Johann Joachim Winckelmann - il Bello nell' Arte
Al 1755
risalgono i Pensieri sull’imitazione dell’arte greca della pittura e nella
scultura, opera
cardine e paradigmatica del pensiero di Winckelmann. Composta e pubblicata
prima del trasferimento a Roma, i Pensieri
contengono già i passi più ispirati e ricchi di estatica ammirazione per la
classicità greca dell’opera. Sebbene essa sia formata da circa un centinaio di
frammenti, possiamo individuare non solo tematiche ricorrenti, ma anche una
coerenza argomentativa nella disposizione di tali frammenti: gli argomenti più
generali non vengono presentati separatamente gli uni dagli altri, ma nella
loro specificità hanno un filo conduttore che li unisce dal primo all’ultimo.
Possiamo individuare diversi temi all’interno dei “pensieri”, nonostante una
precisa categorizzazione sia quasi impossibile, che qui sono presentati quanto
più possibile in ordine.
La peculiarità
della Grecia, unico luogo in cui sarebbe potuto sorgere il Bello ideale. Per Winckelmann
il buon gusto non poté che nascere in Grecia, dove «si dice Minerva assegnasse
come dimora ai Greci, a preferenza d’ogni altro, per le miti stagioni che vi
trovò, visto che esso avrebbe potuto produrre menti intelligenti.». Con questa
citazione dal Timeo di Platone
Winckelmann ci pone fin da subito in un ambito estetico fortemente occidentale,
in cui il bello della forma è strettamente legato all’εἶδος del Bello. Afferma
infatti, con esplicito riferimento a Platone, che nei capolavori greci vi si
trovano «certe bellezze ideali, che […] sono composte di figure create soltanto
dall’intelletto». Appare fondamentale quindi intendere, comprendere i greci per
poterli ammirare e apprezzare appieno e dunque imitarli al meglio.
La spontaneità del
Bello artistico greco, imitazione della natura, e la necessaria imitazione moderna
del modello greco.
Winckelmann considera l’imitazione del modello greco come unico mezzo per
ottenere lo stesso bello ottenuto dai classici. Infatti i processi genetici del
bello propri della Grecia sono nel mondo moderno impossibili: «La scuola degli
artisti era nei ginnasi», lì gli artisti studiavano le proporzioni e i
movimenti del corpo umano, corpo umano di bellezza introvabile al giorno d’oggi
(«Forse il più bel corpo dei nostri tempi non avrebbe col più bel corpo greco
maggior somiglianza di quella che Ificle aveva col fratello Ercole»). La
cultura greca stessa come sappiamo dava molta importanza all’esercizio fisico
(pensiamo ai giochi Olimpici), in virtù della valenza tanto estetica quanto
etica della bellezza. Di conseguenza, poiché come dice Winckelmann, nemmeno un
modello delle nostre accademie non potrebbe mai assumere le pose e gli
atteggiamenti che si trovavano di norma nei ginnasi, appare indispensabile
imitare l’arte greca per arrivare a quella bellezza di cui i greci facevano
esperienza naturalmente. Infatti «il carattere della verità è dato dal
sentimento», e per sopperire alla mancanza di quest’ultimo nel modello
contemporaneo, l’artista moderno deve supplire col proprio animo attraverso lo
studio del modello greco.
La dimensione intellettuale
del Bello greco.
Come detto prima, in Grecia il Bello era colto attraverso lo studio e
l’imitazione della natura (i giovani nei ginnasi). Eppure, non per questo
dobbiamo pensare che l’artista greco si limitasse a copiare quanto vedeva.
Winckelmann ci dice che la frequente osservazione di tale natura spinse gli
artisti a ulteriori ricerche, che culminarono con la formulazione di canoni
«tanto delle singole parti quanto delle intere proporzioni dei corpi». Tali
canoni non facevano, anzi, non fanno riferimento a un prototipo, ma trascendono
verso una «natura spirituale, concepita solo intellettualmente». Tale principio
ispirò anche l’arte di Raffaello. Questa natura ideale del bello ovviamente si
risolve in un vero e proprio canone formale, che interessa tanto i lineamenti
della fronte e del naso (di cui spesso parla Winckelmann) quanto le pieghe del
corpo, che «una lieve curva fa nascere a guisa d’onda». A tal proposito
Winckelmann porta l’esempio dell’Antinoo «Admirando» del Belvedere come apice della rappresentazione del bello umano, e
dell’Apollo del Belvedere per il
bello divino: entrambe le statue sono dunque modello da imitare per l’artista
moderno che voglia arrivare al «bello perfetto», alle «forme sublimi».
Segue
una descrizione di un’Agrippina, oggi
identificata come Arianna, e delle Vestali della Galleria Reale di Dresda
come modelli insigni.
Agesandro, Atenodoro di Rodi e Polidoro - Laocoonte e i suoi figli (copia romana di un originale bronzeo del 150 a.C. ca.) |
Il Laocoonte come
modello della «nobile semplicità e quieta grandezza» del classico greco. In quello che uno
dei passi più celebri della letteratura dell’arte, Winckelmann identifica in
«una nobile semplicità e quieta grandezza, sia nella posizione che
nell’espressione» il carattere fondamentale dei capolavori greci, e ne vede nel
Laocoonte e i suoi figli la
realizzazione più alta. Il Laocoonte qui non grida orribilmente come nel canto
virgiliano, ma il dolore del corpo si fonde alla grandezza dell’animo. Nella
sua tranquillità il Laocoonte ci mostra il vero carattere dell’anima, e quindi
del vero: solo quando in riposo e in armonia l’anima si mostra attraverso il
corpo nella sua grandezza e nobiltà e, cosa più importante, nel suo «stato
normale». Affinché una tale anima venga
infusa nella statua, ci dice Winckelmann, lo scultore e il filosofo devono
essere una sola cosa e la saggezza deve porgere la mano all’arte. In caso
contrario l’arte pecca di «parenthyrsus».
