Colpa, cattiva coscienza e simili sul fondamento dell’ontologia di Essere e Tempo - un esperimento filosofico

Nel capitolo secondo della seconda sezione di Essere e Tempo, Martin Heidegger introduce due delle nozioni fondamentali del suo pensiero e della struttura ontologica dell’Esserci stesso: la nozione di coscienza e quella di colpa.  Giusto quarant’anni prima entrambe erano state le parole chiave della seconda dissertazione della Genealogia della Morale di Friedrich Nietzsche, Colpa, cattiva coscienza e simili. L’intento di questo breve lavoro non è tanto quello di porre un confronto tra i due scritti, che, muovendosi questi su due piani estremamente diversi (ontologico il primo, storico-genealogico il secondo), potrebbe risultare inutile: piuttosto, tenterò di fondare la teoria di Nietzsche – che in linguaggio heideggeriano, possiamo dire muoversi su un piano ontico – sull’ontologia di Essere e Tempo. Più precisamente: analizzando il rapporto che intercorre tra colpa, debito, coscienza e cattiva coscienza nell’ambito della genesi della morale e del patto sociale, dei «cinque o sei “non voglio”, in rapporto ai quali si è espressa la promessa allo scopo di vivere coi vantaggi della società» (Genealogia della Morale, p.50), rintracciarvi la struttura ontologica della colpa (in relazione anche all’idea di debito, mancanza) come non-possedersi (nullo esser-fondamento gettato, quindi esser-perduto nel Si), della coscienza e della «cattiva» coscienza (rispettivamente come chiamata al rendersi libero e interpretazione deietta della stessa), della deiezione e del Si (come caduta e come pubblico stato interpretativo delle possibilità, deciso da tutti e da nessuno). In particolare, interpreto la morale, la società nel suo essere patto tra la comunità di “creditori” e il singolo, in generale l’ordine di quei non-voglio risultanti dal processo descritto da Nietzsche, come anche la religione, il rapporto con il dio e ciò che esso comporta, con il Si di cui parla Heidegger, quantomeno nella sua accezione morale, nel suo interpretare le possibilità concernenti morale, diritto – il da-non-farsi: in entrambi i casi si manifestano l’ essere non-libero, l’estraniazione, l’autoimprigionamento (v. Essere e Tempo p.220). 

Subito appare un problema: se in Nietzsche viene descritto un processo, quindi la genesi vera e propria del “Si”, nel suo farsi, l’Esserci di Heidegger è già da sempre gettato nello stato deiettivo. Nelle prime parti di Essere e Tempo Heidegger fa riferimento, nel contesto di una distinzione metodologica tra analitica esistenziale e i vari altri modi (derivati) di interpretare l’uomo (tanto biologia, psicologia quanto antropologia, etnologia ecc.), all’Esserci più primitivo, preistorico. Come ci aiuta questo? Quanto “racconta” Nietzsche nella seconda dissertazione si svolge in un’epoca pre-assiale, non ben definita, quasi un’epoca già-da-sempre-passata, che sembra acquisire il carattere di un traumatico “rimosso psicologico” che, portato alla luce dall’analisi genealogica, rivela le origini della presente patologia morale, l’«eticità dei costumi»: Nietzsche parla del «peculiare lavoro dell’uomo su se stesso nel più lungo periodo di tempo della specie umana, […] il suo lavoro preistorico». (p.47) Consideriamo le parole di Heidegger all’inizio del paragrafo 11 (appunto, sull’ «Esserci primitivo»): «L’orientamento dell’analisi dell’Esserci sulla “vita dei popoli primitivi” può avere un significato metodologico positivo nella misura in cui i “fenomeni primitivi” sono spesso meno coperti e complicati da un’autointerpretazione già ampia dell’Esserci» (p.70). I fenomeni primitivi, preistorici, potremmo dire «agli albori della civiltà», sono meno coperti, ossia più aderenti all’essere dell’Esserci stesso: se ad esempio dopo millenni di “coprimento” l’ontico della colpa si manifesta perlopiù in maniera quasi capovolta rispetto al suo fondamento ontologico (come colpevolezza successiva all’esser-fondamento di una deficienza, di un’azione negativa), possiamo immaginare che all’inizio essa doveva manifestare più apertamente e genuinamente l’esser-colpevole dell’Esserci. Posto questo, mi