La Logica dell'Essenza hegeliana nel pensiero di Slavoj Žižek.

Sulla mancanza di fondamento.

Determinismo e utilitarismo sono intrinsecamente legati: se è vero che il soggetto cerca il massimo piacere e il minimo dolore secondo un calcolo, date certe condizioni sarà possibile dedurre il comportamento determinato del soggetto. La lezione dell'idealismo tedesco è invece che la spontaneità (egotica) è possibile solo sul fondamento di un atto riflessivo, di un accettare certe determinazioni che le mie più proprie, un'assimilazione, un determinare sé stessi. In questo senso, i miei impulsi mi determinano solo nel momento in cui li riconosco come tali – ossia, ne assumo la piena responsabilità. Tale assunzione delle proprie determinazione può anche risolversi nel concepire sé come determinati a essere il punto d'arrivo o un momento di un processo storico e teleologico. In questo senso la situazione non è mai “data”, ma sempre retroattivamente creata. L'autocoscienza non è mai un fatto meramente passivo quindi. Essa (appercezione trascendentale) è possibile solo sul fondamento dell'inconoscibilità noumenale della res cogitans. Non dobbiamo né possiamo però affermare che tutto ciò che è presupposto sia sempre in realtà posto a posteriori retroattivamente (fittivo). Qualcosa, per quanto sostanzialmente ed essenzialmente indefinibile né definito, “deve pur essere”, o esserci, ossia – qualcosa deve essere Reale a prescindere dal soggetto e prima del soggetto. E sebbene il grado, o la posizione del limite tra ciò che è fittivo e ciò che è Reale sia esso stesso fittivo, non si può per questo dedurre la totalità del fittivo. Es. il fatto che sia difficile separare natura e cultura non significa che tutto sia cultura.


...the Lacanian Real is the gap which separates the Particular from the Universal, the gap that prevents us from completing the gesture of universalization, blocking our jump from the premiss (that every particular element is P), to the conclusion (that all elements are P).

In altre parole, il Reale è ciò che impedisce di applicare il discorso particolare (es. questo è fittivo, quest'altro è fittivo ecc.) all'Universale come tale (tutto è fittivo). L'Universale resiste alla riduzione all'azione particolare o alla totalità delle azioni particolari – e questo in virtù del Reale. In altre parole ancora, l'irriducibilità dell'Essere all'ente da cui fittivamente interpretiamo l'Essere è il Reale.

Il Reale non è per questo un “nocciolo ontologico inviolabile”, irriducibile, “sacrale” che impone un arresto all'interpretazione – il limite autoimposto in questa maniera svolge il ruolo fondamentale nella costituzione del Simbolico, dell'orizzonte di comprensione – ogni orizzonte di comprensione pone il proprio irriducibile, il proprio oggettivo. In questa maniera il Reale è interpretato sì come reale (non sottoponibile a epochè ecc.) ma come giocante un ruolo fondamentale nella totalità dell'interpretazione complessiva – come un buco nero al centro di una galassia.

Every demarcation between the Symbolic and the Real, every exclusion of the Real qua the prohibited-inviolable, is a symbolic act par excellence. Such an inversion of impossibility into prohibition-exclusion occults the inherent deadlock of the Real.

Come nella prima Critica le cose reali noumeniche si incontrano solo nei paralogismi e nelle antinomie, ossia nei fallimenti delle forme dell'esperienza e della Ragione – o meglio, lo statuto noumenico di certe cose (anima, mondo e Dio) si mostra solo nel loro sfuggire al completo darsi alla Ragione – così il Reale si comprende solo nel fallimento della sua formalizzazione. Allo stesso modo, l'Uno si coglie come Uno solo attraverso il fallimento del tentativo dell'Intelletto di comprendere l'Uno stesso – e solo a partire da questo fallimento nascono i logoi

Se l'essenza di un ente è la totalità dei suoi presupposti (fittivi), ciò che non è essenziale è esattamente l'atto fittivo che fa sì che l'ente sia ciò che essenzialmente è e diciamo essere. Tale atto è un atto di identificazione – la cosa è una e il fondamento del suo essere una non può essere ritrovata nella propria in sé molteplice essenza. L'identità della cosa si fonda però sull'identità in sé del proprio fondamento, della cui potenza unificante partecipa – fondamento che è a sua volta l'id quod est che fonda l'esistenza e l'essenza della cosa stessa.

The positing of presuppositions chances upon its limit in the feminine' non-all; what eludes it is the real; whereas the enumeration of the presuppositions of the posited content is made into a closed series by means of the 'masculine' performative.

Identità, differenza, contraddizione.

L'identità è in sé dialettica, ossia – non si determina nella proposizione tautologica “a è a”, ma nell'opposizione con ciò che a non è, e in particolare in ciò che, in questa opposizione, di a resta uguale e “stabile”, sostanziale, nel corso intero del divenire della cosa – identity hinges upon what makes a difference. Ma proprio per questo, nel voler cogliere l'identità di una cosa, dobbiamo coglierla nella sua dialetticità, e dunque come differenza. Una cosa è ciò che è-in-quanto a sempre dialetticamente, in quanto in contraddizione con ciò che è non-a, o anche, anti-a (es. un uomo è in quanto servo solo in contraddizione con un padrone – altrimenti è solo un uomo). Senza la contraddizione tra a e anti-a, ossia, essendo a e il suo contraddittorio indifferenti l'un altro, questi stessi non sussitono. La contraddizione non è una mera dinamica tra due opposti, ma il sussistere in sé stesso di Qualcosa che è determinato e in quanto determinato (a) può essere opposto di qualcos'altro (anti-a). Questo “Qualcosa” si designa esattamente a partire dall'essere contraddittivo della determinazione “esterna” (essenziale/formale) della cosa, e dunque non in sé sussistente – in altre parole, fittivo. L'ente è (ma anche: io sono) ciò che elude la totalità delle determinazioni essenziali. In tale totalità manca l'atto fittivo che fa sì che l'ente sia ciò che essenzialmente si dice essere, ossia l'atto di identificazione stesso. L'atto di identificazione è un mero atto esistenziale? Ossia, è mero actus essendi? Posto che lo sia, l'actus essendi si scopre solo nel venir meno delle determinazioni essenziali, nell'indifferenza adialettica dell'oggetto rispetto a ciò che quell'oggetto non è e può non essere. Quanto resta, ciò che si determina solo nel mero atto di esistere (e non di essere alcunchè) è quel Qualcosa ($) retroattivamente prodotto come presupposto e esclusivamente relativo a sé stesso – e insieme ciò che è il Reale. Tale Qualcosa è il fondamento però delle specifiche contraddizioni determinanti, ossia, il fondamento di questa essenza piuttosto che di quella – ossia, la spontaneità. I termini della contraddizione sono assolutamente paralleli e sussistenti solo nella contraddizione.