Anche qui Raffaello si mostra il migliore imitatore degli antichi e quindi il
più capace nel rappresentare la nobile semplicità e quieta grandezza.
La pittura greca. Dopo una lunga
ecfrasi sulla tecnica scultorea di Michelangelo, con la quale gli artisti
moderni «potrebbero sperare di avvicinarsi quanto lui ai Greci», Winckelmann
spezza una lancia in favore dei moderni, circa la loro superiorità nella
pittura, in materia di proporzioni, prospettiva, colore e composizione. Nei
pittori greci sono riconosciuti disegno ed espressione.
L’allegoria, il
simbolo e la mitologia come strumenti rappresentativi. Affermando che
«la pittura si estende a cose non afferrabili con i sensi» e che «i Greci hanno
fatto il possibile» per raggiungerle, citando il caso di Parrasio, che si
diceva fosse capace di dipingere «gli Ateniesi quali essi erano: buoni e a un
tempo crudeli, leggeri e insieme ostinati, valorosi e vili», Winckelmann
introduce il tema dell’allegoria. L’allegoria, presentata come «simboli che
esprimono concetti generali», viene in aiuto all’artista moderno offrendo un
corredo di immagini, soggetti e figure concrete capaci di comunicare concetti e
idee che concreti non sono. Non solo: attraverso l’allegoria di un fatto o di
un personaggio storico questi vengono elevati alle forme (e quindi alla
caratura morale) degli antichi. In effetti per Winckelmann il fine ultimo del
sistema allegorico non sembra essere quello di costruire una narrazione intrisa
di simbolismo, e quindi necessitante di decifrazione (ricordiamo la terzina del
Canto VIII del Purgatorio in cui Dante esorta il lettore a prestare attenzione
alla sottile allegoria da lui costruita: «Aguzza qui, lettor, ben gli occhi al
vero, / che il velo è ora ben tanto sottile, / certo che l’trapassar dentro è
leggero»), ma quello di dare alle opere moderne il «nobile gusto
dell’antichità», aprendo un vasto campo all’imitazione dei modelli antichi –
anzi, a tratti sembra addirittura suggerire l’utilizzo dell’allegoria per
conferire «un fondo di dottrina» all’arte decorativa usata per coprire vuoti
sulle pareti, altrimenti inutile e vuota di pensiero. Negli ultimi due
“pensieri” all’allegoria è conferita invece una grande importanza: essa è
capace di provvedere alla funzione educatrice e istruttiva dell’arte, non
seconda a quella del diletto. Bisogna dunque che l’allegoria non ricopra il
pensiero dell’artista, ma lo rivesta: «Il pennello maneggiato dall’artista
dev’essere intinto nell’intelletto». In questo modo l’allegoria darà agli
esperti «materia per pensare» e agli amatori insegnerà a pensare. Curioso è il
fatto che Winckelmann, proprio nelle ultime righe, utilizzi l’allegoria del
fuoco che Prometeo rubò agli dei per simboleggiare la capacità poetica che corre
in aiuto all’artista nell’utilizzo di questo importante strumento retorico.
Nel
1759 vengono pubblicati, insieme ad altri, i tre saggi Avvertenze sul modo di osservare le opere d’arte antica, Della grazia nelle opere d’arte e Descrizione del Torso del Belvedere,
cominciati già nel 1756. In questi anni Winckelmann, trasferitosi finalmente a
Roma in qualità di bibliotecario prima presso il cardinale Archinto e poi
presso il cardinale Albani, ha la possibilità di studiare l’arte classica di
persona, in particolare le statue del Belvedere, da lui considerate i paradigmi
del Bello ideale. Inoltre nel ’58 visita Ercolano e Paestum.
Nel
primo studio Winckelmann distingue tre criteri di giudizio dell’opera d’arte,
fondamentali per osservare con coscienza ogni opera, andando oltre la superfice
e compiere i primi passi verso la conoscenza dell’arte. Il primo criterio
consiste nell’individuazione del lavoro intellettuale che si cela dietro
l’opera, se questo lavoro sia presente e in che misura. Distinguendo tra diligenza, fondamentale per
l’acquisizione di una buona tecnica, e ingegno,
chiave per un lavoro di qualità e originale, Winckelmann ribadisce la
dimensione intellettuale nell’arte. L’ingegno certo non è indispensabile nella
creazione dell’opera d’arte: la diligenza può esserne priva e condurre comunque
a discrete opere d’arte: è il caso di Bernini (uno dei bersagli preferiti del
Winckelmann) e della sua Dafne, dove
le foglie d’alloro sono però «insignificanti particolari» frutto di tanta
tecnica e poco ingegno. Il vero ingegno traspare invece dall’essenzialità,
l’«esprimere molto con poco». In questo erano campioni, ovviamente, gli
antichi. Si pensi all’Apollo del
Belvedere, nel cui volto si palesano armonicamente fierezza, ira,
disprezzo, o all’opera di Omero, dove una sola parola «contiene un’immagine».
