La Logica dell'Essenza hegeliana nel pensiero di Slavoj Žižek.
Sulla
mancanza di fondamento.
Determinismo
e utilitarismo sono intrinsecamente legati: se è vero che il
soggetto cerca il massimo piacere e il minimo dolore secondo un
calcolo, date certe condizioni sarà possibile dedurre il
comportamento determinato del soggetto. La lezione dell'idealismo
tedesco è invece che la spontaneità (egotica) è
possibile solo sul fondamento di un atto riflessivo, di un accettare
certe determinazioni che le mie più proprie, un'assimilazione, un
determinare sé stessi. In questo senso, i miei impulsi mi
determinano solo nel momento in cui li riconosco come tali – ossia,
ne assumo la piena responsabilità. Tale assunzione delle proprie
determinazione può anche risolversi nel concepire sé come
determinati a essere il punto d'arrivo o un momento di un processo
storico e teleologico. In questo senso la situazione non
è mai “data”, ma sempre retroattivamente creata. L'autocoscienza
non è mai un fatto meramente passivo quindi. Essa (appercezione
trascendentale) è possibile solo sul fondamento dell'inconoscibilità
noumenale della res cogitans. Non dobbiamo né possiamo
però affermare che tutto ciò che è presupposto sia sempre in
realtà posto a posteriori retroattivamente (fittivo). Qualcosa, per
quanto sostanzialmente ed essenzialmente indefinibile né definito,
“deve pur essere”, o esserci, ossia – qualcosa deve essere
Reale a prescindere dal soggetto e prima del soggetto. E sebbene il
grado, o la posizione del limite tra ciò che è fittivo e ciò che è
Reale sia esso stesso fittivo, non si può per questo dedurre la
totalità del fittivo. Es. il fatto che sia difficile separare natura
e cultura non significa che tutto sia cultura.
...the
Lacanian Real is the gap which separates the Particular from the
Universal, the gap that prevents us from completing the gesture of
universalization, blocking our jump from the premiss (that every
particular element is P), to the conclusion (that all elements are
P).
In altre
parole, il Reale è ciò che impedisce di applicare il discorso
particolare (es. questo è fittivo, quest'altro è fittivo ecc.)
all'Universale come tale (tutto è fittivo). L'Universale resiste
alla riduzione all'azione particolare o alla totalità delle azioni
particolari – e questo in virtù del Reale. In altre parole ancora,
l'irriducibilità dell'Essere all'ente da cui fittivamente
interpretiamo l'Essere è il Reale.
Il Reale non
è per questo un “nocciolo ontologico inviolabile”, irriducibile,
“sacrale” che impone un arresto all'interpretazione – il limite
autoimposto in questa maniera svolge il ruolo fondamentale nella
costituzione del Simbolico, dell'orizzonte di comprensione – ogni
orizzonte di comprensione pone il proprio irriducibile, il proprio
oggettivo. In questa maniera il Reale è interpretato sì come reale
(non sottoponibile a epochè ecc.) ma come giocante
un ruolo fondamentale nella totalità dell'interpretazione
complessiva – come un buco nero al centro di una galassia.
Every
demarcation between the Symbolic and the Real, every exclusion of the
Real qua the prohibited-inviolable, is a symbolic act par
excellence. Such an inversion of impossibility into
prohibition-exclusion occults the inherent deadlock of the
Real.
Come nella prima Critica le cose reali noumeniche si incontrano solo nei paralogismi e nelle antinomie, ossia nei fallimenti delle forme dell'esperienza e della Ragione – o meglio, lo statuto noumenico di certe cose (anima, mondo e Dio) si mostra solo nel loro sfuggire al completo darsi alla Ragione – così il Reale si comprende solo nel fallimento della sua formalizzazione. Allo stesso modo, l'Uno si coglie come Uno solo attraverso il fallimento del tentativo dell'Intelletto di comprendere l'Uno stesso – e solo a partire da questo fallimento nascono i logoi.
Se l'essenza
di un ente è la totalità dei suoi presupposti (fittivi), ciò che
non è essenziale è esattamente l'atto fittivo che fa sì che l'ente
sia ciò che essenzialmente è e diciamo essere. Tale atto è un atto
di identificazione – la cosa è una e il fondamento del suo essere
una non può essere ritrovata nella propria in sé molteplice
essenza. L'identità della cosa si fonda però sull'identità in sé
del proprio fondamento, della cui potenza unificante partecipa –
fondamento che è a sua volta l'id quod est che fonda
l'esistenza e l'essenza della cosa stessa.
The positing
of presuppositions chances upon its limit in the feminine' non-all;
what eludes it is the real; whereas the enumeration of the
presuppositions of the posited content is made into a closed series
by means of the 'masculine' performative.
Identità,
differenza, contraddizione.
L'identità è
in sé dialettica, ossia – non si determina nella proposizione
tautologica “a è a”, ma nell'opposizione con ciò
che a non è, e in particolare in ciò che, in
questa opposizione, di a resta uguale e “stabile”,
sostanziale, nel corso intero del divenire della cosa – identity
hinges upon what makes a difference. Ma proprio per questo, nel
voler cogliere l'identità di una cosa, dobbiamo coglierla nella sua
dialetticità, e dunque come differenza. Una cosa è ciò
che è-in-quanto a sempre dialetticamente, in quanto
in contraddizione con ciò che è non-a, o
anche, anti-a (es. un uomo è in quanto servo solo
in contraddizione con un padrone – altrimenti è solo un uomo).
Senza la contraddizione tra a e anti-a,
ossia, essendo a e il suo contraddittorio
indifferenti l'un altro, questi stessi non sussitono. La
contraddizione non è una mera dinamica tra due opposti, ma il
sussistere in sé stesso di Qualcosa che è determinato e in quanto
determinato (a) può essere opposto di qualcos'altro (anti-a).
Questo “Qualcosa” si designa esattamente a partire dall'essere
contraddittivo della determinazione “esterna”
(essenziale/formale) della cosa, e dunque non in sé sussistente –
in altre parole, fittivo. L'ente è (ma anche: io sono) ciò che
elude la totalità delle determinazioni essenziali. In tale totalità
manca l'atto fittivo che fa sì che l'ente sia ciò che
essenzialmente si dice essere, ossia l'atto di identificazione
stesso. L'atto di identificazione è un mero atto esistenziale?