Consequently, we only pass from opposition to contradiction through the logic of what Hegel called oppositional determination: when the universal, common ground, of the two opposites encounters itself in its oppositional determination, that is, in one of the terms of the opposition.

Ossia, dati anti-a, qual è il fondamento comune di questa opposizione? L'abbiamo detto – quel Qualcosa che determina quale debba essere la determinazione d'essenza (banalmente, a come opposito ad anti-a piuttosto che b ecc.). “Incontrando sé stesso” scopre quella opposizione (oggetto e suo opposto “esterno”) come la natura stessa del sussitere dell'essenza dell'ente, ossia come contraddizione determinante. Questo Qualcosa si incontra in uno dei termini dell'opposizione, es. in a, e si identifica con esso. Di conseguenza il Qualcosa si eleva a quel generale – id quod est – a partire dal quale le varie opposizioni sono possibili, e insieme si esprime in uno dei due termini dell'opposizione. L'opposizione non è più “parallela”, ma si sbilancia: da una parte a che è insieme un termine individuale e il generale, dall'altra anti-a che è contrassegnato da una differenza specifica. Non siamo lontani dall'idea classica di Sommo Bene, insieme universale fondamento ontologico del mondo e Bene specifico rispetto a cui tutto il resto è male e non-essere. La contraddizione è la natura della relazione tra il Qualcosa e a, ossia la contraddizione tra il Qualcosa in quanto anti-a come ciò che negando determina a, e dunque quel Qualcosa nel suo essere a. In altri termini, l'actus essendi è actus essendi essentiae quae est (in quanto dialettica). Così anti-a è un momento di quel qualcosa che diciamo essere-a, non qualcosa di esterno, e solo in questo senso determinatio est negatio. La contraddizione è tra il porre un enunciato e il contenuto enunciato.

Forma/essenza, forma/materia, forma/contenuto.

Prima superficiale dicotomia: forma esteriore (pura apparenza, mutevole e ingannevole) e essenza interiore (immutabile). Ma non bisogna credere che la forma esteriore possa essere accidentale rispetto all'essenza interiore – l'espressione, la manifestazione di un'essenza ha anzi sempre un peso ontologico parzialmente indipendente dall'essenza stessa e anzi, modifica l'essenza stessa. L'essenza deve fare dunque i conti con la propria espressione, e in ciò viene concepita astrattamente da ogni determinazione che è, in ultima analisi, formale. Se le determinazioni si risolvono nella forma, l'essenza resta qualcosa di indeterminato e informe, in senso genericamente aristotelico, da formarsi – ossia, materia. Seconda dicotomia: forma determinata e materia indeterminata. La materia è la mera sussistenza della cosa (il fatto che la cosa sia), il sostrato, mentre la forma determina che cosa la cosa è. La materia non è solo una ὕλη, dotata di una qualche potenza determinata, ma anche e sopratutto il sostrato comune e totalmente indeterminato di ogni ente. Al contrario, la forma a sua volta è principio di individuazione, che dà esistenza singolare a una sostanza come sinolo di materia e forma, e contemporaneamente l'Universale che veramente è, l'idea platonica (pure nella sua immanenza). Dalla contraddizione tra materia puramente passiva e indeterminata e forma insieme singolare e universale emerge questo, che la materia deve essere già in sé stessa articolata, costituita, possidente una struttura inerente. Terza dicotomia: forma e contenuto. Ma il contenuto è dunque materia formata: materia signata – e in questo senso la cosa ha una sua individualità grazie alla materia; materia formata nel senso che partecipa di un Universale, non è più mera materia. L'Universale è in relazione dunque con la materia in maniera tale da essere forma.

...the couple content/form (or, more pointedly, content as such) is just another name for the tautological relationship by which form is related to itself. For what is 'content' if not, precisely, formed matter?

La forma sarà quindi l'attualizzazione accidentale di un contenuto necessario, immutabile nella sua verità. Il contenuto è la mediazione della materia per mezzo della forma, e al contrario la forma è il modo in cui il contenuto trova la sua espressione nella materia. La dicotomia contenuto/forma, a differenza di quella materia/forma, è tautologica: il contenuto è la forma stessa nella sua determinazione oppositiva. Le tre dicotomie già anticipano la dialettica di nozione, giudizio e sillogismo (in cui qui il termine medio sembra essere proprio la forma).

Forma, Reale, Fondamento completo.