Da qui l’importanza dell’imitazione degli antichi, e non della copia. Se
quest’ultima è frutto della capacità tecnica, la prima necessita di
«intendimento» e può quindi portare all’originalità. Esempio moderno di questo
principio di essenzialità e quindi di ingegno e intendimento degli antichi è la
Scuola di Atene di Raffaello, dove
nel braccio alzato verso l’alto di Platone e la mano volta verso il basso di
Aristotele sono sottese rispettivamente l’intera dottrina delle idee e
l’immanenza della forma nell’essere. Il secondo criterio è la bellezza. Dopo
aver affermato che la bellezza «non è legata né a un numero né a una misura»
(qui sta la difficoltà nel coglierla, difficoltà che accomuna l’artista al
filosofo), e che è data «dalla varietà nella semplicità», «pietra filosofale»
dell’arte, Winckelmann ci dice che gli artisti antichi conoscevano tale
bellezza, e che questa era presente in (quasi) ogni loro opera. Viene a
identificarsi così la bellezza con i canoni formali dell’arte antica, La
bellezza si trova nelle linee non interrotte del contorno della statuaria
classica, nella «linea dolcemente inclinata dalla fronte al naso», nella
rotondità delle parti prominenti del viso e del corpo. Tale bellezza, irraggiungibile
persino a Raffaello, pare che fosse invece la prassi per ogni artista greco: a
testimonianza di ciò, le meravigliose effigi sulle monete della Magna Grecia, i
cui lineamenti devono essere modello per l’imitazione moderna. Il terzo criterio infine è l’«intendimento», inteso non come lo era stato
nell’ambito del primo criterio, quindi nella fase di progettazione dell’opera,
ma nell’ambito dell’esecuzione in senso stretto. Winckelmann parla di “franchezza
e sicurezza della mano”, virtù proprie dell’ingegno artistico e che ritroviamo
per esempio nei tratti sicuri di Raffaello, e considera il labor limae, la levigatezza delle figure e la pittura liscia un
semplice lavoro da operaio, frutto della sola diligenza (e ovviamente anche in
questo caso Bernini è preso ad esempio negativo).
Nel
secondo studio Winckelmann tratta della grazia
nelle opere d’arte, prima da un punto di vista estetico-formale, poi da un
punto di vista storico. Fin da subito Winckelmann ci dà una definizione di
grazia: essa è «il piacevole secondo ragione». Essa, se in epoca moderna è
pregio per esempio del Correggio ma non di Michelangelo, è diffusa
indistintamente in ogni opera d’arte antica.
La grazia ha un valore estetico importantissimo, poiché attraverso essa si raggiunge la bellezza astratta, la bellezza dell’animo, l’essenza divina risplendente nel marmo. Questa si manifesta tanto nell’«essenziale», ossia posizione, gesti, espressione, quanto nell’«accidentale», quindi ornamenti, vesti ecc. Notiamo come queste categorie siano le due categorie fondamentali dell’essere per Aristotele: la grazia essenziale ha dunque una preminenza ontologica rispetto a quella accidentale, determinando l’essere divino e ideale della figura bella. Per quanto riguarda l’essenziale, fondamentale è la posizione del corpo. Essa deve essere al contempo a riposo (quindi col peso scaricato su una gamba, l’altra a riposo, spinta indietro quanto basta per portare la figura fuori dalla sua perpendicolare) e assolutamente decente (non troviamo figure a gambe incrociate se non, ad esempio, in segno di effemminatezza: ). Accompagnano la posizione: l’atteggiamento, sereno tanto nel piacere quanto nel dolore, segno di dignità e contegno spirituale, e la gestualità, quanto più naturale possibile («come quelli di persone che credono di non essere osservate»). Nel modo essenziale di porsi, la figura (e in particolare la statua) deve ispirare, e in qualche modo esigere, rispetto. Nella sua dimensione accidentale, la grazia sta anche qui nella naturalezza. Le vesti devono essere leggere ma non «svolazzanti e ariose», con le pieghe raccolte. Il drappeggio non deve coprire l’incapacità di fare il bello (è il caso di Pietro da Cortona e, ovviamente, Bernini), ma deve piuttosto mettere in risalto, con la propria leggerezza, il corpo sottostante: come quello che immagineremmo vestito dalle Grazie, come la veste leggera di «una donna bella da noi amata […] appena alzatasi da letto».
Dal punto di vista storico Winckelmann distingue un prima e un dopo Michelangelo: l’imitazione successiva di questo grande artista fece deviare, a detta dello storico dell’arte, gli artisti dal modello antico, e quindi dalla grazia. Anche se a Michelangelo son riconosciuti per la verità un ingegno sublime e un’immaginazione «troppo focosa per i sentimenti e la grazia gentile» (pensiamo alla drammaticità del Giudizio Universale ad esempio), la sua colpa fu quella di preferire lo straordinario e il difficile nell’arte, subordinandovi la piacevolezza e allontanandosi quindi da ogni grazia. I discepoli dunque non poterono non seguirne l’esempio e, per quanto grandi furono comunque inferiori agli antichi. Con grande ironia Winckelmann ci parla poi di Lorenzo Bernini, che «mai […] conobbe la grazia, neppure in sogno». Non riuscendo nell’imitazione degli antichi, Bernini avrebbe quindi scelto la strada del cattivo gusto (quella strada che lo rese in realtà il più importante scultore barocco: non possiamo biasimare Winckelmann per questo accanimento contro Bernini, poiché egli parte dal presupposto che nel classico si trova la vera bellezza, e il barocco di fatti si trova agli antipodi), scegliendo la natura e non l’idea comune come modello.