sembra plausibile cercare nell’indagine genealogica di Nietzsche (che evidentemente parte da un periodo precedente alla formazione della società stessa, in cui il culto religioso è ancora allo stato embrionale di culto dei progenitori/fondatori della stirpe, e quindi da un periodo estremamente lontano!) dei processi che ridiano in maniera più esplicita e aperta la colpa come non-possedersi, la coscienza e la formazione della sua interpretazione deietta, il momento in cui l’Esserci si è smarrito nella pubblicità del Si, si è immedesimato nella sua apertura (chiusura) interpretativa. Un primo e più generale esempio: proprio perché l’Esserci è gettato “direttamente” nel Si («Lo stato di deiezione dell’Esserci non deve nemmeno essere inteso come “caduta” da uno “stato originario” più puro e più alto» p.215), in Nietzsche troviamo che la genealogia della morale affonda le sue radici proprio nel momento in cui l’uomo si fa tale, nel momento di “addomesticamento” della bestia… e sappiamo in che senso – e in vista di cosa – l’uomo, per Nietzsche viene dopo la scimmia.
Cos’è una promessa? Secondo Nietzsche, una promessa è «memoria della volontà» (p.46), una sospensione di quell’oblio costitutivo dell’animo umano che non è vis inertiae, ma la volontà di dimenticare, far tabula rasa della coscienza per «far posto al nuovo». Affinché l’uomo diventi capace di reprimere l’istinto all’oblio (che quindi è interpretato in maniera diversa rispetto all’oblio della temporalizzazione deietta) e quindi di far promesse, deve divenir prima capace di calcolare secondo causalità e determinismo, distinguere il necessario dal casuale: questo presuppone che l’uomo stesso possa disporre di sé come avvenire, che diventi «calcolabile, regolare, necessario». Per Nietzsche la storia di come l’uomo si sia reso in grado di promettere come di esigere il mantenimento di una promessa – di come sia nata la responsabilità – ha un passato a tinte fosche: la memoria è stata incisa a fuoco nell’«animale-uomo». In particolare, proprio quelle promesse che permettono di vivere in una società e coi suoi vantaggi, hanno la loro radice nelle pene e nelle torture più atroci: «quanto sangue e orrore è nel fondo di tutte le “buon cose”»!...

Il concetto di «colpa» avrebbe origine in quello di «debito» per Nietzsche. Subito salta agli occhi un punto di estrema – ma forse apparente – contraddizione tra questa tesi nietzschiana e delle affermazioni di Heidegger che troviamo nel paragrafo Comprensione del richiamo e colpa (§58): «Il concetto di colpa morale è così poco chiaro dal punto di vista ontologico che poterono diventare e restare dominanti interpretazioni di questo fenomeno che fanno rientrare in tale concetto anche la nota delle punibilità e perfino quella dell’aver debiti presso… o addirittura interpretazioni che lo definiscono deducendolo da queste idee». Heidegger fa riferimento al fatto che, nel tentativo di definire l’essere della colpa e della colpevolezza, questa viene ricondotta all’ambito del prendersi cura proprio nel senso del calcolo redistributivo delle pretese.  Ma Nietzsche non afferma che l’essenza della colpa sia il debito, il sentirsi/ritenere qualcuno in debito, anzi! La colpa ha, ad oggi, in tutto e per tutto una connotazione morale, e in un certo senso risiede in più originario e perverso senso di colpa (pensiamo al ressentiment, connesso ai valori cristiani, al peccato originale ecc.). La possibilità di considerare qualcuno colpevole trova invece nel debito la sua origine storica. Non so se nelle su citate parole di Essere e Tempo Heidegger si riferisse direttamente alla Genealogia della Morale, ma indubbiamente il lavoro di Nietzsche si muove su un piano diverso: esso non deduce la colpa dal debito – inoltre si potrebbe considerare il profondo apprezzamento che Heidegger mostra nel paragrafo 76 nei confronti della seconda Considerazione inattuale: il rapporto di entrambi nei confronti della storiografia potrebbe non essere poi così inconciliabile. Comunque, proprio nel paragrafo 4 da Nietzsche vengono criticate le ingenue genealogie che pongono come cooriginarie pena e compensazione per un torto subito.