Ossia, è mero actus essendi? Posto che lo sia, l'actus
essendi si scopre solo nel venir meno delle determinazioni
essenziali, nell'indifferenza adialettica dell'oggetto rispetto a ciò
che quell'oggetto non è e può non essere. Quanto resta, ciò che si
determina solo nel mero atto di esistere (e non di essere alcunchè)
è quel Qualcosa ($) retroattivamente prodotto come presupposto e
esclusivamente relativo a sé stesso – e insieme ciò che è il
Reale. Tale Qualcosa è il fondamento però delle specifiche
contraddizioni determinanti, ossia, il fondamento di questa essenza
piuttosto che di quella – ossia, la spontaneità. I
termini della contraddizione sono assolutamente paralleli e
sussistenti solo nella contraddizione.
Consequently,
we only pass from opposition to contradiction through the logic of
what Hegel called oppositional determination: when the
universal, common ground, of the two opposites encounters
itself in its oppositional determination, that is, in one of
the terms of the opposition.
Ossia,
dati a e anti-a, qual è il fondamento
comune di questa opposizione? L'abbiamo detto – quel Qualcosa che
determina quale debba essere la determinazione d'essenza
(banalmente, a come opposito ad anti-a piuttosto
che b ecc.). “Incontrando sé stesso” scopre
quella opposizione (oggetto e suo opposto “esterno”) come la
natura stessa del sussitere dell'essenza dell'ente, ossia
come contraddizione determinante. Questo Qualcosa si
incontra in uno dei termini dell'opposizione, es. in a, e
si identifica con esso. Di conseguenza il Qualcosa si eleva a quel
generale – id quod est – a partire dal quale le
varie opposizioni sono possibili, e insieme si esprime in uno dei due
termini dell'opposizione. L'opposizione non è più “parallela”,
ma si sbilancia: da una parte a che è insieme un
termine individuale e il generale, dall'altra anti-a che
è contrassegnato da una differenza specifica. Non siamo lontani
dall'idea classica di Sommo Bene, insieme universale fondamento
ontologico del mondo e Bene specifico rispetto a cui tutto il resto è
male e non-essere. La contraddizione è la natura della relazione tra
il Qualcosa e a, ossia la contraddizione tra il Qualcosa
in quanto a e anti-a come ciò che
negando determina a, e dunque quel Qualcosa nel suo
essere a. In altri termini, l'actus essendi è actus
essendi essentiae quae est (in quanto
dialettica). Così anti-a è un momento di quel
qualcosa che diciamo essere-a, non qualcosa di esterno, e solo
in questo senso determinatio est negatio. La
contraddizione è tra il porre un enunciato e il contenuto enunciato.
Forma/essenza,
forma/materia, forma/contenuto.
Prima
superficiale dicotomia: forma esteriore (pura apparenza, mutevole e
ingannevole) e essenza interiore (immutabile). Ma non bisogna credere
che la forma esteriore possa essere accidentale rispetto all'essenza
interiore – l'espressione, la manifestazione di un'essenza ha anzi
sempre un peso ontologico parzialmente indipendente dall'essenza
stessa e anzi, modifica l'essenza stessa. L'essenza deve fare dunque
i conti con la propria espressione, e in ciò viene concepita
astrattamente da ogni determinazione che è, in ultima analisi,
formale. Se le determinazioni si risolvono nella forma, l'essenza
resta qualcosa di indeterminato e informe, in senso genericamente
aristotelico, da formarsi – ossia, materia. Seconda
dicotomia: forma determinata e materia indeterminata. La materia è
la mera sussistenza della cosa (il fatto che la cosa sia), il
sostrato, mentre la forma determina che cosa la cosa è. La materia
non è solo una ὕλη, dotata di una qualche potenza
determinata, ma anche e sopratutto il sostrato comune e totalmente
indeterminato di ogni ente. Al contrario, la forma a sua volta è
principio di individuazione, che dà esistenza singolare a una
sostanza come sinolo di materia e forma, e contemporaneamente
l'Universale che veramente è, l'idea platonica (pure nella sua
immanenza). Dalla contraddizione tra materia puramente passiva e
indeterminata e forma insieme singolare e universale emerge questo,
che la materia deve essere già in sé stessa articolata, costituita,
possidente una struttura inerente. Terza dicotomia: forma e
contenuto. Ma il contenuto è dunque materia formata:
materia signata – e in questo senso la cosa ha una
sua individualità grazie alla materia; materia formata nel
senso che partecipa di un Universale, non è più mera materia.
L'Universale è in relazione dunque con la materia in maniera tale da
essere forma.
...the couple
content/form (or, more pointedly, content as such) is just another
name for the tautological relationship by which form is related to
itself. For what is 'content' if not, precisely, formed matter?
La forma sarà
quindi l'attualizzazione accidentale di un contenuto necessario,
immutabile nella sua verità. Il contenuto è la
mediazione della materia per mezzo della forma, e al contrario
la forma è il modo in cui il contenuto trova la sua
espressione nella materia. La dicotomia contenuto/forma, a
differenza di quella materia/forma, è tautologica: il contenuto è
la forma stessa nella sua determinazione oppositiva. Le tre dicotomie
già anticipano la dialettica di nozione, giudizio e sillogismo (in
cui qui il termine medio sembra essere proprio la forma).
Forma,
Reale, Fondamento completo.