L'atto della fondazione formale è meramente tautologico, non fornisce nessuna informazione. Esso consiste nel “condensare” un insieme di proprietà, fatti ecc. in una forma unica in maniera tale che tale forma non ci dica nulla di più rispetto a quell'insieme di proprietà, fatti ecc. Ad esempio, un'operazione matematica è di questo tipo: “5” non ci da' informazioni maggiori rispetto a “2+3”. In altri termini, la forma unica da noi prodotta può essere completamente e interamente parafrasata o esaurita dall'insieme di proprietà, fatti ecc., vice versa da tale insieme non emerge nulla. Un altro esempio di fondamento formale è la tipica risposta newtoniana a una domanda del tipo «perché questa pietra è pesante?»: «a causa della gravità ecc.». Notiamo che l'atto di fondazione formale non equivale ad un giudizio analitico, ma può tranquillamente essere quello di un giudizio sintetico a posteriori. Quando induttivamente ampliamo la nostra conoscenza dell'universale, anche il caso singolare a partire dal quale abbiamo ampliato la nostra conoscenza conosce questo ampliamento, venendo interpretato (nella deduzione) come un caso particolare del nuovo universale (causalità espressiva). Di conseguenza tra la forma universale e il caso particolare non c'è una differenza nell'insieme di proprietà, fatti, predicati ecc. che sono veri per l'uno e per l'altro. Il fondamento formale non solo è ad esempio necessario per ogni chiarificazione del linguaggio scientifico, ma, cosa più importante, permette la ricerca del fondamento reale (causalità transitiva). A partire da questo tipo di movimento noi possiamo immaginare non solo il comportarsi così e così delle cose come casi particolari di una regola universale, ma l'esistenza stessa in sé di questa regola (come «legge naturale» ad esempio, o qualunque altro modo in cui si afferma l'esistenza della cosa in quanto essente razionale). Il risultato non è un mondo “formale” che accompagna il mondo sensibile, ma una “materialità spirituale”, un mondo dotato di consistenza e peso ontologico e insieme attinente all'universale – un'ipostatizzazione delle necessità logiche del mondo. È il caso del mondo delle idee platonico (la necessità di un qualcosa per la quale tutte le cose sono ciò che si dice che sono ci porta a presupporre un'idea esistente in sé e prima del mondo empirico), del paralogismo trascendentale (dalle caratteristiche puramente formali dell'io deriviamo la res cogitans stessa), dell'idea di etere (che insieme riempie lo spazio e rende possibile il movimento – in Kant, un tentativo di ridare realtà a quello che era stato ridotto a forma pura della sensibilità) ecc. – e in un certo senso, non è di questo genere l'idea contemporanea di campo? Il fondamento formale mostra quindi la possibilità di un fondamento reale. Nella cosa, nel fenomeno la distinzione tra fondante e fondato smette di essere formale, ma è iscritta nel fenomeno stesso, di cui un momento è “causa” degli altri momenti dipendenti. Quando affermiamo che i fenomeni della psiche non sono altro che il risultato dei fenomeni chimici che avvengono nelle sinapsi ecc. stiamo compiendo un atto del genere (la necessità logica di congiunzione tra mente e corpo viene ipostatizzata nel cervello – Descartes tentò esattamente questo con la ghiandola pineale – che assume ora il ruolo di momento fondante reale). Un altro esempio di questa distinzione è quella marxista tra struttura e sovrastruttura. È chiaro che il fondamento reale, per essere tale, deve inscriversi nella rete di relazioni tra fenomeni particolari di cui è fondamento, e questo lo sovradetermina (causalità sovradeterminante). Ed è così che giungiamo al fondamento completo, ossia, all'essere il fondamento fondato nella totalità delle determinazioni di cui è fondamento. Il fondamento completo è sintesi di fondamento formale e reale: il fondamento del fondamento reale sta nella necessità formale che fa di un dato fenomeno il fondamento reale – esso è dunque fondato in sé stessonella totalità di relazioni con il fondato. In altri termini, il fondamento del fondamento è il suo esser-fondamento. È evidente la forma del fondamento formale , che però non è più un vuoto atto tautologico, ma una tautologia che contiene i due momenti dialettici di cui sopra. Il fondamento del Tutto è quella parte del Tutto che si identifica con il Tutto stesso. Ma ciò è possibile solo in una rete di determinazioni, ossia di senso, in un universo simbolico che necessiti questa sovradeterminazione del fondamento completo.

Dall'“in sè” al “per sè”.

Ogni fenomeno è insieme espressione di una natura, un'essenza fondamentale della cosa, e attualizzazione della cosa in certe circostanze. C'è una radicale distanza tra l'essenza di una cosa, immutabile ed universale, e la contingenza delle condizioni che permettono che quella cosa sia ciò che è – l'attualizzazione dell'universale è sempre vincolata dai casi particolari. Così un uomo è libero, e insieme determinato dal suo ambiente, il suo circolo di comprensione, la tradizione storica in cui si trova ecc. Insieme però risulta difficile decidere dove finisca l'essenza di una cosa e dove comincino le condizioni della sua attualizzazione. Ad esempio, è vero che l'anima è la forma del corpo, ma il corpo deve avere già in sé una data forma, disposizione, ordine, affinché l'essenza venga espressa come anima. L'irriducibilità di questa distanza può essere superata solo attraverso la mediazione del soggetto, per cui la cosa non è più in sé solo l'atto di una potenza che si svolge dall'interno, né è un fatto contingente e determinato solo dall'esterno, ma per sé la potenzialità dell'oggetto rimane anche nella sua attualità esterna e contingente sotto forma di eteronormatività – in altre parole, la potenza della cosa consiste anche nella possibilità che questa cosa venga determinata, dal mondo esterno, dalla natura ecc. per essere ciò che quella cosa ha da essere. L'essenza di una cosa dunque non è solo interna alla cosa, ma comprende lo stesso contesto in cui la cosa deve essere affinché sia in atto. Un esempio di questa dinamica è quella dello studente, la cui essenza presuppone l'esistenza di una determinazione esterna, quella del maestro, del professore, che contribuisca all'attualizzazione dello studente in potenza. E ancora: la classe lavoratrice qua soggetto rivoluzionario e il Partito, ma anche un albero e il Sole grazie al quale sarà possibile la fotosintesi (non sono già inscritte infatti nel codice genetico del vivente anche le condizioni esterne necessarie all'essere in atto, l'ambiente, il contesto?) ecc. Ma questo può essere compreso solo a partire da una mediazione soggettiva che formuli la nozione della cosa, del suo funzionamento dell'ambiente ecc. In this sense, the 'in-itself is actuality in so far as it has not yet reached its Notion. Noi non produciamo mai idee di cose pure (quindi, mai l'idea di uomo, l'idea di albero ecc.), ma sempre nozioni, regole di cose il cui ambiente è essenziale alla definizione della cosa stessa. Che idea sarebbe quella di albero senza l'idea di suolo, ossigeno, luce ecc.? O l'idea di uomo, considerato in maniera tanto pura quanto irreale? Le potenzialità presupposte nella cosa devono “superare il test” delle condizioni esterne – se la cosa fallisce nella sua attualizzazione, bisognerà ricercare la colpa non nelle circostanze, ma in quelle stesse potenzialità presupposte evidentemente non presenti. Ad esempio, il fallimento di una prassi politica non si deve mai alle circostanze non adatte, ma all'insufficienza della teoria, in pratica all'incapacità di sviluppare una teoria tale che la prassi possa reggere il confronto col contesto e trarre da questo i motivi della sua riuscita. Lasciar essere una cosa significa mostrarla nella sua inadeguatezza rispetto alla propria essenza – la cosa non incontra mai le proprie aspettative, ma è destinata al fallimento, a rivelarsi come un nulla nel momento in cui è lasciata essere.

