse stesse dati, informazioni. Quando si tratta di tradurre in intelligenza artificiale questo modello neurale, l'IA si scontra irrimediabilmente col frame problem. Persino l'approccio della rete neurale (viene simulato un network di neuroni, le connessioni tra i quali mutano, si indeboliscono e si rafforzano in base al successo o al fallimento della rete stessa; tale successo viene però, in ultima analisi, determinato dal programmatore, anche quando l'IA migliora ed evolve sé stessa attraverso il machine learning; di conseguenza, per quanto complessa possa essere l'IA, il senso che ordina le azioni deriva dall'esterno) deve in ultima analisi fare affidamento all'unico ente che non conosce frame problem, ossia l'uomo. L'IA rimangono sempre degli enti intramondani utilizzabili, e hanno un loro a-che che fa capo all'Esserci. Un cervello artificiale continuerebbe a servire uno scopo a esso esterno, alla maniera in cui le IA fin'ora non possono non fare?

Uno dei dei problemi delle neuroscienze consiste proprio in questo: capire come il cervello “seleziona” i dati rilevanti che compongono la nostra percezione di un oggetto. Una peculiarità appannaggio della cognizione umana è infatti quella della semplificazione, ossia la capacità di individuare e comprendere un oggetto a partire da un numero relativamente ristretto di informazioni. La nostra comprensione delle situazioni e dei relativi oggetti è sempre innanzitutto “intuitiva”, non è il risultato di un'analitica raccolta dati e di successivi discernimento, organizzazione e sintesi. Quando comprendiamo una situazione o un oggetto abbiamo sempre relativamente poche informazioni, che non pregiudicano l'esattezza e la profondità della nostra comprensione. La stessa ambiguità di una situazione o di un oggetto è il segnale di questa facoltà umana: quando la semplificazione è impossibile, l'uomo fa esperienza dell'ambiguità come tale. Come fa dunque il cervello a selezionare le informazioni rilevanti tra le molteplici e indipendenti ricavate da organi altrettanto indipendenti (se esistono qualcosa come organi e informazioni indipendenti prima dell'operazione di sintesi compiuta dal cervello)? «How can the brain keep track of which facts in its rapresentation of the current world are relevant to which other facts?»: è questa la forma “neurale” del frame problem dell'intelligenza artificiale.xxiii Il problema naturalmente non è di natura empirica, ma innanzitutto e sopratutto logica. Così come non funziona applicato alle IA, il paradigma rappresentazionale non avrà più fortuna col cervello. Esso è un'interpretazione della cognizione umana risalente all'epoca moderna e superato dalla fenomenologia – fenomenologia che dovrà essere integrata nelle scienze cognitive empiriche. Le proposizioni fondamentali di cui si dovrà tenere conto: l'organismo umano (almeno) ha un diretto accesso alla significatività del mondo; il rapporto dell'uomo con la significatività del mondo arricchisce e riarticola quest'ultima. Questa prospettiva non presuppone alcuna capacità soprannaturale del cervello né alcuna struttura speciale non ancora scoperta – nessuna ghiandola pineale in poche parole, bensì un modo diverso di interpretare i dati scientifici. Se l'attività neurale “descrivesse”, ancor prima che informazioni, significati?



i Martin Heidegger, Essere e Tempo (d'ora in poi solo SuZ), Milano, Longanesi, 2018 (Sein und Zeit, 1927), p. 91.
ii SuZ, p.97.
iii  Per esempio, l'ente che definiamo “coltello”, ha la sua appagatività nel tagliare la carne o il pane, poiché interpretato come “posata” all'interno del progetto del mangiare nella situazione “pranzo” ecc. ma nel caso in cui un ladro irrompa in casa mia, lo stesso ente “coltello” sarà interpretato come “arma” nel progetto della mia difesa, e avrà la sua appagatività nel ferire, nell'essere deterrente ecc.
iv SuZ, p.127.
v Citato in Hubert L. Dreyfus, Why Heideggerian AI failed and fixing it would require making it more Heideggerian, 2007, disponibile online su www.sciencedirect.com, p.4.
vi Citato in Dreyfus, ivi, p.2.
viii SuZ, p.209.
ix Dreyfus, ivi, p.4.
x Dreyfus, ivi, p.5.
xi SuZ, p.129.
xii SuZ, p.132, nota a.
xiii Come mostra lo stesso Dreyfus, testare le idee filosofiche nella pratica, persino ingegnieristica, può aiutarci a chiarificare ed approfondire la nostra comprensione delle idee filosofiche stesse! V. Dreyfus, ivi, p.7.
xiv Dreyfus, ibid.
xv SuZ, p.92.
xvi SuZ, ibid.
xvii SuZ, ibid.
xviii Cfr. SuZ, p.274.
xix Non a caso lo stato esistenziale dell'angoscia (Angst) non è meramente soggettivo, ma rivela una verità ontologica fondamentale, ed è la porta d'accesso all'Essere stesso.
xx Cfr. SuZ, pp. 60-61.
xxi SuZ, p.431.
xxii Ho già provato a mostrare come le teorie ontiche espresse da Nietzsche nella seconda dissertazione della Genealogia della Morale siano fedeli alla struttura ontologica della colpa e della coscienza così per com'è descritta da Heidegger. Cfr. https://endtimesphilosophy.blogspot.com/2018/07/colpa-cattiva-coscienza-e-simili-sul.html.
xxiii Cfr. Dreyfus, ibid., p.14.

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