L'atto della
fondazione formale è meramente tautologico, non fornisce nessuna
informazione. Esso consiste nel “condensare” un insieme di
proprietà, fatti ecc. in una forma unica in maniera tale che tale
forma non ci dica nulla di più rispetto a quell'insieme di
proprietà, fatti ecc. Ad esempio, un'operazione matematica è di
questo tipo: “5” non ci da' informazioni maggiori rispetto a
“2+3”. In altri termini, la forma
unica da noi prodotta può essere completamente e interamente
parafrasata o esaurita dall'insieme di proprietà, fatti ecc., vice
versa da tale insieme non emerge nulla. Un altro esempio di
fondamento formale è la tipica risposta newtoniana a una domanda del
tipo «perché questa pietra è pesante?»: «a causa della gravità
ecc.». Notiamo che
l'atto di fondazione formale non equivale ad un giudizio analitico,
ma può tranquillamente essere quello di un giudizio sintetico a
posteriori. Quando induttivamente ampliamo la nostra conoscenza
dell'universale, anche il caso singolare a partire dal quale abbiamo
ampliato la nostra conoscenza conosce questo ampliamento, venendo
interpretato (nella deduzione) come un caso particolare del nuovo
universale (causalità espressiva). Di conseguenza tra la
forma universale e il caso particolare non c'è una differenza
nell'insieme di proprietà, fatti, predicati ecc. che sono veri per
l'uno e per l'altro. Il fondamento formale non solo è ad esempio
necessario per ogni chiarificazione del linguaggio scientifico, ma,
cosa più importante, permette la ricerca del fondamento reale
(causalità transitiva). A partire da questo tipo di movimento
noi possiamo immaginare non solo il comportarsi così e così delle
cose come casi particolari di una regola universale, ma l'esistenza
stessa in sé di questa regola (come «legge
naturale» ad esempio, o qualunque altro modo in cui si afferma
l'esistenza della cosa in quanto essente razionale). Il risultato non
è un mondo “formale” che accompagna il mondo sensibile, ma una
“materialità spirituale”, un mondo dotato di consistenza e peso
ontologico e insieme attinente all'universale – un'ipostatizzazione
delle necessità logiche del mondo. È il caso del mondo delle idee
platonico (la necessità di un qualcosa per la quale tutte le cose
sono ciò che si dice che sono ci porta a presupporre un'idea
esistente in sé e prima del mondo empirico), del paralogismo
trascendentale (dalle caratteristiche puramente formali dell'io
deriviamo la res cogitans stessa), dell'idea
di etere (che insieme riempie lo spazio e rende
possibile il movimento – in Kant, un tentativo di ridare realtà a
quello che era stato ridotto a forma pura della sensibilità) ecc. –
e in un certo senso, non è di questo genere l'idea contemporanea
di campo? Il fondamento formale mostra quindi la
possibilità di un fondamento reale. Nella cosa, nel fenomeno la
distinzione tra fondante e fondato smette di essere formale, ma è
iscritta nel fenomeno stesso, di cui un momento è “causa” degli
altri momenti dipendenti. Quando affermiamo che i fenomeni della
psiche non sono altro che il risultato dei fenomeni chimici che
avvengono nelle sinapsi ecc. stiamo compiendo un atto del genere (la
necessità logica di congiunzione tra mente e corpo viene
ipostatizzata nel cervello – Descartes tentò esattamente questo
con la ghiandola pineale – che assume ora il ruolo di momento
fondante reale). Un altro esempio di questa distinzione è quella
marxista tra struttura e sovrastruttura. È chiaro che il fondamento
reale, per essere tale, deve inscriversi nella rete di relazioni tra
fenomeni particolari di cui è fondamento, e questo lo sovradetermina
(causalità sovradeterminante). Ed è così che giungiamo al
fondamento completo, ossia, all'essere il fondamento fondato nella
totalità delle determinazioni di cui è fondamento. Il fondamento
completo è sintesi di fondamento formale e reale: il fondamento del
fondamento reale sta nella necessità formale che fa di un dato
fenomeno il fondamento reale – esso è dunque fondato in sé
stesso, nella totalità di relazioni con il fondato.
In altri termini, il fondamento del fondamento è il suo
esser-fondamento. È evidente la forma del fondamento formale , che però non
è più un vuoto atto tautologico, ma una tautologia che contiene i
due momenti dialettici di cui sopra. Il fondamento del Tutto
è quella parte del Tutto che si identifica con il Tutto stesso.
Ma ciò è possibile solo in una rete di determinazioni, ossia
di senso, in un universo simbolico che
necessiti questa sovradeterminazione del fondamento completo.
Dall'“in
sè” al “per sè”.
Ogni fenomeno
è insieme espressione di una natura, un'essenza fondamentale della
cosa, e attualizzazione della cosa in certe circostanze.
C'è una radicale distanza tra l'essenza di una cosa, immutabile ed
universale, e la contingenza delle condizioni che permettono che
quella cosa sia ciò che è – l'attualizzazione dell'universale è
sempre vincolata dai casi particolari. Così un uomo è libero, e
insieme determinato dal suo ambiente, il suo circolo di comprensione,
la tradizione storica in cui si trova ecc. Insieme però risulta
difficile decidere dove finisca l'essenza di una cosa e dove
comincino le condizioni della sua attualizzazione. Ad esempio, è
vero che l'anima è la forma del corpo, ma il corpo deve avere già
in sé una data forma, disposizione, ordine, affinché l'essenza
venga espressa come anima. L'irriducibilità di questa distanza può
essere superata solo attraverso la mediazione del soggetto, per cui
la cosa non è più in sé solo l'atto di una
potenza che si svolge dall'interno, né è un fatto contingente e
determinato solo dall'esterno, ma per sé la
potenzialità dell'oggetto rimane anche nella sua attualità esterna
e contingente sotto forma di eteronormatività – in altre parole,
la potenza della cosa consiste anche nella possibilità che questa
cosa venga determinata, dal mondo esterno, dalla natura ecc. per
essere ciò che quella cosa ha da essere. L'essenza di una cosa
dunque non è solo interna alla cosa, ma comprende lo stesso contesto
in cui la cosa deve essere affinché sia in atto. Un esempio di
questa dinamica è quella dello studente, la cui essenza presuppone
l'esistenza di una determinazione esterna, quella del maestro, del
professore, che contribuisca all'attualizzazione dello studente in
potenza. E ancora: la classe lavoratrice qua soggetto
rivoluzionario e il Partito, ma anche un albero e il Sole grazie al
quale sarà possibile la fotosintesi (non sono già inscritte infatti
nel codice genetico del vivente anche le condizioni esterne
necessarie all'essere in atto, l'ambiente, il contesto?) ecc. Ma
questo può essere compreso solo a partire da una mediazione
soggettiva che formuli la nozione della cosa, del
suo funzionamento dell'ambiente ecc. In this sense, the
'in-itself is actuality in so far as it has not yet reached its
Notion. Noi non produciamo mai idee di cose pure (quindi,
mai l'idea di uomo, l'idea di albero ecc.), ma sempre nozioni, regole
di cose il cui ambiente è essenziale alla definizione della cosa
stessa. Che idea sarebbe quella di albero senza l'idea di suolo,
ossigeno, luce ecc.? O l'idea di uomo, considerato in maniera tanto
pura quanto irreale? Le potenzialità presupposte nella cosa devono
“superare il test” delle condizioni esterne – se la cosa
fallisce nella sua attualizzazione, bisognerà ricercare la colpa non
nelle circostanze, ma in quelle stesse potenzialità presupposte
evidentemente non presenti. Ad esempio, il fallimento di una prassi
politica non si deve mai alle circostanze non adatte, ma
all'insufficienza della teoria, in pratica all'incapacità di
sviluppare una teoria tale che la prassi possa reggere il confronto
col contesto e trarre da questo i motivi della sua riuscita. Lasciar
essere una cosa significa mostrarla nella sua inadeguatezza
rispetto alla propria essenza – la cosa non incontra mai le proprie
aspettative, ma è destinata al fallimento, a rivelarsi come un nulla
nel momento in cui è lasciata essere.