La grazia ha un valore estetico importantissimo, poiché attraverso essa si raggiunge la bellezza astratta, la bellezza dell’animo, l’essenza divina risplendente nel marmo. Questa si manifesta tanto nell’«essenziale», ossia posizione, gesti, espressione, quanto nell’«accidentale», quindi ornamenti, vesti ecc. Notiamo come queste categorie siano le due categorie fondamentali dell’essere per Aristotele: la grazia essenziale ha dunque una preminenza ontologica rispetto a quella accidentale, determinando l’essere divino e ideale della figura bella. Per quanto riguarda l’essenziale, fondamentale è la posizione del corpo. Essa deve essere al contempo a riposo (quindi col peso scaricato su una gamba, l’altra a riposo, spinta indietro quanto basta per portare la figura fuori dalla sua perpendicolare) e assolutamente decente (non troviamo figure a gambe incrociate se non, ad esempio, in segno di effemminatezza: ). Accompagnano la posizione: l’atteggiamento, sereno tanto nel piacere quanto nel dolore, segno di dignità e contegno spirituale, e la gestualità, quanto più naturale possibile («come quelli di persone che credono di non essere osservate»). Nel modo essenziale di porsi, la figura (e in particolare la statua) deve ispirare, e in qualche modo esigere, rispetto. Nella sua dimensione accidentale, la grazia sta anche qui nella naturalezza. Le vesti devono essere leggere ma non «svolazzanti e ariose», con le pieghe raccolte. Il drappeggio non deve coprire l’incapacità di fare il bello (è il caso di Pietro da Cortona e, ovviamente, Bernini), ma deve piuttosto mettere in risalto, con la propria leggerezza, il corpo sottostante: come quello che immagineremmo vestito dalle Grazie, come la veste leggera di «una donna bella da noi amata […] appena alzatasi da letto».
Dal punto di vista storico Winckelmann distingue un prima e un dopo Michelangelo: l’imitazione successiva di questo grande artista fece deviare, a detta dello storico dell’arte, gli artisti dal modello antico, e quindi dalla grazia. Anche se a Michelangelo son riconosciuti per la verità un ingegno sublime e un’immaginazione «troppo focosa per i sentimenti e la grazia gentile» (pensiamo alla drammaticità del Giudizio Universale ad esempio), la sua colpa fu quella di preferire lo straordinario e il difficile nell’arte, subordinandovi la piacevolezza e allontanandosi quindi da ogni grazia. I discepoli dunque non poterono non seguirne l’esempio e, per quanto grandi furono comunque inferiori agli antichi. Con grande ironia Winckelmann ci parla poi di Lorenzo Bernini, che «mai […] conobbe la grazia, neppure in sogno». Non riuscendo nell’imitazione degli antichi, Bernini avrebbe quindi scelto la strada del cattivo gusto (quella strada che lo rese in realtà il più importante scultore barocco: non possiamo biasimare Winckelmann per questo accanimento contro Bernini, poiché egli parte dal presupposto che nel classico si trova la vera bellezza, e il barocco di fatti si trova agli antipodi), scegliendo la natura e non l’idea comune come modello.
Nel
terzo studio Winckelmann descrive il Torso
del Belvedere, interpretato come parte di un Ercole seduto. É uno dei momenti più estatici e ammirati della
produzione scritta di Winckelmann, e dalle poche parti del corpo rimaste (la
statua e manchevole degli arti e della testa) lo storico quasi riesce a intuire
tutto il Mondo, in termini heideggeriani, dell’eroe dorico: la guerra contro i
giganti, la lotta contro il leone sul Citerone o contro il cane Cerbero, le
colonne e via dicendo. Questa statua, ci dice Winckelmann, è di natura ideale,
e nella sua valenza ideale è qui descritta (manca infatti una descrizione
strettamente tecnica). Certo la descrizione del Torso non è facile, poiché mancano proprio le parti «più importanti
che la natura ha dato all’uomo», nelle quali di norma si manifesta davvero
l’animo sublime del personaggio rappresentato: se nell’ Apollo era stato possibile coglierne la divinità dall’espressione o
dalla posa, qui a un primo sguardo appare impossibile. Eppure, dice
Winckelmann, con la giusta predisposizione d’animo è possibile scorgere nella
pietra l’eroe e il dio. Il contorno è insieme robusto e delicato, segno di forza
indomita e agilità; le spalle possenti richiamano il peso delle sfere celesti,
il petto è grandioso; il fianco sinistro un capolavoro di anatomia e scultura:
i muscoli sono tesi ma agili, a metà tra la calma e l’azione, come le onde del
mare prima della tempesta (ricordiamo a tal proposito che peculiare del
neoclassico fu il rappresentare l’azione non in medias res, ma nell’attimo appena precedente o successivo: un
esempio perfetto è Leonida alle Termopili
di Jacques-Louis David, dove troviamo la stessa sensazione che Winckelmann vede
nei muscoli addominali di Ercole). Le robuste anche richiamano la robustezza
dell’eroe tutto, che «mai vacillò e mai cedette». Dalle cosce possiamo
ricostruire le gambe, di possenza e lunghezza divine. Tutto l’animo e la
divinità dell’eroe si manifestano dunque nel semplice torso: tale fu la
capacità di Apollonio (lo scultore) di «spiritualizzare la materia» che la
forza del pensiero e dell’animo traspare anche in mancanza della testa, che da
sempre è la parte del corpo che più esprime i moti dell’animo, la realtà
interiore della figura («La possibilità di persuadere dell’uomo – e quindi la
sua caratteristica fondamentale, il pensiero, il linguaggio, il λόγος – è
concentrata nella testa» aveva detto Winckelmann nel primo saggio). Questo
perché il πάθος è solo suggerito, e la posa tranquilla del corpo è indice di
un’anima altrettanto tranquilla, nobile e pacata, e che quindi, come aveva già
detto Winckelmann nei Pensieri, più
facilmente si mostra attraverso il marmo nella sua perfezione. Attraverso il Torso lo storico dell’arte afferma la
superiorità della scultura sulla poesia: nessun poeta aveva cantato Ercole
nella forza del suo torso, del suo petto, delle sue spalle, poiché tutti ne
avevano cantato le braccia – qui lo scultore è riuscito a raggiungere un
livello di espressività tale che anche senza le sue caratteristiche peculiari
l’eroe appare in tutta la sua grandezza. L’immortalità è un tutt’uno con la
figura, che, come un vaso, la contiene.