Nella Critica della Ragion Pura Kant rifiuta la prova ontologica, affermando la contraddittorietà della nozione di esistenza necessaria: l'esistenza non è un predicato, ma l'elemento passivo della conoscenza, il fare esperienza di qualcosa in quanto esistente. Ciò che la cosa è si dà all'Intelletto, ma il fatto che la cosa sia richiede un'Intuizione dell'oggetto fenomenico. L'esistenza non è un predicato, ma il modo in cui la cosa è in relazione con i suoi stessi predicati, ossia è in relazione con sé stessa attraverso questi predicati. Ma per conoscere questi predicati, dobbiamo escludere l'esistenza, e il darsi della cosa per sé non può che mostrare l'impossibilità dell'esistenza della cosa accanto alla conoscenza dell'essenza della cosa, nelle sue potenzialità. In termini di teologia razionale, la nozione di un Dio la cui esistenza deve essere necessaria cede di fronte all'impossibilità di affermare l'esistenza stessa, al di là della sua necessità. L'esistenza è per definizione contingente (gettata), dunque non può essere sensatamente implicata a priori in una nozione, ma sorge dal funzionamento della cosa attraverso i predicati che ne costituiscono la nozione. In altre parole, l'esistenza di una cosa sorge dall'entrata in rapporto di una cosa con la sua nozione. La nozione indica le condizioni di esistenza della cosa, e scoprendosi adeguata a queste, la cosa esiste. La sintesi tra conoscenza essenziale sub specie aeternitatis e esperienza sub specie durationis non può che mostrare l'impossibilità della sintesi come congiunzione – ossia, l'impossibilità della prova ontologica, non solo (e non tanto) per Dio, ma per l'intera esistenza.

Fondamento vs condizioni.

Solitamente, dovendo distinguere tra il fondamento “profondo” di qualcosa e le sue condizioni, consideriamo il primo sul livello della necessità, le seconde sul livello della contingenza. Ad esempio: il fondamento della depressione è una predisposizione genetica, o comunque propria dell'individuo biologico, le condizioni scatenanti il contesto sociale, l'alienazione ecc. Notiamo però che i contenuti di queste sono assolutamente intercambiabili (la depressione ha fondamento nell'alienazione sistematica, e si manifesta lì dove le condizioni biologiche permettono l'insorgere dei sintomi ecc.). Un altro esempio può essere il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Viene prima la scoperta dell'antichità (testi antichi – pensiamo al lavoro di Petrarca su Cicerone –, rovine ecc.) o il zeltgeist di rinascita culturale che permette un apprezzamento della classicità? Sarebbe stato possibile il Rinascimento senza l'avanzamento filologico? E sarebbe stato possibile questo se il Medioevo cristiano non si fosse già esaurito da sé? L'impasse viene superata quando lo spirito del Rinascimento presuppone sé stesso nelle condizioni esterne che lo attualizzano. Ciò che resta del mondo classico non viene apprezzato perché il zeltgeist corrispondente è già presente, in attesa dei ritrovamenti (le condizioni), ma porta con sé stesso lo spirito necessario a quella rinascita (il fondamento). In questo senso il mondo dei Greci e dei Romani diventa il mondo classico, e il Rinascimento un ritorno alla grandezza degli antichi. Tornando invece all'esempio (meno poetico, ma non meno interessante) della depressione: le condizioni biologiche dell'uomo stesso favoriscono la formazione di società depressive – ossia: la possibilità stessa di una depressione sistematica è insita nella biologia umana, che non la causa, ma la rende possibile. A questo punto il fondamento e le condizioni non si presuppongono più vicendevolmente, ma la cosa (secondo il contenuto del suo fondamento) è già contenuta nelle condizioni esterne che ne permettono l'attualizzazione contingente. In questo senso diventa possibile uno studio approfondito delle determinazioni sociali e della sistematicità della depressione anche attraverso lo studio biologico (medico, psichiatrico ecc.), così come la rottura col Medioevo si consumava nel ritorno allo spirito classico per mezzo dello studio dei classici stessi. Tale gesto di autoposizionamento è tautologico, è radica la cosa ideale (fondante) nella cosa reale (condizionante), attraverso la quale noi possiamo pensare l'idealità stessa. La cosa torna in sé stessa.

Il tautologico “Ritorno della Cosa a Sè stessa”.