Nella Critica
della Ragion Pura Kant rifiuta la prova ontologica,
affermando la contraddittorietà della nozione di esistenza
necessaria: l'esistenza non è un predicato, ma l'elemento passivo
della conoscenza, il fare esperienza di qualcosa in quanto esistente.
Ciò che la cosa è si dà all'Intelletto, ma il fatto che la cosa
sia richiede un'Intuizione dell'oggetto fenomenico. L'esistenza non è
un predicato, ma il modo in cui la cosa è in relazione con i suoi
stessi predicati, ossia è in relazione con sé stessa attraverso
questi predicati. Ma per conoscere questi predicati, dobbiamo
escludere l'esistenza, e il darsi della cosa per sé non
può che mostrare l'impossibilità dell'esistenza della cosa accanto
alla conoscenza dell'essenza della cosa, nelle sue potenzialità. In
termini di teologia razionale, la nozione di un Dio la cui esistenza
deve essere necessaria cede di fronte all'impossibilità di affermare
l'esistenza stessa, al di là della sua necessità. L'esistenza è
per definizione contingente (gettata), dunque non può essere
sensatamente implicata a priori in una nozione, ma
sorge dal funzionamento della cosa attraverso i predicati che ne
costituiscono la nozione. In altre parole, l'esistenza di una cosa
sorge dall'entrata in rapporto di una cosa con la sua nozione. La
nozione indica le condizioni di esistenza della cosa, e scoprendosi
adeguata a queste, la cosa esiste. La sintesi tra conoscenza
essenziale sub specie aeternitatis e esperienza sub
specie durationis non può che mostrare l'impossibilità
della sintesi come congiunzione – ossia, l'impossibilità della
prova ontologica, non solo (e non tanto) per Dio, ma per l'intera
esistenza.
Fondamento
vs condizioni.
Solitamente,
dovendo distinguere tra il fondamento “profondo” di qualcosa e le
sue condizioni, consideriamo il primo sul livello della necessità,
le seconde sul livello della contingenza. Ad esempio: il fondamento
della depressione è una predisposizione genetica, o comunque propria
dell'individuo biologico, le condizioni scatenanti il contesto
sociale, l'alienazione ecc. Notiamo però che i contenuti di queste
sono assolutamente intercambiabili (la depressione ha fondamento
nell'alienazione sistematica, e si manifesta lì dove le condizioni
biologiche permettono l'insorgere dei sintomi ecc.). Un altro esempio
può essere il passaggio dal Medioevo al Rinascimento. Viene prima la
scoperta dell'antichità (testi antichi – pensiamo al lavoro di
Petrarca su Cicerone –, rovine ecc.) o il zeltgeist di
rinascita culturale che permette un apprezzamento della classicità?
Sarebbe stato possibile il Rinascimento senza l'avanzamento
filologico? E sarebbe stato possibile questo se il Medioevo cristiano
non si fosse già esaurito da sé? L'impasse viene superata quando lo
spirito del Rinascimento presuppone sé stesso nelle condizioni
esterne che lo attualizzano. Ciò che resta del mondo classico non
viene apprezzato perché il zeltgeist corrispondente
è già presente, in attesa dei ritrovamenti (le condizioni),
ma porta con sé stesso lo spirito necessario a quella rinascita
(il fondamento). In questo senso il mondo dei Greci e dei
Romani diventa il mondo classico, e il Rinascimento
un ritorno alla grandezza degli antichi. Tornando
invece all'esempio (meno poetico, ma non meno interessante) della
depressione: le condizioni biologiche dell'uomo stesso favoriscono la
formazione di società depressive – ossia: la possibilità stessa
di una depressione sistematica è insita nella biologia umana, che
non la causa, ma la rende possibile. A questo punto il fondamento e
le condizioni non si presuppongono più vicendevolmente, ma la cosa
(secondo il contenuto del suo fondamento) è già contenuta nelle
condizioni esterne che ne permettono l'attualizzazione contingente.
In questo senso diventa possibile uno studio approfondito delle
determinazioni sociali e della sistematicità della depressione anche
attraverso lo studio biologico (medico, psichiatrico ecc.), così
come la rottura col Medioevo si consumava nel ritorno allo spirito
classico per mezzo dello studio dei classici stessi. Tale gesto di
autoposizionamento è tautologico, è radica la cosa ideale
(fondante) nella cosa reale (condizionante), attraverso la quale noi
possiamo pensare l'idealità stessa. La cosa torna in sé stessa.
Il
tautologico “Ritorno della Cosa a Sè stessa”.