Apollonio di Atene - Torso del Belvedere (I sec. a.C.) |
Del 1763 è la Dissertazione sulla capacità del sentimento del bello nell’arte e sull’insegnamento della capacità stessa, ambizioso progetto da un maggior carattere teoretico in cui Winckelmann si propone di dare una definizione del concetto di Bello. Ponendosi nel solco di una tradizione squisitamente platonica, lo storico non può che identificare il Bello come unione di forma e idea, contenente e contenuto. Distingue però tra bellezza, che è propria della forma ed è il fine ultimo dell’arte, e bello, che estendendosi a tutto ciò che si pensa va condotto «a compimento». Quindi la dissertazione tocca principalmente questi punti: il carattere ideale del bello, la complessa descrizione del senso esterno ed interno del bello, le modalità di insegnamento del bello e quindi il bello in architettura, scultura e pittura, tre avvertimenti circa il giudizio del bello. Per essere compresa, la bellezza necessita di essere rappresentata da un’idea generale, un εἶδος del Bello nell’arte. Tale idea dev’essere contemplata dal sentimento del bello attraverso l’immaginazione, capace di restituire all’opera, al muto marmo o alla pittura, il dolore e la vita che mancano. Nell’amare l’idea del «bello in sé» (e il riferimento a Platone è esplicito) il sentimento si divide in «senso esterno» e «senso interno». Il primo è l’organo del sentimento, e deve essere «esatto», il secondo è invece la capacità formativa e rappresentativa, e deve essere «sensibile e delicato». Per senso esterno si intende l’organo percettivo (e qui l’eredità del Teeteto è sotti’intesa) – in poche parole, la vista. Esso dev’essere esatto e preciso nel cogliere forma, colori e proporzioni, tanto nell’artista quanto nello spettatore; dev’essere esercitato attraverso lo studio e l’esperienza, al fine di allenare l’occhio al riconoscimento delle manifestazioni percettive del vero bello. Per Winckelmann dunque il riconoscimento del bello formale è qualcosa che concerne l’αἴσθησῐς, il momento più prettamente meccanico dell’esperienza estetica. Il senso interno è invece di tipo intellettuale ma non analitico, e nel formare e rappresentare le impressioni ricevute dal primo deve essere «pronto, delicato e immaginoso». Pronto a cogliere le primissime impressioni d’insieme, che sono le più forti e quelle capaci di suscitare l’estasi; delicato più che impetuoso, poiché se il bello consiste (per Winckelmann, che qui si colloca nella solco della Grande Teoria) nell’armonia delle parti, il sentimento deve essere altrettanto armonico, procedere lentamente e «con mano dolce»: per questo secondo lo storico gli antichi avrebbero rivestito le loro idee di simboli, così da renderne la conoscenza intellettuale graduale; di conseguenza immaginoso del bello contemplato: l’immaginazione, virtù fondamentale dell’artista, consiste nella capacità di richiamare alla mente i dettagli della bella immagine e quindi la sua bellezza, ed ciò che rende possibile la felicità, intesa come stabilità di sentimenti gradevoli. Nella dissertazione di Winckelmann appare chiara l’implicita distinzione tra esperienza conoscitiva ed estetica: alla prima basta l’occhio, la seconda (che mancherebbe a Bernini, incapace secondo Winckelmann di conoscere il bello, e che sarebbe invece propria soprattutto del Lorenzetto) necessita invece di educazione e pratica e la sua sensibilità non è necessariamente accordata con l’esattezza dell’organo. Nonostante la preminenza del secondo sul primo, sembra che per la perfetta conoscenza del bello sia necessaria l’armonia tra entrambi i sensi. Bisogna notare una cosa: l’idea del bello come armonia in Winckelmann non entra in contrasto con la sua natura ideale. L’armonia è infatti quella che potremmo definire la causa formale che, guardando all’idea come causa finale, contiene quest’ultima al suo interno come senso di sé: l’idea è il contenuto dunque della forma armoniosa. Riguardo l’insegnamento del sentimento del bello, Winckelmann esordisce dicendo che la contemplazione dell’arte è attività possibile solo in un contesto di otium litteratum. L’educazione deve avvenire per gradi. Dapprima il giovane che mostri propensione al bello (espressioni ne sono ad esempio il cuore sensibile, la predisposizione al disegno) bisogna sia educato attraverso i classici, così da allenare e formare l’occhio quand’è più malleabile: un ragazzo che apprezzi Raffaello non potrà non apprezzare senza altra istruzione anche l’Apollo, poiché il bello è una «verità che persuade senza prove». Dunque bisogna che il giovane impari a distinguere il vero bello dell’antico dalla sua falsa idea del moderno, attraverso lo studio comparato e con l’ausilio del disegno. É però fondamentale per il perfezionamento dell’educazione lo studio dal vivo degli originali, poiché a differenza delle mute copie (spesso fuorvianti), gli originali greci e di Raffaello parlano e dicono la verità: risulta quindi indispensabile un grand tour in Italia, e in particolare a Roma, «sorgente inesauribile di bellezze d’arte».