In questo modo, da un «fascio di proprietà» estrinseche si forma l'identità della cosa. Il porre un nome ad un insieme di proprietà organizzate non aggiunge alla cosa alcuna proprietà, ma introduce la cosa stessa come possibile – il suo fondamento – nelle proprietà stesse. La cosa acquista, qualsiasi cosa ciò voglia dire, un carattere di realtà: essa non è solo fittiva, ma attraverso il ritorno tautologico della cosa a sé stessa, si determina come realmente essente. Ma allo stesso tempo la realtà “aumenta”, includendo ciò che ha senso solo sotto un dato nome, un ente di ordine superiore. Un esempio è l'”ebreo” all'interno dell'ideologia nazista. Esso condensa (e nasconde) sotto il nome di “ebreo” (e tutto ciò che vi ruota attorno) tutte le contraddizioni e i disagi della Germania post bellica. In questa maniera l'antisemitismo nazista ha un “fondo di verità” (molto più che oggi, dove il nostro capro espiatorio, il “negro”, è un costrutto assolutamente illusorio), ossia l'effettivo disagio (l'inflazione, l'umiliazione politica, la disparità sociale ecc.) e insieme provvede ad una vera e propria “realtà aumentata”, esperita all'epoca, naturalmente, come fondamentale: per il tedesco dell'era di Hitler ogni cosa è prova del complotto semitico: «la famiglia Grossman sembra così normale – sono bravi a mascherare i loro intrighi!». In questo modo, ponendo il nome, possiamo identificare il fondamento come già presupposto nel fascio di proprietà che sotto il nome acquista senso fittivo. Ma il movimento di identificazione, così esplicito in questo esempio, sembra essere lo stesso per ogni (tipo di) ente. In questo senso ogni ente, nella sua identità, è sempre all'interno di una rete ideologica di significati, la quale permette l'identificazione stessa. In questo senso ogni significato, ogni nome, ogni identità fa riferimento ad una vera e propria teoria del tutto, sempre presupposta, che permette le molteplici identificazioni. In questo senso ogni tentativo di rinunciare a visioni complessive omni-implicanti è ingenuo e disconosce la struttura stessa della conoscenza.

Così come possiamo sintetizzare le condizioni esterne in un fondamento presupposto dando un nome, così possiamo comprendere una serie di contingenze come una necessità complessiva. Qualcosa è contingente solo quando non trova posto all'interno di un discorso che ne esprime la necessità. L'Etica spinoziana è un esempio di come vi possano essere molteplici livelli di necessità (Spinoza e la libertà: Jacques il fatalista). Ma in questo senso la necessità è sempre il risultato di un atto di identificazione precedente alla statuazione della necessità stessa, quindi libero. Si ribalta così l'idea spinoziana di libertà come comprensione della necessità: è la necessità a dover essere comprese a partire dall'atto di libera statuazione tautologica. Voilà pourquoi Hegel n'est pas spinoziste. La cosa torna a sé stessa nei suoi stessi presupposti esterni, e in questo senso ottiene identità. Questo non è possibile in un contesto spinozista, in cui la cosa si dissolve nei molteplici presupposti esterni e, trascendendo nella serie di cause, in Dio.

Un movimento simile lo troviamo nell'analitica trascendentale kantiana: cos'è il Noumeno se non il contrassegno vuoto della realtà della nostra esperienza, ciò che convalida la nostra realtà come reale senza aggiungervi nulla in termini di contenuto? Perché, ricordiamo, per Kant il mondo fenomenico non è un “velo di Maya” che cela la cosa in sé, ma è assolutamente reale, il frutto dell'incontro reale tra il soggetto trascendentale (e il suo corredo di categorie) e l'oggetto trascendentale. Il Noumeno è il contenuto di un atto insieme sintetico e tautologico: astraendo dal contenuto dell'esperienza passiva (estetica, intuitiva e sintetica), ciò che resta è il puro correlato “Oggetto” del Soggetto – ossia, è posto sinteticamente dal soggetto come pura cosa in sé. In questo senso abbandoniamo la tipica interpretazione di Kant per cui il mondo si distingue tra due poli (soggetto e cosa in sé), di cui il primo incontra il secondo per mezzo delle intuizioni e delle categorie. Attraverso la posizione tautologica della cosa in sé il soggetto convalida l'esperienza come reale, e le categorie dell'Intelletto come forme reali della realtà – ad esempio, ciò che noi esperiamo come necessità è realmente necessità. La cosa in sé libera il mondo dall'arbitrio del soggetto trascendentale. In questa maniera il soggetto ha un mondo concreto in cui conoscere e agire moralmente. Non per questo si retrocede ad una posizione ingenuamente realista: la cosa in sé resta il contrassegno del fatto che l'identità di ciò che è reale risiede non nella cosa reale ma nell'attività sintetica del soggetto. In altre parole: cercando nel fascio di proprietà il senso dell'identità della cosa, cercheremo invano, poiché ciò che cerchiamo non è altro che la cosa in sé presupposta attraverso l'attività sintetica tautologica. Questo permette di passare da «x è x poiché possiede l'insieme y di proprietà» a «x possiede l'insieme y di proprietà poiché è x». Per questo, a fronte della Dialettica trascendentale, bisogna considerare le idee della Ragione come aventi un ruolo non meramente regolativo, ma costitutivo. È necessario postulare la realtà dell'anima, di certi caratteri del mondo e di Dio per render conto della normalità e della coerenza dell'esperienza – è necessario che la “materia trascendentale” che il soggetto incontra sia coerente e stabile nel suo “contenuto trascendentale”. L'esperienza stessa, frutto dell'attività sintetica dell'uomo, si regge sull'ultimo e fondamentale atto sintetico tautologico che, ponendo la cosa in sé, pone la propria sensatezza in qualcosa che è al di là dell'attività sintetica dell'Intelletto. In Kant il processo di produzione della oggettività sembra essere una dialettica tutta interna al soggetto: l'oggetto che esperiamo in modo più completo non è un mero fenomeno (Gegestand), ma un'entità intelligibile e razionale (Objekt).