In questo
modo, da un «fascio di proprietà» estrinseche si forma l'identità
della cosa. Il porre un nome ad un insieme di proprietà organizzate
non aggiunge alla cosa alcuna proprietà, ma introduce la cosa stessa
come possibile – il suo fondamento – nelle proprietà stesse. La
cosa acquista, qualsiasi cosa ciò voglia dire, un carattere di
realtà: essa non è solo fittiva, ma attraverso il
ritorno tautologico della cosa a sé stessa, si determina come
realmente essente. Ma allo stesso tempo la realtà “aumenta”,
includendo ciò che ha senso solo sotto un dato nome, un ente di
ordine superiore. Un esempio è l'”ebreo” all'interno
dell'ideologia nazista. Esso condensa (e nasconde) sotto il nome di
“ebreo” (e tutto ciò che vi ruota attorno) tutte le
contraddizioni e i disagi della Germania post bellica. In questa
maniera l'antisemitismo nazista ha un “fondo di verità” (molto
più che oggi, dove il nostro capro espiatorio, il “negro”, è un
costrutto assolutamente illusorio), ossia l'effettivo disagio
(l'inflazione, l'umiliazione politica, la disparità sociale ecc.) e
insieme provvede ad una vera e propria “realtà aumentata”,
esperita all'epoca, naturalmente, come fondamentale: per
il tedesco dell'era di Hitler ogni cosa è prova del complotto
semitico: «la
famiglia Grossman sembra così normale – sono bravi a mascherare i
loro intrighi!». In questo modo, ponendo il nome,
possiamo identificare il
fondamento come già presupposto nel
fascio di proprietà che sotto il nome acquista senso fittivo. Ma il
movimento di identificazione, così esplicito in questo esempio,
sembra essere lo stesso per ogni (tipo di) ente. In questo senso ogni
ente, nella sua identità, è sempre all'interno di una rete
ideologica di significati, la quale permette l'identificazione
stessa. In questo senso ogni significato, ogni nome, ogni identità
fa riferimento ad una vera e propria teoria
del tutto,
sempre presupposta, che permette le molteplici identificazioni. In
questo senso ogni tentativo di rinunciare a visioni complessive
omni-implicanti è ingenuo e disconosce la struttura stessa della
conoscenza.
Così
come possiamo sintetizzare le condizioni esterne in un fondamento
presupposto dando un nome, così possiamo comprendere una serie di
contingenze come una necessità complessiva. Qualcosa è contingente
solo quando non trova posto all'interno di un discorso che ne esprime
la necessità. L'Etica spinoziana è un esempio di come vi possano
essere molteplici livelli di necessità (Spinoza
e la libertà: Jacques il fatalista). Ma in questo senso la
necessità è sempre il risultato di un atto di identificazione
precedente alla statuazione della necessità stessa, quindi libero.
Si ribalta così l'idea spinoziana di libertà come comprensione
della necessità: è la necessità a dover essere comprese a partire
dall'atto di libera statuazione tautologica. Voilà
pourquoi Hegel n'est pas spinoziste.
La cosa torna a sé stessa nei suoi stessi presupposti esterni, e in
questo senso ottiene identità. Questo non è possibile in un
contesto spinozista, in cui la cosa si dissolve nei molteplici
presupposti esterni e, trascendendo nella serie di cause, in Dio.
Un
movimento simile lo troviamo nell'analitica trascendentale kantiana:
cos'è il Noumeno se non il contrassegno vuoto della realtà della
nostra esperienza, ciò che convalida la nostra realtà come reale
senza aggiungervi nulla in termini di contenuto? Perché, ricordiamo,
per Kant il mondo fenomenico non è un “velo di Maya” che cela la
cosa in sé, ma è assolutamente reale, il frutto dell'incontro reale
tra il soggetto trascendentale (e il suo corredo di categorie) e
l'oggetto trascendentale. Il Noumeno è il contenuto di un atto
insieme sintetico e tautologico: astraendo dal contenuto
dell'esperienza passiva (estetica, intuitiva e sintetica), ciò che
resta è il puro correlato “Oggetto” del Soggetto – ossia, è
posto sinteticamente dal soggetto come pura cosa in sé. In questo
senso abbandoniamo la tipica interpretazione di Kant per cui il mondo
si distingue tra due poli (soggetto e cosa in sé), di cui il primo
incontra il secondo per mezzo delle intuizioni e delle categorie.
Attraverso la posizione tautologica della cosa in sé il soggetto
convalida l'esperienza come reale, e le categorie dell'Intelletto
come forme reali della realtà – ad esempio, ciò che noi esperiamo
come necessità è realmente necessità. La cosa in sé libera il
mondo dall'arbitrio del soggetto trascendentale. In questa maniera il
soggetto ha un mondo concreto in cui conoscere e agire moralmente.
Non per questo si retrocede ad una posizione ingenuamente realista:
la cosa in sé resta il contrassegno del fatto che l'identità di ciò
che è reale risiede non nella cosa reale ma nell'attività sintetica
del soggetto. In altre parole: cercando nel fascio di proprietà il
senso dell'identità della cosa, cercheremo invano, poiché ciò che
cerchiamo non è altro che la cosa in sé presupposta attraverso
l'attività sintetica tautologica. Questo permette di passare da
«x è x poiché
possiede l'insieme y di
proprietà» a «x possiede
l'insieme y di
proprietà poiché è x».
Per questo, a fronte della Dialettica
trascendentale,
bisogna considerare le idee della Ragione come aventi un ruolo non
meramente regolativo, ma costitutivo.
È necessario postulare la realtà dell'anima, di certi caratteri del
mondo e di Dio per render conto della normalità e della coerenza
dell'esperienza – è necessario che la “materia trascendentale”
che il soggetto incontra sia coerente e stabile nel suo “contenuto
trascendentale”. L'esperienza stessa, frutto dell'attività
sintetica dell'uomo, si regge sull'ultimo e fondamentale atto
sintetico tautologico che, ponendo la cosa in sé, pone la propria
sensatezza in qualcosa che è al di là dell'attività sintetica
dell'Intelletto. In Kant il processo di produzione della oggettività
sembra essere una dialettica tutta interna al soggetto: l'oggetto che
esperiamo in modo più completo non è un mero fenomeno (Gegestand),
ma un'entità intelligibile e razionale (Objekt).