La primissima funzione della pena non sarebbe stata quella di un «calcolo redistributivo di pretese», bensì di puro sfogo. Il danneggiato attraverso la pena sfoga la propria ira secondo un’equivalenza di danno e dolore. Ed è solo in questo momento che introduciamo il concetto di debito. Tale equivalenza ha origine proprio nel rapporto tra creditore e debitore: nel momento più banalmente economico, antecedente alla formazione stessa della civiltà e della società, chi compie una promessa offre a garanzia della propria parola una sua proprietà, la propria donna, la propria libertà, il proprio corpo. Il creditore, da contratto, ha così «diritto alla crudeltà». È proprio questo diritto di far del male, diritto di sfogarsi contro il debitore che fonda i contratti, le comunità, la società: ancora meglio, è solo il concedersi dell’uomo, il rinunciare alla propria libertà e al proprio corpo che permette la formazione della società… della pubblicità del Si. Più radicalmente, il passaggio dall’animale-uomo all’uomo vero e proprio, l’Esserci che è essenzialmente anche un con-Esserci avviene proprio attraverso questa rinuncia. Chiaramente, solo perché il Ci dell’Esserci è aperto nella gettatezza e al non-possedersi è possibile che un Esserci si indebiti, si sottometta. Storicamente, nel momento in cui si può cominciare a parlare di Esserci esso è già ceduto all’arbitrio altrui: già non è più fondamento di se stesso. Quindi: ciò non significa che solo in virtù di questi processi ontici l’analitica esistenziale può parlare dell’Esserci come nullo fondamento decaduto da se stesso, significherebbe disconoscere l’originarietà delle strutture esistenziali: significa che nei primissimi secoli della storia dell’Esserci assistiamo a un vero e proprio gettarsi ontico (un manifestarsi meno coperto) nell’arbitrio altrui. In altre parole, abbiamo qui, scoperto, manifesto e disteso nel tempo il fenomeno originario-ontologico dell’esser progetto-gettato dell’Esserci. Ma il processo di formazione della colpa è ancora lungo…

La civiltà si forgia su pubbliche torture, pubbliche esecuzioni capitali, pubbliche guerre (cantate dai poeti) e tragedie: la sfera pubblica, riunendosi intorno al momento dello sfogo contro il criminale, contro il danneggiatore della comunità stessa, fonda sulla pubblicità la distinzione tra cos’è giusto e cos’è sbagliato (anche se dobbiamo tener presente che per Nietzsche tutto sottostà alla volontà di potenza dell’άριστος…): è impensabile la virtù senza testimoni. La comunità intera assume il ruolo di creditore, e ogni singolo è debitore. Come l’uomo inizia a calcolare, a «confrontare potenza a potenza, […] stabilirne la misura e farne il computo», si fa esso stesso calcolabile, capace di promessa. E in questo senso l’uomo ha stretto una promessa con la comunità-creditrice. Comincia a formarsi l’idea di giustizia, un’idea “economica”, per cui tutto è suscettibile di saldo e tutto dev’essere saldato. Nel momento in cui un delinquente «mette le mani addosso al suo creditore» (p. 60), la comunità lo colpisce non come immorale, come cattivo e colpevole nel senso di violatore di un’«”esigenza morale”» (p.337), bensì come violatore del contratto, come danno. La comunità ammonisce sull’importanza che hanno i beni di cui il debitore aveva fino a quel momento goduto. Che significa