L'assoluta agitazione del divenire.

Tornando alla questione della contingenza, sorge spontaneo chiedersi se essa sia una proprietà ontologica delle cose (contingenti in loro stesse) o il prodotto di nostri limiti conoscitivi. Nel primo caso la contingenza è parte della realtà, nel secondo la realtà è completamente determinata. In nessuno dei due casi però la conoscenza della realtà sembra avere qualche rapporto con la realtà stessa. Il soggetto è assolutamente esterno rispetto al proprio oggetto, che può essere conosciuto/non conosciuto. Hegel supera questa impasse: il processo conoscitivo non è esterno alla realtà, ma influenza direttamente l'essere di ciò che è conosciuto (e quindi di ciò che conosce). Per dirla con Kant: le condizioni di possibilità della nostra esperienza sono le condizioni di possibilità degli oggetti stessi dell'esperienza. In questo senso l'incompletezza della nostra conoscenza testimonia una incompletezza ontologica dell'oggetto stesso. In particolare, l'apparente contingenza “epistemologica” nasconde l'apparenza della necessità, della cosa in sé. Ma la cosa in sé si ritrae per definizione dalla conoscenza. La necessità appare allora come postulazione, mentre ciò che appare concretamente mantiene, in una certa misura, la dimensione della contingenza. Se la contingenza è un'apparenza che nasconde una necessità – ossia, la contingenza è il prodotto di un limite epistemologico – allora la necessità nascosta non è che un'apparenza di sé stessa. In questo senso l'irraggiungibile cosa in sé, come sfera dell'incondizionato preclusaci dalla richiesta di condizioni sempre più primitive in indefinitum propria della Ragione, è un'apparenza essa stessa che nasconda la propria necessità, ossia la necessità della postulazione tautologica. La necessità che ha il soggetto di, per così dire, costruirsi gli oggetti della propria esperienza, è legata ai limiti epistemologici che la condizionano.

Ricapitolando, oltre le due posizioni circa necessità e contingenza (livello ontologico: esistono cose necessarie e cose contingenti; livello epistemologico: la differenza si fonda sulla nostra ignoranza circa la totalità delle cause: è la posizione di Spinoza – vedi ad esempio Etica, parte I, prop. XXXIII, scolio I), è possibile una terza posizione: necessità e contingenza come due momenti della stessa unità di attualità (ciò che è attuale si conosce come necessario attraverso la conoscenza dell'essenza e delle cause necessarie) e possibilità (ciò che è possibile si conosce nella sua contingenza quando, a partire dalla conoscenza dell'essenza e delle cause, è impossibile determinarne l'esistenza necessaria – vedi Etica, parte IV, definizioni III e IV). Una simile posizione è naturalmente impossibile nella filosofia spinoziana. Contingenza e necessità sono rispettivamente il modo soggettivo e oggettivo della stessa cosa, il divenire che separa soggetto e oggetto e la fermezza che li riconcilia. La stessa cosa è insieme un divenire in “costante agitazione” e un essere (esse), ha una storia, che si svolge secondo un ventaglio di possibilità e si “conclude” (ossia, comprendiamo la cosa nella sua completezza temporale) secondo necessità (la “funzione” di un mutamento è determinabile solo in sua conclusione). Non dobbiamo però considerare questa dualità come un fatto meramente epistemologico, per cui fin tanto che la storia della cosa non è conclusa non abbiamo abbastanza informazioni per determinare con certezza il suo essere. I due momenti sono, abbiamo detto, il momento soggettivo e oggettivo della stessa unità. Non possiamo ridurre l'uno sull'altro. Né la posizione oggettiva è “più vera” (questa è la prospettiva “scientifica” necessaria all'osservazione oggettiva dei fenomeni fisici), né lo è quella soggettiva (tale per cui la necessità esperita è un'indebita oggettivizzazione di un processo libero). Decidere tra una delle due posizioni, che potremmo definire rispettivamente della fattualità e della fittività del mondo, pur mantenendo l'unità ontologica del mondo, dimentica l'ontologica indecidibilità delle posizioni stesse. Dobbiamo sublare l'apparente susseguirsi di accidenti in una regola necessaria, un'essenza conchiusa, o considerare l'essere di una cosa mantenendo aperte le sue irriducibili possibilità interne?

L'Attualità del Possibile.

Ogni considerazione circa le possibilità di qualcosa – o meglio, le condizioni di possibilità, parte sempre da un'attualità presupposta, dalla quale si astrae verso le sue condizioni. Com'è possibile (pun intended!) considerare le pure possibilità di ciò che in nessun modo ha raggiunto l'attualità? Come si possono considerare le possibilità di “altre cose in sè”, qualitativamente diverse da quella attuale, se non da un punto di vista formale (ammesso che ciò sia possibile)? In altre parole, ciò che è possibilità, in contrapposizione all'attualità, è a sua volta “attuale”, esiste attualmente come possibilità? La differenza tra attualità e possibilità è solo formale, vale a dire, il reame delle possibilità esprime solo le condizioni di possibilità di ciò che attuale nel mondo attuale, o comprende realmente anche le condizioni di possibilità di qualcosa di assolutamente altro rispetto al mondo attuale (pensiamo ad esempio al “migliore dei mondi possibili” leibniziano, che è tale solo perché gli altri mondi sono attualmente possibili)? Ciò che appare è la difficoltà nel concepire l'attualità senza la sua possibilità, ossia, senza la libertà della sua esistenza, la moralità della sua esistenza, senza quel “Bene al di là dell'essere” di platonica memoria che regge non solo l'essere così, ma l'esser-così delle cose. Nel momento in cui ci tentiamo di unire possibilità ed attualità come due aspetti dello stesso mondo, scopriamo la difficoltà nel passare dalla possibilità di questo e di quello alla possibilità del tutto. Mentre ogni cosa, ogni ente od evento ha le sue condizioni di possibilità, non possiamo dire lo stesso del tutto. Da questo elemento emerge ancora il Reale – la cui formalizzazione fallisce nell'impossibilità della prova ontologica. La contingenza radicale del mondo resiste ad ogni discorso, che inevitabilmente la elude.