L'assoluta
agitazione del divenire.
Tornando
alla questione della contingenza, sorge spontaneo chiedersi se essa
sia una proprietà ontologica delle cose (contingenti in loro stesse)
o il prodotto di nostri limiti conoscitivi. Nel primo caso la
contingenza è parte della realtà, nel secondo la realtà è
completamente determinata. In nessuno dei due casi però la
conoscenza della realtà sembra avere qualche rapporto con la realtà
stessa. Il soggetto è assolutamente esterno rispetto al proprio
oggetto, che può essere conosciuto/non conosciuto. Hegel supera
questa impasse: il processo conoscitivo non è esterno alla realtà,
ma influenza direttamente l'essere di ciò che è conosciuto (e
quindi di ciò che conosce). Per dirla con Kant: le condizioni di
possibilità della nostra esperienza sono le condizioni di
possibilità degli oggetti stessi dell'esperienza. In questo senso
l'incompletezza della nostra conoscenza testimonia una incompletezza
ontologica dell'oggetto stesso. In particolare, l'apparente
contingenza “epistemologica” nasconde l'apparenza della
necessità, della cosa in sé. Ma la cosa in sé si ritrae per
definizione dalla conoscenza. La necessità appare allora come
postulazione, mentre ciò che appare concretamente mantiene, in una
certa misura, la dimensione della contingenza. Se la contingenza è
un'apparenza che nasconde una necessità – ossia, la contingenza è
il prodotto di un limite epistemologico – allora la necessità
nascosta non è che un'apparenza di sé stessa. In questo senso
l'irraggiungibile cosa in sé, come sfera dell'incondizionato
preclusaci dalla richiesta di condizioni sempre più primitive in
indefinitum propria
della Ragione, è un'apparenza essa stessa che nasconda la propria
necessità, ossia la necessità della postulazione tautologica. La
necessità che ha il soggetto di, per così dire, costruirsi gli
oggetti della propria esperienza, è legata ai limiti epistemologici
che la condizionano.
Ricapitolando,
oltre le due posizioni circa necessità e contingenza (livello
ontologico: esistono cose necessarie e cose contingenti; livello
epistemologico: la differenza si fonda sulla nostra ignoranza circa
la totalità delle cause: è la posizione di Spinoza – vedi ad
esempio Etica,
parte I, prop. XXXIII, scolio I), è possibile una terza posizione:
necessità e contingenza come due momenti della stessa unità di
attualità (ciò che è attuale si conosce come necessario attraverso
la conoscenza dell'essenza e delle cause necessarie) e possibilità
(ciò che è possibile si conosce nella sua contingenza quando, a
partire dalla conoscenza dell'essenza e delle cause, è impossibile
determinarne l'esistenza necessaria – vedi Etica,
parte IV, definizioni III e IV). Una simile posizione è naturalmente
impossibile nella filosofia spinoziana. Contingenza e necessità sono
rispettivamente il modo soggettivo e oggettivo della stessa cosa, il
divenire che separa soggetto e oggetto e la fermezza che li
riconcilia. La stessa cosa è insieme un divenire in
“costante agitazione” e un essere (esse),
ha una storia,
che si svolge secondo un ventaglio di possibilità e si “conclude”
(ossia, comprendiamo la cosa nella sua completezza temporale) secondo
necessità (la “funzione” di un mutamento è determinabile solo
in sua conclusione). Non dobbiamo però considerare questa dualità
come un fatto meramente epistemologico, per cui fin tanto che la
storia della cosa non è conclusa non abbiamo abbastanza informazioni
per determinare con certezza il suo essere. I due momenti sono,
abbiamo detto, il momento soggettivo e oggettivo della stessa unità.
Non possiamo ridurre l'uno sull'altro. Né la posizione oggettiva è
“più vera” (questa è la prospettiva “scientifica”
necessaria all'osservazione oggettiva dei fenomeni fisici), né lo è
quella soggettiva (tale per cui la necessità esperita è un'indebita
oggettivizzazione di un processo libero). Decidere tra una delle due
posizioni, che potremmo definire rispettivamente della fattualità e
della fittività del
mondo, pur mantenendo l'unità ontologica del mondo, dimentica
l'ontologica indecidibilità delle
posizioni stesse. Dobbiamo sublare l'apparente susseguirsi di
accidenti in una regola necessaria, un'essenza conchiusa, o
considerare l'essere di una cosa mantenendo aperte le sue
irriducibili possibilità interne?
L'Attualità
del Possibile.
Ogni
considerazione circa le possibilità di qualcosa – o meglio,
le condizioni
di possibilità,
parte sempre da un'attualità presupposta, dalla quale si astrae
verso le sue condizioni. Com'è possibile (pun
intended!)
considerare le pure possibilità di ciò che in nessun modo ha
raggiunto l'attualità? Come si possono considerare le possibilità
di “altre cose in sè”, qualitativamente diverse da quella
attuale, se non da un punto di vista formale (ammesso che ciò sia
possibile)? In altre parole, ciò che è possibilità, in
contrapposizione all'attualità, è a sua volta “attuale”, esiste
attualmente come possibilità? La differenza tra attualità e
possibilità è solo formale, vale a dire, il reame delle possibilità
esprime solo le condizioni di possibilità di ciò che attuale nel
mondo attuale, o comprende realmente anche le condizioni di
possibilità di qualcosa di assolutamente altro rispetto al mondo
attuale (pensiamo ad esempio al “migliore dei mondi possibili”
leibniziano, che è tale solo perché gli altri mondi sono
attualmente possibili)? Ciò che appare è la
difficoltà nel concepire l'attualità senza la sua possibilità,
ossia, senza la libertà della sua esistenza, la moralità
della sua esistenza, senza quel “Bene al di là dell'essere” di
platonica memoria che regge non solo l'essere così, ma l'esser-così
delle cose. Nel momento in cui ci tentiamo di unire possibilità ed
attualità come due aspetti dello stesso mondo, scopriamo la
difficoltà nel passare dalla possibilità di questo e di quello alla
possibilità del tutto. Mentre ogni cosa, ogni ente od evento ha le
sue condizioni di possibilità, non possiamo dire lo stesso del
tutto. Da questo elemento emerge ancora il Reale – la cui
formalizzazione fallisce nell'impossibilità della prova ontologica.