ciò? Significa che solo in quanto un debitore è tale, solo in quanto ha acconsentito ad accettare i patti, rinunciando alla propria libertà, può essere riconosciuto come colpevole di aver violato gli stessi! La colpa agli occhi dello stato interpretativo pubblico, che detta il non-da-farsi, è possibile in quanto già da sempre il debitore non si possiede, ma anzi è signoreggiato proprio dal Si – addirittura ne gode i vantaggi! (A tal proposito è interessante una nota a p.61 che, relativamente all’esser-sempre-mio dell’Esserci, recita: «l’esser-sempre-mio vuol dire esser-dato-in-proprietà (Übereignetheit)» … ma attraverso il e nel “contratto” potremmo dire, mostrando l’essenza del Si, che l’Esserci è dato-in-proprietà non a sé, ma al Si! Il termine tedesco rende bene l’idea di un possesso quasi materiale, economico). La pena è sì uno sfogo, ma anche un monito, quasi come se dicesse: «ricorda che non ti possiedi, ricorda che il tuo poter-essere non ti appartiene: devi fare come si fa, perché nei confronti del Si sei già da sempre in debito». Ma questo come manifesta l’esser-colpevole heideggeriano? Di certo la colpa originaria dell’Esserci non è quella di aver infranto lo stato interpretativo del Si (semmai, quello potrebbe essere un indizio di autenticità…?). La sua colpa è quella di non possedersi, quella di essersi-perduto nel Si (p.342) – quella di esser diventato uomo sociale, ossia con-Esserci (e ricordiamo che per Heidegger anche un uomo solitario è con-Esserci, anche se in modo difettivo, in maniera originaria l’Esserci esiste-con gli altri!), e quindi di aver ceduto il proprio corpo e la propria libertà in cambio dell’esistenza come tale. Storicamente si svolge il processo di deiezione dell’Esserci.

Col passare dei secoli questa gettatezza nella deiezione si fa da un lato sempre più costitutiva (onticamente) dell’uomo (immaginiamo, generazione dopo generazione, chi nasce già nella società e ne gode intrattiene già da sempre questo rapporto debitore/creditore), dall’altro si copre, si fa ovvio. Lo stesso Nietzsche ad esempio ammette che i vantaggi di cui godiamo (che hanno però il prezzo del non possedere il nostro poter-essere?) vengono spesso sottovalutati. Anche se può essere azzardato, se consideriamo quanto l’uomo debba essere calcolabile, necessario, reificato per poter unirsi al patto sociale – così da poter essere ritenuto colpevole e violatore di un patto – possiamo quasi immaginare che lo stesso con-Esserci, alla stregua di un utilizzabile, abbia una sua appagatività: la pace sociale, i beni e i vantaggi costituiscono l’a-che. L’altro Esserci, come “ente sociale” rimanda al Si-stesso, a ciò che non-si-deve-fare, proprio perché in quanto Esserci sappiamo che egli fa parte del patto, intrattiene con la comunità lo stesso rapporto di debito. Tale appagatività è ovvia, scontata… ma come un’utilizzabile nel momento in cui si rompe, divenendo importuno, rende esplicito ciò presso-cui sussisteva la sua appagatività, così nel momento in cui l’altro come ente-sociale si “rompe”, ossia viola quel patto e diventa importuno, rende esplicito il patto stesso. L’esecuzione capitale, la proscrizione, l’esilio sono proprio il manifestarsi di questa rottura. Il patto in sé presuppone il diritto alla crudeltà da parte del creditore, che si manifesta senza lasciarsi aspettare.