La possibilità può essere concepita in due sensi: in quanto potenza di un'ἐντελέχεια, o in quanto contrapposta a ciò che è attuale (una “mera” possibilità). Nel primo caso la potenza è già attuale, ancora prima di attualizzarsi, in quanto essa esprime una reale possibilità nel mondo. Tale potenza, o δύναμις, si riconosce a partire dai suoi fallimenti, che in quanto tali testimoniano la possibilità in quanto “ancora aperta” – in questo senso, è la forma stessa della libertà. Ne facciamo esperienza in campo morale, quando la voce della coscienza «avresti potuto fare di più!» ci mostra la realtà della possibilità non attualizzata: essa era lì, ciò che è mancata è stata la nostra volontà in atto necessaria a portare in atto ciò che era in potenza. Nel secondo caso, la “mera possibilità” coincide con l'impossibilità. È possibile un terzo modo di concepire la possibilità, tale per cui essa manifesti proprietà che si perdono nel momento dell'attualizzazione – tale per cui l'attualità sia meno della possibilità? Sì, e un esempio drammatico è il gioco di potenza portato avanti da Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Entrambe le parti possedevano enormi armamenti atomici, e la guerra tra le due era combattuta proprio sul livello della corsa agli armamenti. Quanto più alto era il potenziale (la possibilità) distruttivo, tanto maggiore era la potenza. Ma entrambe le parti sapevano che tradurre in attualità (vale a dire: guerra nucleare) questa possibilità avrebbe reso entrambe le parti estremamente deboli. Ogni forma di potere peraltro si regge sulla mera potenzialità, al punto che interpretiamo gli sfoghi di violenza come segni di impotenza e crisi. Come nota Nietzsche nella Genealogia della Morale, la potenza di un sistema si calcola a partire dalla sua capacità di sopportare e perdonare. Questa è la vera attualità della possibilità, l'attualità di una potenzialità che funziona attualmente proprio in quanto tale. Essa non necessita di tradursi in attualità per essere qualcosa di reale, anzi. Lo scarto che c'è tra la possibilità e la “mera possibilità”, che viene perso nel momento dell'attualizzazione, è il Reale qua impossibile.

Il Reale come reame della Volontà.

Ogni discorso sembra trovare difficoltà ad affermare la contingenza del mondo, ossia l'attualità della possibilità “inespressa” del mondo, il fatto che il mondo non solo sarebbe potuto, ma ancora può essere altrimenti. Tale attualità è per così dire complementare all'attualità del mondo, cui non corrisponde alcuna possibilità privilegiata (il primo senso di cui sopra). Ciò non indica necessariamente la minaccia di una rivoluzione imprevista nelle leggi della logica o della fisica, bensì la assoluta non necessità dell'attuale configurazione. L'attualità del nostro mondo non indica la sua (condizione di) possibilità relativa come favorita. L'attualità del nostro mondo non rivela alcun Bene al di là dell'essere responsabile dell'attualità del nostro mondo in quanto perfetto, degno di esistere. Ciò che è irriducibile a ogni formalizzazione è lo scarto che c'è tra le condizioni di possibilità del nostro mondo (il Bene, la prova ontologica à la Spinoza ecc.) e le possibilità ancora attuali di un mondo radicalmente diverso. La domanda che ci poniamo (cui non intendiamo nemmeno provare a rispondervi) non è (la pur perturbante) «perché v'è il tutto anziché il nulla?» ma «perché il mondo è proprio così?». L'impossibilità della risposta lascia emergere il Reale. Esso è lo scarto tra il mondo in quanto necessario e il mondo in quanto contingente. Rispetto alla dualità precedente, in cui la contingenza si reggeva sull'assoluta agitazione del divenire, sulla soggettività in quanto aprente le possibilità, ora non possiamo chiamare alcuna soggettività a scegliere questo mondo piuttosto che un altro. All'interno dell'ordine simbolico necessario a rendere conto del mondo, il Reale compreso inautenticamente è il Bene (Dio, ecc.). Non pretendiamo risolvere «the inherent deadlock of the Real», tentare una comprensione autentica dell'esser-così del mondo. Possiamo invece mostrare che, come il Reale si coglie a partire dal fallimento del discorso intorno ad esso – proprio perché il discorso può solo “gravitarvi” attorno, senza mai coglierlo direttamente – così il discorso si regge sul disconoscimento produttivo del Reale stesso, come il disco di accrescimento attorno al buco nero.