La contingenza radicale del mondo resiste ad ogni discorso, che
inevitabilmente la elude.
La
possibilità può essere concepita in due sensi: in quanto potenza di
un'ἐντελέχεια, o in quanto contrapposta a ciò che è
attuale (una “mera” possibilità). Nel primo caso la potenza è
già attuale, ancora prima di attualizzarsi, in quanto essa esprime
una reale possibilità nel mondo. Tale potenza, o δύναμις,
si riconosce a partire dai suoi fallimenti, che in quanto tali
testimoniano la possibilità in quanto “ancora aperta” – in
questo senso, è la forma stessa della libertà.
Ne facciamo esperienza in campo morale, quando la voce della
coscienza «avresti potuto fare di più!» ci mostra la realtà della
possibilità non attualizzata: essa era lì, ciò che è mancata è
stata la nostra volontà in atto necessaria a portare in atto ciò
che era in potenza. Nel secondo caso, la “mera possibilità”
coincide con l'impossibilità. È possibile un terzo modo
di concepire la possibilità, tale per cui essa manifesti proprietà
che si perdono nel momento dell'attualizzazione – tale per cui
l'attualità sia meno della
possibilità? Sì, e un esempio drammatico è il gioco di potenza
portato avanti da Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra
Fredda. Entrambe le parti possedevano enormi armamenti atomici, e la
guerra tra le due era combattuta proprio sul livello della corsa agli
armamenti. Quanto più alto era il potenziale (la possibilità)
distruttivo, tanto maggiore era la potenza. Ma entrambe le parti
sapevano che tradurre in attualità (vale a dire: guerra nucleare)
questa possibilità avrebbe reso entrambe le parti estremamente
deboli. Ogni forma di potere peraltro si regge sulla mera
potenzialità, al punto che interpretiamo gli sfoghi di violenza come
segni di impotenza e crisi. Come nota Nietzsche nella Genealogia
della Morale,
la potenza di un sistema si calcola a partire dalla sua capacità di
sopportare e perdonare. Questa è la vera attualità
della possibilità,
l'attualità di una potenzialità che funziona attualmente proprio in
quanto tale. Essa non necessita di tradursi in attualità per essere
qualcosa di reale, anzi. Lo scarto che c'è tra la possibilità e la
“mera possibilità”, che viene perso nel momento
dell'attualizzazione, è il Reale qua impossibile.
Il
Reale come reame della Volontà.
Ogni
discorso sembra trovare difficoltà ad affermare la contingenza del
mondo, ossia l'attualità della possibilità “inespressa” del
mondo, il fatto che il mondo non solo sarebbe potuto, ma ancora può
essere altrimenti.
Tale attualità è per così dire complementare all'attualità del
mondo, cui non corrisponde alcuna possibilità privilegiata (il primo
senso di cui sopra). Ciò non indica necessariamente la minaccia di
una rivoluzione imprevista nelle leggi della logica o della fisica,
bensì la assoluta non necessità dell'attuale configurazione.
L'attualità del nostro mondo non indica la sua (condizione di)
possibilità relativa come favorita. L'attualità del nostro mondo
non rivela alcun Bene al di là dell'essere responsabile
dell'attualità del nostro mondo in quanto perfetto, degno di
esistere. Ciò che è irriducibile a ogni formalizzazione è lo
scarto che c'è tra le condizioni di possibilità del nostro mondo
(il Bene, la prova ontologica à
la Spinoza
ecc.) e le possibilità ancora attuali di un mondo radicalmente
diverso. La domanda che ci poniamo (cui non intendiamo nemmeno
provare a rispondervi) non è (la pur perturbante) «perché v'è il
tutto anziché il nulla?» ma «perché il mondo è proprio così?».
L'impossibilità della risposta lascia emergere il Reale. Esso è lo
scarto tra il mondo in quanto necessario e il mondo in quanto
contingente. Rispetto alla dualità precedente, in cui la contingenza
si reggeva sull'assoluta agitazione del divenire, sulla soggettività
in quanto aprente le
possibilità, ora non possiamo chiamare alcuna soggettività a
scegliere questo mondo piuttosto che un altro. All'interno
dell'ordine simbolico necessario a rendere conto del mondo, il Reale
compreso inautenticamente è il Bene (Dio, ecc.). Non pretendiamo
risolvere «the
inherent deadlock of the Real»,
tentare una comprensione autentica dell'esser-così del mondo.
Possiamo invece mostrare che, come il Reale si coglie a partire dal
fallimento del discorso intorno ad esso – proprio perché il
discorso può solo “gravitarvi” attorno, senza mai coglierlo
direttamente – così il discorso si regge sul disconoscimento
produttivo del Reale stesso, come il disco di accrescimento attorno
al buco nero.