Nel paragrafo 11 Nietzsche comincia a introdurre in questo ambito il concetto di ressentiment, legato a quello di «cattiva coscienza». Finora abbiamo parlato sì di colpa, ma sempre in un’accezione economica, ben lontana dalla colpa morale che sarebbe ontologicamente fondata sulla colpa ontologica. Non perché la possibilità di essere colpevoli nel senso su descritto non si fondi sulla radicale gettatezza dell’Esserci – anzi, ne porta proprio alla luce il fenomeno, mostra come l’Esserci, esistendo, non si conferisca da sé il possesso del proprio poter-essere, ma lo ha da assumere nello stato interpretativo e “alle condizioni” non proprie, ma del Si – ma perché non ha nulla a che fare con la coscienza dell’esser colpevoli. In questo primo momento storico se il punitore considera il criminale colpevole di aver trasgredito un patto, senza alcuna accezione morale, il condannato considera la pena come una fatalità, un accidente. Il reo pensa: «inaspettatamente, a questo punto, qualcosa è andato storto» non già «questo non avrei dovuto farlo». Col tempo «la pena ammansisce l’uomo, senza farlo tuttavia “migliore”» (§15). Le origini ontiche della coscienza morale, della «cattiva coscienza», e quindi del sentirsi in colpa non si trovano direttamente nella pena, piuttosto nel ressentiment; allo stesso modo la pena e la giustizia sono quanto di più lontano dai «sentimenti di reazione». I due fenomeni sono però legati, e analizzando le “vicende” storiche alla luce del rapporto ontologico che sussiste tra coscienza e colpa ciò sarà più chiaro.

Nel paragrafo 16 Nietzsche espone una sua prima ipotesi sulle origini cattiva coscienza. Col costituirsi della società gli istinti ferini dell’uomo-animale vengono svalutati, divelti. Quando parliamo di con-Esserci, parliamo dell’uomo che è-con-gli-altri e che solo in quanto tale può essere punito ed esiliato, lasciato solo – un uomo-animale che non abbia stretto alcun patto non è un con-Esserci, e ugualmente non è gettato in alcun Si ecc., manca insomma degli esistenziali fondamentali perché si possa parlare di Esserci: ciò non significa che la vicenda storica fondi l’ontologia, ma al contrario che solo un Esserci in quanto esistenzialmente con-essere storico può avere una “storia della civiltà”. Col costituirsi della società, gli istinti precedentemente «inconsciamente infallibili» non potendo manifestarsi si rivolgono all’interno, contro l’uomo stesso: in questo ha origine la cattiva coscienza, che Nietzsche interpreta come «la sofferenza che l’uomo ha dell’uomodi sé».  La cattiva coscienza è il frutto di «un salto e di una caduta, per così dire, in nuove situazioni e condizioni esistenziali». Certo, Nietzsche non interpreta «caduta» e «esistenziali» come determinazioni ontologiche come fa Heidegger, ma noi possiamo farlo, mostrando come la cattiva coscienza sia esattamente questo: il risultato dell’interpretazione deietta e, appunto, decaduta del movimento fondamentale dell’esistenza dell’Esserci, la coscienza. Questo è possibile solo perché, ontologicamente-originariamente, solo in virtù del fatto che «la chiamata fa in fondo comprendere questo esser-colpevole» (p.342) la coscienza è possibile. Se la coscienza chiama tacitamente alla libertà, all’assumere autenticamente il proprio nullo fondamento e sottrarre il proprio poter-essere al Si, nel momento in cui viene sopraffatta dalla chiacchera essa si manifesta come senso di colpa («soltanto un’occasione per la chiamata effettiva»): l’interpretazione del Si apre (chiude) la chiamata della coscienza stravolgendola come successiva ad una violazione di un’esigenza morale… esigenza morale (ciò che si fa e non si fa) che manifesta il signoreggiare del Si sulle possibilità dell’Esserci stesso. Il Si è estraniante, autoimprigionante, in qualche modo tranquillizzante, ma soprattutto tentatore: «l’essere nel mondo è in se stesso tentatore» (p.217) ... Comunque sia, Nietzsche ancora non ha parlato della cattiva coscienza in questi termini.