Winckelmann
passa alla descrizione del bello nell’architettura, nella scultura e nella
pittura – la dimostrazione della sua presenza, essendo questa «verità
evidente», risulta invece troppo difficile. Una colpa epistemica di
Winckelmann, se facciamo nostra la lezione del Menone. Nell’architettura il bello consiste essenzialmente nella
proporzione (esempio ne sono la Villa Albani-Torlonia o la facciata di San
Pietro). La scultura si trova quindi a metà tra questa e la pittura, avendo per oggetto la figura umana ma essendo manchevole dei due momenti chiavi della pittura. In essa il bello si manifesta solo
nell’essenziale, nel Nudo (le stesse vesti non hanno carattere accidentale –
non sono bagnate – ma nella loro naturalezza partecipano all’essenziale). Nella
pittura il bello si manifesta nel disegno, nella composizione, nel colorito e
nel chiaroscuro. Il disegno non può discostarsi dalle belle forme (greci e
Raffaello), a prezzo di risultare magari sapiente, ma non bello. Circa la
composizione, le figure devono essere «sagge e costumate», non fuori luogo come
«versi creati soltanto per la rima», e devono variare di posizione e azione: le
composizioni molto grandi infatti non sono ammirate per la grandezza, ma (è il
caso del Giudizio Universale), per la
ricca varietà di modelli e posizioni. Il colorito perviene alla sua bellezza
attraverso un’esecuzione diligente e lenta. In tal maniera la bellezza è
apprezzabile non solo da lontano ma anche da vicino. Esempi notevoli sono i
nudi del Correggio, di Tiziano, di Rubens. Il chiaroscuro dev’essere quanto più
naturale e graduale possibile, secondo natura e non alla maniera, per esempio,
dei violenti stacchi di Caravaggio. L’ultima parte della Dissertazione consiste in tre avvertenze per il giudizio del bello.
a) Bisogna considerare le opere secondo intelletto, facendo attenzione a quei
pensieri particolarmente originali che possono trovarsi anche in opere non
belle. b) Essendo l’arte imitazione della natura, o meglio, del naturale
(contro lo sforzato, l’artificioso), bisogna che secondo natura questa venga
giudicata. c) L’artista non deve, nell’esecuzione, considerare il dettaglio e
il labor limae come di primaria
importanza; ma, qualora questi ci siano non a scapito dell’essenziale, essi
manifestano l’uniformità dell’artista nel pensare e nell’operare.
Dalla
più importante opera di Winckelmann, la Storia
dell’arte antica, sono di particolare interesse le Osservazioni generali sul modo di considerare le opere d’arte greca,
divise in quattro massime. Prima massima:
Winckelmann esorta a un atteggiamento di umiltà nei confronti della complessità
dell’arte: non bisogna cercare difetti e imperfezioni nelle opere d’arte senza
aver prima imparato a distinguere il bello. Secondo Winckelmann infatti è più
semplice (in particolare per un dilettante) riconoscere i difetti che le
perfezioni: se i primi sono semplici da notare, le seconde possono essere colte
e descritte solo attraverso uno studio lungo e attento. Fondamentali sono la
predisposizione alla meraviglia, «principale sentimento dell’anima filosofica»,
e il pregiudizio per cui, convinti di trovare il bello in un’opera, lo si cerca
più a fondo e più a lungo. Seconda
massima: Winckelmann ribadisce la
preminenza del lato spirituale dell’arte, che si manifesta nel bello, sul lato
manuale e tecnico, che produce il difficile. Bisogna considerare di conseguenza
gli artisti che, incapaci di generare commozioni, puntano al virtuosismo. Terza massima: bisogna distinguere
essenziale e accidentale. Se l’essenziale è ciò che, nel disegno, rivela il
maestro, l’accidentale è materiale secondario, πάρεργον. Non per
questo è però sempre inutile: ne è esempio il Giove di Fidia, che si diceva fosse scolpito nella più minuta
esattezza. Quarta massima: non si
prendano i disegni e le stampe delle opere greche come copie perfette degli
originali con cui giudicare quest’ultimi: spesso queste copie sono mal fatte e
fuorvianti.
Del
1767 è Monumenti antichi inediti,
ultima opera di Winckelmann prima della morte prematura. Il libro, scritto in
italiano, in due volumi, tratta di opere già affrontate e nuove nel tentativo
di delineare i caratteri formali della bellezza greca. Sono però di grande
importanza il Ragionamento preliminare
sopra la bellezza in generale e la prima parte di Dell’ arte del disegno e de’ Greci della bellezza: ci permettono di
cogliere non solo il solco filosofico in cui si pone Winckelmann in merito al
bello (prendendo da Platone e i neoplatonici ma anche da Baumgarten, di cui fu
allievo), ma anche il rapporto che l’occidente ha avuto nei confronti del bello
e in particolare (e per certi versi, quindi) con il mondo della Grecia antica.