Possiamo
riproporre però lo schema che abbiamo incontrato prima circa lo
statuto della necessità e della contingenza, in questa forma: il
Reale ontologicamente non-è, dunque il nostro orizzonte di
comprensione/predicazione ruota intorno ad un nulla; il Reale
ontologicamente è, ma il nostro orizzonte di
comprensione/predicazione è limitato e questo ci sfugge. Entrambe le
posizioni sono insufficienti: la prima disconosce la problematicità
del reale (la rinuncia alla sua simbolizzazione risulterebbe
indolore, ma non è così); la seconda non rende conto del ruolo che
il Reale gioca nel processo di simbolizzazione, sebbene interpretato
“inautenticamente”. Nei modi della teologia altomedievale:
secondo la catafasi,
il Reale non-è, e viene simbolizzato come Bene, Dio ecc.; questa
posizione è insufficiente, dunque l'apofasi segna
il fallimento del discorso, affermando che il Reale non può essere
simbolizzato come Bene, Dio ecc. V'è però un terzo momento, che gli
altromedievali definivano super-essenziale,
in cui entrambi i momenti vengono sublati. L'“essenza” iniziale
che si riconosce come indice del fallimento stesso nel secondo
momento viene negata in maniera diversa. In ambito teologico si
afferma che «Dio è più che verità», la negazione dell'attributo
della verità operata dall'apofasi va a costituire positivamente Dio
(diremo che Dio è più che verità che, nota Eriugena, è in fondo
lo stesso che dire che non è verità, ma non diremmo mai che Dio è
più che menzogna). Nel nostro ambito possiamo allora provare a
determinare il Reale come “più che Bene”, “più che Dio”. Ma
il Reale era lo scarto tra le molteplici possibilità attuali. Ora,
nella possibilità attualmente attualizzata, il Reale è (stato)
compreso come Bene, Dio ecc. – ma trovandosi questo al di là di
questi modi di comprensione in una maniera tale da determinarlo
positivamente, in quanto scarto dovremo affermare che esso è “più
che” qualsiasi ancora possibile, ma attualmente non ancora attuale
mondo di comprendere il Reale. Immaginiamo che tutte le
attuali possibilità inespresse si siano attualizzate (ad esempio,
nel caso di universi paralleli – perché no, anche nel senso
leibniziano, in una maniera tale per cui noi avremmo la fortuna di
trovarci nel migliore, a differenza di esseri alieni più
sfortunati). Trovandoci in un universo in cui è possibile qualcosa
come questo tipo di filosofia, possiamo dire che il Reale è
irriducibile a tutte le molteplici attualizzazioni, definendosi come
“più che Bene” qui, “più che x”
altrove, “più che y”
altrove ancora. Ma essere “più che” determina positivamente il
Reale. Ci troviamo di fronte a un tipo particolare di negazione
determinante. Al contrario del celebre esempio del caffè senza latte
diverso dal caffè senza crema, qui ci troviamo con un caffè senza
tutto, tale per cui la negazione di tutto lo determina positivamente.
Ma lo determina nel suo modo di essere uno scarto, ossia di essere il
contrassegno della contingenza di ogni singola possibile
attualizzazione, contingenza non simbolizzabile. In questo modo il
Reale si scopre essere irriducibile a ogni orizzonte di comprensione,
ogni discorso, ogni simbolizzazione proprio perché è in
sé stesso la
causa della propria non-simbolizzabililtà. La forma della negazione
apofatica viene ricondotta all'interno del Reale stesso. Ciò che
appariva come un limite dell'orizzonte che tenta di dire il Reale si
scopre essere un limite nel Reale stesso, una su intrinseca
resistenza alla simbolizzazione. Ma proprio in virtù di questa sua
“natura”, esso può mantenere radicalmente aperte e attuali le
infinite possibilità. Il Reale è radicalmente πάντων
δύναμις, anzi, τῶν δυνάμεων πασῶν δύναμις,
possibilità di tutte le possibilità. Qual è allora il senso in cui
ciò è lo scarto tra la totalità universale delle possibilità e le
singole infinite molteplici possibilità, in una maniera che quella
non è riducibile a queste? Proprio in questa irriducibilità, ogni
possibile orizzonte di comprensione potrà rimanere aperto sulle
infinite attuali possibilità. Non è necessario postulare infiniti
universi per rendersi conto di come una simile apertura possa agire
anche nel mondo attuale, attraverso una re-simbolizzazione sempre
nuova. Ciò che viene descritto come fallimento rispetto al Reale va
reinterpretato come il modo autentico della simbolizzazione. In
questo modo ogni orizzonte viene forgiato autenticamente sull'abisso
dell'infinitamente possibile, dell'infinita potenza, e sempre
nuovamente. Come un buco nero favorisce la costante formazione di
nuove stelle danzanti, per fagocitarle ancora, nutrendosi di sé
stesso, così il Reale può concretamente diventare il campo di
“produzione” di orizzonti, valori, simboli, significati. Questo
comporta tutt'altro che una presa di distanza “ironica” e
“postmoderna” dall'orizzonte di significato: esso è fondato ora
sul Reale non qua impossibile
(tale per cui ogni attualizzazione è una falsificazione della
potenza della pura possibilità – dunque ridotto a mera possibilità
rispetto alla realtà di ciò che è attuale, non potendo
attualizzarsi nel suo essere possibilità senza perdere la sua
potenza: quale minaccia costituisce un enorme potere impotente?)
ma qua Reale,
dunque attuale possibilità che si attualizza mantenendo il proprio
statuto di potenzialità – che si attualizza senza consumarsi. Ciò
permette un coinvolgimento totale all'interno del nuovo orizzonte che
coincide con l'aumento e l'espressione della potenza stessa. Quello
che si delinea è a tutti gli effetti il reame della volontà
di potenza nella
sua dimensione ontologica più radicale.
L'assoluta agitazione di Slavoj Žižek |
Un
ultimo appunto. Si noti come termini come Bene, Dio ecc. possano
essere nella filosofia occidentale estremamente formali. Essi
indicherebbero la dignità ad essere-così-com'è del mondo, ma non
il contenuto di questo così-com'è. Tale contenuto è però
desumibile da uno studio critico della metafisica occidentale.
Abbiamo imparato che l'Occidente ha interpretato l'Essere come
semplice-presenza. In questo senso, lungi dal voler ridurre il
pensiero di Platone ad un'interpretazione lontana più di due
millenni, possiamo comunque affermare che, nella storia del progetto
metafisico occidentale, il mondo è stato concepito come esistente in
quanto presente e come dovente esistere in quanto avente “le carte
in regola” per essere presente. Questo, in un modo o nell'altro,
dal pensiero greco fino al pensiero scientifico contemporaneo, è
innegabile. Anche lì dove si è voluta negare la dignità ontologica
del mondo presente agli occhi (Parmenide), la sua presenza ha avuto
comunque bisogno di una giustificazione che tenesse conto della sua
necessità. Il mondo, in un modo o nell'altro, non può non essere
presente, qualunque sia il suo statuto ontologico. Possiamo tuttavia
immaginare quante possibilità attuali prevedano qualcos'altro al
posto della semplice presenza, quindi quali molteplici
interpretazioni del Bene e di Dio – il contenuto di queste
possibilità ci è assolutamente precluso.
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