La metamorfosi non è avvenuta gradualmente, ma di colpo, in maniera tanto repentina che nemmeno il ressentiment (che quindi entra in gioco più avanti) fu possibile di primo impatto. Una violenta ondata di invasioni da parte di popoli «organizzatori nati», ignoranti di «cosa sia colpa, responsabilità, scrupolo» sottomise queste prime società sotto una spaventevole tirannide. A «colpi di martello» l’istinto di libertà fu represso, reso latente – e ciò che viene coperto, viene compreso dall’esserci fuori dalla verità, viene per così dire rimossa l’alfa dall’ἀλήθεια. In ciò, afferma Nietzsche, ha il suo cominciamento la cattiva coscienza. L’interpretazione del testo nietzschiano evidentemente non è molto chiara: non si capisce infatti se la cattiva coscienza sia il risultato di un progressivo formarsi di una società tanto pacificata quanto richiedente un surplus di rimozione («L’uomo che in mancanza di nemici esterne e di resistenze, rinserrato in una opprimente angustia e normalità di costumi, faceva impazientemente a brani se stesso…» p.74) o della sottomissione di popoli e comunità più deboli e amorfe da parte di organizzati popoli di «bestie bionde». Quello che è certo è che all’origine della cattiva coscienza è il rintuzzarsi dell’istinto di libertà. E tale repressione è avvenuta contro (§18) «non […] l’altro uomo, gli altri uomini», ma contro «lo stesso uomo, il suo intero, animalesco, antico sé». L’interpretazione che ho dato prima della cattiva coscienza come chiamata della coscienza (ontologica) sottomessa alla sordità coprente del Si acquista così una maggiore chiarezza e, spero, validità. (Certo, non è per questo necessario accostare la volontà di potenza alla chiamata della Cura a rendersi libero per poter interpretare a partire da Se-stesso le proprie possibilità, o questi “popoli/artisti” ad un Esserci autentico che, nel suo scegliere se stesso ed «essere autenticamente quel “colpevole” che, essendo, è», non conosce colpa morale perché conosce ormai solo la propria interpretazione del poter-essere e dell’esser-gettato… anche se la suggestione può essere, forse, interessante.)
Bisogna però ancora mostrare quale sia la relazione tra la deiezione nel Si che caratterizza il “patto sociale” e i suoi obblighi da una parte e dall’altra il formarsi di una coscienza che innanzitutto si sente colpevole, brutta, svillaneggia se stessa e quindi forgia i valori morali veri e propri, i valori non egoistici, disinteressati, alla luce della struttura ontologica di coscienza, chiamata e esser-colpevole. Come abbiamo visto prima, col formarsi di una comunità sempre più stabile, ricca e “sociale” – va da sé, il Si diventa qualcosa di sempre più complesso, articolato, stringente – il rapporto tra debitore e creditore si fa più complesso. In particolare (§19) le generazioni successive si sentono debitrici nei confronti dei progenitori, secondo l’idea che la sopravvivenza e la sussistenza della comunità dipendano dall’opera di questi: più la comunità si fa potente, più il merito dei progenitori si fa grande e con esso il senso di debito e di timore dei discendenti. A tali progenitori non si tributano solo sacrifici e tempietti, ma anche e soprattutto l’obbedienza a usi, costumi, «prescrizioni e comandi loro». Col passare del tempo e l’aumentare della potenza e del timore v’è una trasfigurazione: da progenitori ad avi, da eroi a dei. L’obbedienza al “cosa e come si fa” (e quindi, più avanti, il senso di colpa morale per la trasgressione) è un tutt’uno con il timore e il senso di debito. E qui capiamo anche il ruolo che hanno avuto crudeltà, torture e pene in genere: se queste insieme alla funzione di “sfogo” fornivano anche l’instrumentum per l’ammansimento dell’uomo “debitore” e la sua sottomissione al “creditore”, si capisce il loro ruolo nella formazione del senso del timore e del debito! Inoltre, ricordiamo come Nietzsche più volte faccia riferimento all’iniziale unione di feste popolari e religiose con spettacoli di tortura e morte. Nella celebrazione del