Concetto fondamentale è la duplice posizione della bellezza: essa è sia base
(come idea antecedente all’opera) che fine della forma sensibile, del «disegno»
dei Greci, quasi un motore immobile della bellezza. Partendo da questo assunto,
lo scopo di Winckelmann è quello non di palare del bello solo nella sua forma
ideale, come già molti hanno fatto («per pigrizia di mente [..] ne han pasciuti
d’idee metafisiche»), ma di indicarlo, pervenendo dall’ideale al sensibile,
«dal generale all’individuo», nella sua manifestazione, nella sua forma
canonica, attraverso esempi insigni: la seconda parte dello studio è infatti
dedicata a descrivere l’ideale bellezza delle varie parti del viso e del corpo,
proporzioni e forme.
La prima parte, Della
bellezza; e ch’egli è impossibile definirla, è introdotta da un
ragionamento fondamentale che mette in luce l’anima profondamente occidentale e
in particolare platonica di Winckelmann: la bellezza è sì riducibili a certi
principi, ma a causa del suo essere «cosa superiore al nostro intelletto» è
indefinibile. Winckelmann però si pone in polemica con la concezione della
bellezza come conformità delle parti ad un fine formale: come già aveva
precisato nel Ragionamento preliminare,
la bellezza non è il risultato di un disegno conforme ad un fine, ma la base
ideale (il bello in sè) e il fine stesso del disegno. Una concezione
teleologica di bello rischia infatti di confondere questa col concetto
aristotelico di “perfetto” (nel senso più etimologico del termine – da perficio, porto a termine – e del
concetto – espresso in greco da τέλος, fine). Come
il bello, anche la perfezione è però indefinibile: questo perché trovano
compimento in Dio. Princìpi della bellezza sono dunque unità e semplicità,
attributi dell’Essere supremo, unitario e indivisibile. L’unità, o meglio,
l’unitarietà come cardine della bellezza di un’opera ha la sua ragione anche
nel fatto che gli oggetti si presentano alla comprensione umana «in una sola
apparenza […] in un punto solo» (il contrario di quel che succede nel barocco,
contro cui più o meno implicitamente Winckelmann più volte si scaglia). Ma che
significa quindi «unità»? Come si declina? Essa è innanzitutto intesa in senso
morale (riguarda l’atto in cui la figura è posta dall’artista) e in senso
materiale. L’unità materiale si manifesta nella mancanza di parti del corpo
«aspre e risentite» (quindi vene in evidenza, muscoli troppo delineati), in
linee di contorno armoniose e indistinguibili, e quindi nell’aspetto della
gioventù. Trattando della bellezza ideale infatti, Winckelmann ne pone
l’origine nell’opera dei poeti ancor prima che in quella degli artisti. Questi,
nel voler cantare figure venerande, dovendole quindi idealizzare,
rappresentarono la grandezza e l’immutabilità degli dei attraverso un’eterna
gioventù (e nel caso delle figure femminili, l’apparente verginità). Di fatti
l’apice della bellezza sublime, da questo punto di vista è raggiunto dalle
figure di Apollo e, inaspettatamente, Dioniso: essendo loro attribuiti entrambi
i sessi, la loro figura risulta ancor più delicata. Lo stesso Ercole giovane
viene spesso scambiato per un ritratto di Iole. L’aspetto divino non presenta
dunque i segni della debolezza umana («né tendini né vene»), il corpo è un
quasi corpo, il sangue un quasi sangue. (v. Cicerone, De natura deorum, I, 17) Se in un primo momento la bellezza degli
dei è frutto di un’idealizzazione, in un secondo momento l’aspetto degli eroi
ne è desunto: gli artisti «andavano […] accostandosi sino ai confini della
divinità, mantenendosi dentro quei limiti senza però oltrepassarli».
Successivamente Winckelmann tratta dell’aspetto per così dire morale della bellezza, «che consiste nell’espressione e nell’azione, accompagnate dalla grazia».
Leocare - Apollo Pitico (dettaglio) (copia romana di un originale del 350 a.C. ca.) |
Successivamente Winckelmann tratta dell’aspetto per così dire morale della bellezza, «che consiste nell’espressione e nell’azione, accompagnate dalla grazia».
Dell’ espressione. Circa il
primo principio della bellezza, Winckelmann riprende molti dei temi già
presentati, ad esempio, con il Laocoonte
o con l’Apollo Vaticano.
L’espressione della divinità deve essere placida, inalterata e imperturbabile,
perché tale è la divinità. Ciò non significa che il volto della figura non
debba esprimere i moti dell’animo, anzi: proprio perché l’animo divino è (come da
tradizione) sereno, il volto accennerà appena le passioni. È il caso dell’Apollo Vaticano, le cui narici e labbra
esprimono l’ira, lo sdegno e il disprezzo per il drago Pitone, senza che per
questo venga alterata la placida superiorità manifesta nello sguardo fermo e
delicato. Risultato simile abbiamo nelle figure eroiche, la cui compostezza non
è segno di divina atarassia ma della grande forza morale con cui gli eroi
sopprimono il dolore: è il caso del Laocoonte.
