Edvard Munch e Nietzsche: l'Urlo


«Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? [...] Non alita su di noi lo spazio vuoto?».

Con queste e altre parole Nietzsche, l’uomo folle, ma anche Zarathustra, annuncia al mercato la morte di Dio. Le parole del filosofo sono gravi, cariche di dolore e fatalità. Non v’è dispiacere per la morte, comunque tanto desiderata per l’avvento dell’Oltreuomo, ma coscienza della sua gravità, e vertigine, un grande senso di “vuoto”. Nel capitolo Dell’Uomo Superiore di Così parlò Zarathustra, il profeta dice:

«Ma oramai Dio è morto! O uomini superiori, quel Dio era il vostro pericolo più grave. Soltanto ora ch’egli giace nel suo sepolcro, voi potete dirvi resuscitati. […] Voi siete atterriti: v’incolse forse la vertigine? L’abisso vi si apre forse dinanzi spalancato? Forse il cane infernale abbaia contro di voi?».

È la più grande sfida dell’uomo superiore far fronte a un simile lutto, quando la coscienza è pienamente consapevole della condizione in cui ormai l’uomo si è palesato. E come in ogni evento traumatico, la prima reazione è un totale senso di vuoto, smarrimento e perdita di ogni riferimento; ancor di più, disperazione. Fin tanto che l’uomo non riesce a inserirsi nel flusso del divenire con coraggio, fin tanto che l’uomo non guarda in fondo all’abisso, superbamente, è impossibile tornare alla mediocre indifferenza dell’ultimo uomo: v’è solo disperazione e angoscia.

La disperazione non è un sentimento raro nel corso della storia. Moltissimi sono gli esempi: Il Gruppo del Laocoonte tra il I sec. a.C. e il I sec d.C., il Compianto su Cristo Morto (1463-1490) di Niccolò dell’Arca, i dannati del Giudizio Universale (1535 e il 1541) di Michelangelo, il Supplizio di Prometeo (1646-1648) di Salvator Rosa, e via dicendo. In tutti questi casi l’urlo di disperazione è sempre rivolto ad una causa manifesta, palese: c’è sempre un oggetto motivo della disperazione, più o meno intensa. Che sia una Maria che piange per la morte del figlio o il Titano che urla per lo strazio delle proprie viscere, il motivo è sempre dipinto e separato dal soggetto. L’Urlo (1893) di Edvard Munch (Løten, 1863 – Oslo 1944) costituisce un’eccezione, e proprio nella sua eccezionalità è la trasposizione pittorica del grido che annuncia sofferente la morte di Dio.

Evard Munch, pittore norvegese vissuto a cavallo tra XIX e XX secolo, è forse il più grande interprete dell’angoscia e del dolore di uomo, e non solo. Indubbiamente il vissuto tragico (la morte prematura della madre e della sorella, quando aveva 5 e 15 anni, a causa della tubercolosi, il rapporto disturbato col genere femminile, tra alcool, violenza e suicidio), unito a una salute fisica e psichica di per sé compromessa, influenzarono la sua poetica e le sue scelte artistiche. Ma, un po’ come anche per Leopardi, per Munch il disagio prettamente materiale e la depressione furono il preludio a una coscienza molto più ampia del male del suo tempo e dell’uomo stesso in generale, a un disagio “filosofico”: il dolore del singolo e il dolore dell’uomo, simboli privati e simboli universali si fondono nell’espressione più alta e cupa del Decadentismo. L’adorazione che Munch aveva per Nietzsche, di cui conobbe le idee nel periodo bohemien del soggiorno a Cristiania, testimoniata peraltro dai due ritratti commemorativi fatti dal pittore dopo la morte del filosofo, è prova della forte (e per altro confermata da Munch stesso) influenza che le teorie nicciane ebbero sulla sua arte.

In Munch non sempre abbiamo opere autobiografiche (che difatti costituiscono buona parte della sua smisurata produzione: pensiamo a La fanciulla malata o La morte di Marat): è il caso di Sera sul viale Karl Johan o dell’Urlo, dipinto in numerose versioni (quelle del ’93, del ’95, del 1910). Lo spunto del quadro è sicuramente autobiografico (celebri sono le parole di Munch a proposito della nascita del dipinto), ma il risultato finale è un sentimento universale, che trascende il singolo per diventare espressione dell’angoscia di fin de siècle.


Edvard Munch - L'Urlo (1893)

L’Urlo raffigura un sentiero in salita sulla collina di Ekberg sopra la città di Oslo. In primo piano una figura ormai solo vagamente umata, dal volto scheletrico e dal corpo senza forma, lancia un grido (Skirk) di fronte allo spettatore; gli occhi sono incavati, la bocca aperta in uno spasmo innaturale, ogni tratto distintivo del viso è scomparso, rendendo il soggetto più simile a un fantasma che a un uomo. Stessa sorte estetica tocca al paesaggio – così lo descrive il pittore: «il cielo si tinse all'improvviso di rosso sangue […] Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. […] E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura». Sullo sfondo, delle figure totalmente indifferenti al dramma che si sta consumando davanti ai loro occhi (forse, niccianamente parlando, ultimi uomini?). Notiamo innanzitutto una cosa: come già accennato prima, non c’è un vero e proprio motivo dell’urlo. Il protagonista è di fronte allo spettatore, ma l’assenza di un vero e proprio sguardo non può dirci se effettivamente sia volto verso chi guarda il quadro. Inoltre, riferendoci alle parole dell’artista («io tremavo ancora di paura... E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura»), non possiamo interpretare quest’urlo come semplicemente causato da un “paesaggio spaventoso”. Il paesaggio e la figura umana sono quasi un continuum di linee e colori, intimamente legati dalla stessa angoscia e, cosa più importante, dalla stessa sorte. Come anche in altri quadri, Munch utilizza le sembianze scheletriche per le persone per rappresentare qualcosa di più universale (e non a caso Disperazione, del ’91, che rappresenta un uomo in carne ed ossa, quasi un autoritratto, ha un tocco molto più personale e autobiografico). 