dio si incide a fuoco nella mente dell’uomo il Si, tanto che la sua genesi, “rimossa” ma sempre presente, risulta misteriosa e nascosta nelle oscurità del passato: non manifesta questo l’ontologia del già-da-sempre e del «pre-» della precomprensione? La stessa pubblicità della pena è possibile sul fondamento del con-essere nel Si – anzi, lo manifesta appieno: nello spettacolo dell’esecuzione pubblica dobbiamo immaginare che ogni uomo, ogni con-Esserci si perda massimamente nella curiosità che lo accomuna agli altri. Dunque, è palese come solo sul fondamento di un’iniziale “colpa” “proto-ontica” (potremmo chiamare così il fenomeno che nel suo essere più primitivo è anche più aderente al fenomeno ontologico di riferimento), ossia il rinunciare al proprio poter-essere per impegnarsi in una promessa, fondare la comunità, mantenere la protezione del progenitore (possibile solo a causa della gettatezza dell’Esserci che storicamente si manifesta in piena luce), sia poi possibile una deficienza morale. Non bisogna confondere il debito verso gli altri da quello su cui quest’ultimo si fonda, il “debito esistenziale”, ossia la colpa in senso esistenziale: è solo perché nel suo essere è un progetto gettato da cima a fondo che l’Esserci può intrattenere un rapporto di debito con gli altri, ossia può manifestare proto-onticamente questo suo non possedersi, questo suo barattare la libertà con l’esistenza.

Ma, appunto, come si connette questa genesi della religione dal timore e dal debito con la cattiva coscienza vera e propria e il senso di colpa morale? Con l’avvento del Dio cristiano – in pieno contesto di quella trasvalutazione dei valori da aristocratici a «dei servi» (quindi di ressentiment) fondamentale per la colorazione morale della colpa – assistiamo al «maximum del senso di debito». Questa chiamata alla libertà è repressa fino al paradosso: la colpevolezza non è più solamente del debitore singolo, ma dello stesso primo «creditore» umano: Adamo, il peccato originale, la cacciata dall’Eden ecc. dobbiamo considerare tutto ciò come un’interpretazione estremamente perversa della colpa ontologica! Se assumiamo la posizione nietzschiana, dobbiamo immaginare che Heidegger sia stato fin troppo buono nel descrivere lo stato interpretativo del Si (contro il quale pure rivolge tra le righe aspri giudizi). La chiacchera religiosa non solo fa emergere la coscienza di colpa in seguito a un “peccato”, ma la riporta estremamente indietro, alle radici dell’uomo, rendendo la colpa inestinguibile, il debito irrisarcibile. Questo non significa che offre una comprensione autentica della nullità del fondamento («risvegliando all’esser-colpevole come a qualcosa da cogliersi nella propria esistenza»), ma piuttosto la copre, rendendola qualcosa per cui provare vergogna, per cui automortificarsi e rimettere il proprio poter-essere appunto a Dio (con il quale appunto si intrattiene il debito più alto e instinguibile), la manifestazione più alta del Si. La stessa “voce di Dio” che richiama e il peccatore è solo una copertura della chiamata. Per quanto riguarda il ressentiment potremmo ipotizzare che il suo cuore ontologico sia la «contrapposizione commisurante» che regola il con-essere nel Si: alla luce di questa l’Esserci “sente” la chiamata della coscienza che tenta di richiamarlo-indietro al suo essere-gettato… e subito la copre, nella chiacchera religiosa automortificante, nascondendosi la vergogna della non-libertà, il senso di inferiorità nei confronti dell’ άριστος (questa è l’origine del ressentiment che permea il cristianesimo) per forgiarsi una “buona” coscienza (trasvalutazione). Ma come mostra Heidegger (p.348), la buona coscienza, il sentirsi non colpevoli (l’agnello-servo che scarica la colpa sull’aquila-padrone della prima dissertazione della Genealogia) è solo un considerarsi in-colpevoli, un totale oblio della coscienza, un «uscire dalla possibilità di poter essere richiamati». Il ressentiment come tonalità emotiva è, in un certo senso, agli antipodi dell’angoscia.