Il concetto di espressione è racchiuso dalla parola ἦθος, inteso come vultus (ad esempio Aristotele accusa la
pittura di Zeusi di mancare d’espressività del volto) e come mores (quelli che invece, secondo
Plinio, sarebbero dipinti nell’austera Penelope dello stesso Zeusi): la placida
espressione del volto, tanto nel dio che nell’eroe, è capace di catturare la
grandezza d’animo, la caratura morale.
Dell’azione.
Come già si era visto in precedenza, l’atteggiamento della figura dev’essere
composto, decoroso e rispettabile. Tali qualità erano sentite dai Greci come
specchio di moralità, tanto che Demostene accostò il camminare velocemente con
l’arroganza. Le figure di eroi e dei ad esempio non hanno mai le gambe
incrociate (fatta eccezione per le statue di Dioniso e Apollo giovanissimi,
dove la posa ne descrive la mollezza). Con lo stesso decoro divino venivano
rappresentati gli imperatori nelle statue e nei monumenti pubblici, e con questi
il loro seguito: i senatori, i consiglieri e le altre figure al seguito non si
vedono mai scolpiti in atteggiamento adulatorio col capo chinato o ai piedi
dell’imperatore, come accadde nella realtà sotto Tiberio o Caligola ad esempio,
ma sempre col capo alzato, in quella «antica maniera usatasi in Atene».
Winckelmann afferma quindi che anche dove la crisi morale e l’adulazione
portarono all’abolizione dell’«uguaglianza cittadina», della pari dignità che
c’era tra cittadini ἰσόνομοι, l’arte le mantenne, facendosi portatrice
dell’idea (o del ricordo) di una realtà migliore.
Della Grazia. Dopo averne già parlato nello studio del ’59,
Winckelmann torno a trattare della Grazia, anima dell’espressione e dell’azione
belle. Se prima infatti questa era semplicemente l’atteggiamento che, nella sua
dignità, fa trasparire la caratura morale del personaggio, ora si articola
maggiormente assumendo connotati più complessi. La Grazia, dice Winckelmann, è
di due tipi: una è sublime, celeste, sorge dall’armonia ed è quindi immutabile;
l’altra è materiale, «figliuola del tempo». Mentre quest’ultima si mostra
nell’arte più facilmente, la prima, congenere alla quiete divina, è più austera
nei confronti nella forma sensibile. Simbolo delle due possono essere i due
ordini architettonici, il dorico per la prima, lo ionico per la seconda, che
ben fanno intendere i due tipi di Grazia. Winckelmann va così delineando due
generazioni artistiche, inseguenti rispettivamente la Grazia dorica e quella
ionica. Alla generazione dorica appartengono gli scultori Fidia e Policleto (il
cui Doriforo è paradigma dell’esattezza dorica), i pittori Polignoto, Parrasio
e Zeusi (di cui ricordiamo la Penelope
su citata); della generazione ionica sono invece il pittore Apelle e lo
scultore Prassitele (la cui dolcezza del modellato ne distanzia fortemente
l’opera dallo stile dorico: si veda ad esempio Hermes con Dioniso). Se quest’ultimi rappresentarono una vaga e
dilettevole bellezza, i primi furono attenti all’espressione della bellezza
vera e sublime. Nel far questo seguirono leggi rigide (si pensi al canone di
Policleto) risultanti in contorni esatti, proporzioni severamente seguite e una
«durezza un poco tagliente». E se molti hanno giudicato il risultato poco
attraente, è perché la Grazia dorica essendo di natura divina difficilmente si
lascia scolpire, «comparisce austera e ritrosa». Sorte simile è capitata a
Raffaello, il cui disegno è parso a molti mancante di rotondità. Corrispettivi
moderni delle due generazioni greche sono, ad esempio, Raffaello e Leonardo per
i primi, il Correggio per i secondi.
Policleto - Doriforo (copia romana di un originale bronzeo del 450 a.C circa) |
Prassitele - Hermes con Dioniso (350 - 330 a.C circa) |
Concludendo, bisogna notare una cosa. Sebbene la sua produzione sia molto ampia e variegata, Winckelmann non fu un filoso, ma uno storico dell’arte. I suoi scritti non trattano mai in astratto degli argomenti (quali la Grazia, il Bello ideale ecc.) ma presentano una forte attinenza al reale: ogni concetto è spiegato attraverso le opere d’arte, attraverso l’analisi storica delle forme, del disegno, delle tecniche scultoree e via dicendo. Eppure Winckelmann segna un’importante svolta nel rapporto dell’occidente (e in particolare della filosofia e dell’arte tedesca) con la Grecia. Con Winckelmann la cultura greca è assolutamente idealizzata, presentata come unitaria, conciliata e non affetta dalle lacerazioni esistenziali dell’uomo moderno, tra la tensione inesauribile per l’infinito e la consapevolezza della propria finitudine. E la cosa si manifesta non solo in termini teorici, ma nell’arte e nei suoi modelli etici e formali: da una parte la virtù greca per eccellenza, la ragione legata al controllo delle passioni, dall’altra il corpo dei giovani che si allenano nei ginnasi, che bellano nudi a teatro: anzi, il Nudo delle statue greche è insieme forma e contenuto, armonia delle parti e divinità unitaria ed eterna. E proprio quest’unità (che già abbiamo visto in Winckelmann) diventa la chiave di lettura dell’arte e della cultura greca in quasi tutti gli autori successivi, fra tutti Hegel. E Winckelmann, col suo stile appassionato, quasi anticipa il sentimentale e la romantica malinconia per l’innocenza perduta.
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