Disperazione (1891)
Il periodo in cui Munch dipinge è lo stesso in cui il positivismo e il darwinismo hanno ridotto l’uomo a una mera macchina biologica, preda delle leggi scientifiche della natura – di lì a poco Freud smaschererà le trame dell’inconscio col bisturi della scienza. Venuta ormai completamente a mancare ogni forma di trascendenza, riferimento, smascherata (dallo stesso Nietzsche talaltro) ogni forma di valore, certezza – avvenuta la morte di Dio, come abbiamo detto all’inizio, l’alternativa all’ ignorante indifferenza non può che essere, in un primo momento la disperazione. Il quadro mette in scena proprio ciò. L’ambiente completamente sconvolto e insanguinato è il simbolo di una realtà completamente demolita, senza più un senso, seppur illusorio. Ancor più precisamente, è il simbolo di una realtà la cui vanità è stata svelata: non a caso il titolo iniziale era, in tedesco (riferimento a Nietzsche?), Der Schrei der Natur, L’Urlo della Natura. È questo il senso profondo della morte di Dio, la verità assurda del nichilismo, il masso che inutilmente Sisifo, uomo che in poco conto tenne gli dei, è costretto a spingere alla cima di un monte per l’eternità. L’uomo non si può sottrarre a questo discorso, e nel quadro condivide lo stesso aspetto del cielo e dei fiordi. Diversamente da come spesso la critica ha interpretato, non è la natura a partecipare al grido e al dolore di un uomo: è l’uomo a partecipare alla svalutazione e alla morte di ogni senso del mondo. Il grido è tutto per la morte di Dio. L’aspetto scheletrico dell’uomo inoltre ne mostra tutta la debolezza, quasi a voler mettere a nudo la parte più fragile del corpo umano. In questo grido di dolore, straziante e pervasivo, il soggetto pone le mani attorno al viso, forse per difendersi, per separare sé stesso dal mondo che crolla, nel tentativo di conservare un minimo di senso. Le linee curve, solitamente proprie di opere che esprimono grazia o eros, qui sono sferzate, colpi di frusta. La tecnica mista, la corposità della pennellata e i colori scuri e stridenti contribuiscono all’atmosfera cupa e angosciosa del quadro.
Per questo uomo e natura condividono la stessa sorte: Dio è morto, e l’uomo superiore, cosciente e anzi compartecipe di questa morte, in un primo momento si dispera. Nel quadro solo la strada e le figure sullo sfondo appaiono dritte: queste, impassibili, «insetti umani in movimento», le definisce il pittore, forse incoscienti della verità che, come un ciel bas et lourd, sovrasta l’uomo e la natura tutta. Nella versione del ’95 addirittura un uomo è appoggiato alla staccionata, guarda il mondo morire e frammentarsi come se fosse la cosa più naturale.

Ritratto di Friedrich Nietzsche (1906)

Il soggetto del quadro è quindi, niccianamente, la disperazione per la morte di Dio. Eppure, sebbene la vita di Munch non fosse stata invidiabile, egli fu sempre consapevole del proprio genio e delle proprie capacità: perfettamente conscio della sua capacità di interpretare il proprio dolore e quello del mondo (inizialmente sotto l’ispirazione dell’amico e maestro Hans Jæger), non esitava a paragonarsi per esempio a Van Gogh, che pur considerava come suo modello ideale. Ad esempio negli anni ’90 a Berlino la sua pittura suscitò scandalo nella critica e contemporaneamente l’ammirazione degli artisti più rivoluzionari, affascinati dal suo crudo utilizzo del colore per esprimere le emozioni. Nonostante le critiche, Munch andò avanti: la sua pittura divenne sempre più audace. L’arte fu per Munch fin dall’età di 15 anni il mezzo attraverso il quale non solo superare i drammi della sua vita, ma superare costantemente sé stesso, rinnovarsi e trovare il proprio senso. L’angosciosa rappresentazione della disperazione universale diviene così un mezzo di rielaborazione e accettazione propositiva del tragico della vita: dopo la disperazione, l’uomo superiore danza verso la cima del monte – e danza anche e soprattutto se sa che dovrà risalirlo infinite volte. Munch influenzò profondamente tutto l’espressionismo: pensiamo alla corrente tedesca Die Brücke, imbevuta del pensiero nicciano, e il suo teorico Erich Heckel, fortemente ispirato dal pittore norvegese. Espose i suoi quadri in circa 400 mostre, dove ogni volta venne riconosciuto come maestro da sempre più artisti. La rappresentazione del dolore esistenziale di un uomo e dell’uomo divenne lo strumento e l’anima di una delle più importanti rivoluzioni artistiche della storia.

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