Possiamo riproporre però lo schema che abbiamo incontrato prima circa lo statuto della necessità e della contingenza, in questa forma: il Reale ontologicamente non-è, dunque il nostro orizzonte di comprensione/predicazione ruota intorno ad un nulla; il Reale ontologicamente è, ma il nostro orizzonte di comprensione/predicazione è limitato e questo ci sfugge. Entrambe le posizioni sono insufficienti: la prima disconosce la problematicità del reale (la rinuncia alla sua simbolizzazione risulterebbe indolore, ma non è così); la seconda non rende conto del ruolo che il Reale gioca nel processo di simbolizzazione, sebbene interpretato “inautenticamente”. Nei modi della teologia altomedievale: secondo la catafasi, il Reale non-è, e viene simbolizzato come Bene, Dio ecc.; questa posizione è insufficiente, dunque l'apofasi segna il fallimento del discorso, affermando che il Reale non può essere simbolizzato come Bene, Dio ecc. V'è però un terzo momento, che gli altromedievali definivano super-essenziale, in cui entrambi i momenti vengono sublati. L'“essenza” iniziale che si riconosce come indice del fallimento stesso nel secondo momento viene negata in maniera diversa. In ambito teologico si afferma che «Dio è più che verità», la negazione dell'attributo della verità operata dall'apofasi va a costituire positivamente Dio (diremo che Dio è più che verità che, nota Eriugena, è in fondo lo stesso che dire che non è verità, ma non diremmo mai che Dio è più che menzogna). Nel nostro ambito possiamo allora provare a determinare il Reale come “più che Bene”, “più che Dio”. Ma il Reale era lo scarto tra le molteplici possibilità attuali. Ora, nella possibilità attualmente attualizzata, il Reale è (stato) compreso come Bene, Dio ecc. – ma trovandosi questo al di là di questi modi di comprensione in una maniera tale da determinarlo positivamente, in quanto scarto dovremo affermare che esso è “più che” qualsiasi ancora possibile, ma attualmente non ancora attuale mondo di comprendere il Reale. Immaginiamo che tutte le attuali possibilità inespresse si siano attualizzate (ad esempio, nel caso di universi paralleli – perché no, anche nel senso leibniziano, in una maniera tale per cui noi avremmo la fortuna di trovarci nel migliore, a differenza di esseri alieni più sfortunati). Trovandoci in un universo in cui è possibile qualcosa come questo tipo di filosofia, possiamo dire che il Reale è irriducibile a tutte le molteplici attualizzazioni, definendosi come “più che Bene” qui, “più che x” altrove, “più che y” altrove ancora. Ma essere “più che” determina positivamente il Reale. Ci troviamo di fronte a un tipo particolare di negazione determinante. Al contrario del celebre esempio del caffè senza latte diverso dal caffè senza crema, qui ci troviamo con un caffè senza tutto, tale per cui la negazione di tutto lo determina positivamente. Ma lo determina nel suo modo di essere uno scarto, ossia di essere il contrassegno della contingenza di ogni singola possibile attualizzazione, contingenza non simbolizzabile. In questo modo il Reale si scopre essere irriducibile a ogni orizzonte di comprensione, ogni discorso, ogni simbolizzazione proprio perché è in sé stesso la causa della propria non-simbolizzabililtà. La forma della negazione apofatica viene ricondotta all'interno del Reale stesso. Ciò che appariva come un limite dell'orizzonte che tenta di dire il Reale si scopre essere un limite nel Reale stesso, una su intrinseca resistenza alla simbolizzazione. Ma proprio in virtù di questa sua “natura”, esso può mantenere radicalmente aperte e attuali le infinite possibilità. Il Reale è radicalmente πάντων δύναμις, anzi, τῶν δυνάμεων πασῶν δύναμις, possibilità di tutte le possibilità. Qual è allora il senso in cui ciò è lo scarto tra la totalità universale delle possibilità e le singole infinite molteplici possibilità, in una maniera che quella non è riducibile a queste? Proprio in questa irriducibilità, ogni possibile orizzonte di comprensione potrà rimanere aperto sulle infinite attuali possibilità. Non è necessario postulare infiniti universi per rendersi conto di come una simile apertura possa agire anche nel mondo attuale, attraverso una re-simbolizzazione sempre nuova. Ciò che viene descritto come fallimento rispetto al Reale va reinterpretato come il modo autentico della simbolizzazione. In questo modo ogni orizzonte viene forgiato autenticamente sull'abisso dell'infinitamente possibile, dell'infinita potenza, e sempre nuovamente. Come un buco nero favorisce la costante formazione di nuove stelle danzanti, per fagocitarle ancora, nutrendosi di sé stesso, così il Reale può concretamente diventare il campo di “produzione” di orizzonti, valori, simboli, significati. Questo comporta tutt'altro che una presa di distanza “ironica” e “postmoderna” dall'orizzonte di significato: esso è fondato ora sul Reale non qua impossibile (tale per cui ogni attualizzazione è una falsificazione della potenza della pura possibilità – dunque ridotto a mera possibilità rispetto alla realtà di ciò che è attuale, non potendo attualizzarsi nel suo essere possibilità senza perdere la sua potenza: quale minaccia costituisce un enorme potere impotente?) ma qua Reale, dunque attuale possibilità che si attualizza mantenendo il proprio statuto di potenzialità – che si attualizza senza consumarsi. Ciò permette un coinvolgimento totale all'interno del nuovo orizzonte che coincide con l'aumento e l'espressione della potenza stessa. Quello che si delinea è a tutti gli effetti il reame della volontà di potenza nella sua dimensione ontologica più radicale.



L'assoluta agitazione di Slavoj Žižek

Un ultimo appunto. Si noti come termini come Bene, Dio ecc. possano essere nella filosofia occidentale estremamente formali. Essi indicherebbero la dignità ad essere-così-com'è del mondo, ma non il contenuto di questo così-com'è. Tale contenuto è però desumibile da uno studio critico della metafisica occidentale. Abbiamo imparato che l'Occidente ha interpretato l'Essere come semplice-presenza. In questo senso, lungi dal voler ridurre il pensiero di Platone ad un'interpretazione lontana più di due millenni, possiamo comunque affermare che, nella storia del progetto metafisico occidentale, il mondo è stato concepito come esistente in quanto presente e come dovente esistere in quanto avente “le carte in regola” per essere presente. Questo, in un modo o nell'altro, dal pensiero greco fino al pensiero scientifico contemporaneo, è innegabile. Anche lì dove si è voluta negare la dignità ontologica del mondo presente agli occhi (Parmenide), la sua presenza ha avuto comunque bisogno di una giustificazione che tenesse conto della sua necessità. Il mondo, in un modo o nell'altro, non può non essere presente, qualunque sia il suo statuto ontologico. Possiamo tuttavia immaginare quante possibilità attuali prevedano qualcos'altro al posto della semplice presenza, quindi quali molteplici interpretazioni del Bene e di Dio – il contenuto di queste possibilità ci è assolutamente precluso.

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