Nietzsche parla della «volontà dell’uomo di trovarsi colpevole», che si forma proprio a causa della deiezione dell’uomo, di un poter-essere non libero: non che non sia colpevole, anzi, Heidegger ci insegna che l’essere dell’Esserci è radicalmente colpevole… ma proprio nel momento in cui l’Esserci riesce ad assumere la propria colpevolezza originaria – proprio nel momento in cui l’Esserci si decide e vuole-aver-coscienza, non si “sente” più colpevole come si sente colpevole l’uomo della cattiva coscienza. E questo non solo perché la tonalità emotiva dell’Esserci autentico è quella di una «calma angoscia» accompagnata da una «gioia imperturbabile», ma soprattutto perché il rapporto con la tradizione morale non può essere quello passivo del Si: non che la comprensione esistentiva autentica si sottragga dallo stato interpretativo “ricevuto”, ma questa afferra le proprie possibilità in base a esso o contro di esso, aprendosi sempre come critica al presente. Ciò che Nietzsche ci mostra è come già dai primi momenti della storia umana la coscienza sia “costretta” ad essere snaturata, in perfetto accordo quindi con l’essere dell’Esserci deietto.

La Genealogia della Morale si chiude con un profetizzare un avvenire di una «grande salute», una generazione di spiriti fortificati, per cui il dolore stesso è un bisogno, o un «anticristo e antinichilista, vincitore del Dio e del nulla». Con il riferimento nell’ultimissimo paragrafo a Zarathustra si rimanda chiaramente al senso della terra dionisiaco e aristocratico, che ad esempio trova la sua più alta espressione nella dottrina dell’Oltreuomo. Se questo tipo di figura possa essere interpretata come un Esserci autentico è un discorso più complesso e che, forse, considerando il modo radicalmente diverso di intendere la verità di Nietzsche e di Heidegger, porterebbe a nulla (la volontà di potenza forgia da sé la verità; diversamente, per Heidegger, «solo perché la “verità”, in quanto scoprire, è un modo di essere dell’Esserci, essa può essere sottratta all’arbitrio dell’Esserci. Anche la “validità universale” della verità trova il suo radicamento esclusivamente nel fatto che l’Esserci può scoprire e rilasciare l’ente in se stesso»). Anche se l’autentico è, in un certo senso, vincitore del nulla: appropriandosi del proprio nullo fondamento può progettare e determinare la propria possibilità effettiva di volta in volta, sì rinviato al Si, ma affrancato da questo; e solo all’Esserci che ha deciso per quel Ci che nell’esistenza il se-Stesso ha da essere è permesso di trovarsi nella situazione, dove possono accadere accidenti, che vengono “lasciati-essere” nella loro dionisiaca ineluttabilità, e dove l’Esserci, appunto, «agisce già» (p.358).

Il tentativo fondare sull’ontologia di Esser e Tempo i processi storico-psicologici portati alla luce da Nietzsche nella decostruzione della morale è stato incoraggiato in particolare dal fatto che più volte Heidegger nel corso della trattazione ribadisce che, se son state davvero scoperte le «radici ontologiche» dei fenomeni umani, allora dev’essere possibile spiegarli e renderli comprensibili proprio a partire da tali radici. Considerando inoltre i fenomeni antichi e “primitivi” come meno coperti, ho cercato non tanto fenomeni spiegabili a partire da quest’ontologia, ma fenomeni che la ricalcassero in maniera più genuina, meno nascosta. Ciò che viene alla luce è che nei primi momenti della storia umana i processi fenomenologici dell’analitica esistenziale si manifestano in maniera più “distesa”, scoperta: se l’Esserci di oggi si trova ad essere-gettato direttamente in un orizzonte interpretativo pubblico, con la sua pre-comprensione morale specifica, quello primitivo ha “vissuto sulla propria pelle” la formazione il «pre-» esistentivo di questa precomprensione.

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