Italo Svevo e Nietzsche: Zeno Cosini come ultimo uomo


«Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo. Che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è brama? Che cosa è l’astro? — così chiede l’ultimo uomo, ammiccando. La terra sarà allora divenuta piccina, e su di essa saltellerà l’ultimo uomo che impicciolisce ogni cosa. Noi abbiamo inventata la felicità’— dicono, ammiccando, gli ultimi uomini.»

Così Nietzsche descrive l’ultimo uomo nel prologo di Così parlò Zarathustra. Verso la fine del prologo la folla a cui parla il profeta chiede a gran voce l’ultimo uomo, chiede di poter essere come questo. La critica nicciana, rivolta contro l’uomo borghese del suo tempo, ne mette in luce i tratti fondamentali: la positivistica fiducia nella scienza e nel progresso; la pretesa di aver ,attraverso questa, donato la felicità all’uomo e conosciuto ogni cosa; l’incapacità di superarsi («…l’uomo non scaglierà più la freccia anelante al di là dell’ uomo…»), tanto per mancanza di volontà quanto perché, volendo domare il caos dell’esistenza, l’ ultimo uomo non crede di aver bisogno del superamento («…l’uomo più spregevole, quegli che non sa disprezzare se stesso.»).

L’uomo borghese era stato per tutto l’800 il protagonista della narrativa d’analisi, in particolar modo quella naturalista. Indubbiamente l’indagine era stata condotta attraverso le regole del positivismo: pensiamo alla dottrina del romanzo sperimentale di Emile Zola, che presupponeva la possibilità del romanziere di osservare e descrivere i moti dell’animo come fossero fenomeni scientifici spiegabili attraverso regole sempre valide; regole che a loro volta presupponevano un animo e una realtà interna quanto esterna unitaria e compatta. Nei primi decenni del ventesimo secolo abbiamo però la grande svolta: da una parte la società comune preserva gli atteggiamenti “vittoriani”, utilitaristici e perbenisti; dall’altra la classe intellettuale smaschera tutte le certezze culturali e tutti gli assiomi in ogni campo del sapere. E agli inizi del ‘900 non sono solo le certezze scientifiche a vacillare: gli studi di Freud svelano una psiche frammentata e non sempre “logica”; quasi per risonanza, in campo letterario le forme stesse della narrazione mutano, adattandosi alla nuova luce sotto il quale si trova l’uomo borghese. Le interpretazioni psicologiche e letterarie date dell’uomo lo dipingono come “schizoideo”, da σχίζω: diviso, lacerato.

Tra i molti letterati del tempo che descrivono, pur con tecniche differenti, le contraddizioni e il disagio dell’uomo contemporaneo abbiamo il francese Marcel Proust, l’irlandese James Joyce e il praghese Franz Kafka, gli italiani Luigi Pirandello e Italo Svevo. In particolare, proprio Italo Svevo, scrittore triestino di origini borghesi, ci dà la descrizione migliore di quello che sarà uno dei miti letterari del ‘900: l’inetto. I suoi interessi letterari ci mostrano quanto attenta sia stata l’analisi antropologica e sociale compiuta: Svevo legge Darwin, da cui riprende il senso di “lotta per la sopravvivenza” che anima anche la società, Freud, la cui influenza è palese nel suo più importante romanzo, e Nietzsche, del quale adotta l’atteggiamento critico e “smascheratore”. Neanche troppo sorprendentemente dunque, la figura dell’inetto presenta moltissimi tratti comuni con l’ultimo uomo nicciano: del resto entrambi descrivono appieno l’uomo borghese scisso tra l’ostentazione della grandezza dell’uomo del suo tempo e una mai del tutto accettata individuale mediocrità. Sappiamo inoltre che l’ultimo uomo è colui che, di fronte alla morte di Dio, non ne coglie la gravità. Per l’ultimo uomo, tutto diventa più piccolo, insignificante: non solo tutto perde di valore e di interesse, ma nella banalizzazione di ogni cosa muore anche ogni volontà di superamento e continuo divenire. Il tragico della vita è un mero fatto scientifico risolvibile, e per questo l’uomo diventa statico e incapace di porsi come protagonista della propria vita e di affrontare la natura più brutale e dionisiaca dell’esistenza. Emblematico è l’aspro rifiuto dei romanzi sveviani da parte del fascismo: mal si adattavano i deboli personaggi di Svevo all’ostentata volontà di potenza dell’ideale uomo fascista.

In particolare, è il protagonista de La Coscienza di Zeno (1923) a fornirci il miglior parallelo letterario dell'ultimo uomo. In ogni capitolo del romanzo Zeno Cosini è alle prese con la propria coscienza in un problema sempre diverso. Andiamo dal banalissimo vizio del fumo ai sentimenti di inferiorità nei confronti del rivale in amore, da un matrimonio nato proprio dalla mediocrità della sua persona a una storia extraconiugale con cui non riesce a convivere e alla quale non sa porre fine. Ogni volta vediamo ricorrenti nell’animo di Zeno le stesse sensazioni ed emozioni, gli stessi atteggiamenti e quindi gli stessi fallimenti. Zeno non è mai vincitore in nulla ed è costantemente in balia degli eventi e del proprio inconscio. È un personaggio costantemente irrisolto, privo di una volontà inserita in una prospettiva temporale e con lo sguardo costantemente rivolto al passato. Sebbene l’interesse di Svevo fosse senz’altro quello di compiere un’analisi psicologica dell’uomo borghese (o forse dimostrarne, attraverso la cornice del romanzo, la vicenda del Dr. S, l’inanalizzabilità), il sentimento di profondo pessimismo e avversione nei confronti del mondo borghese, al di là delle esperienze personali, sono gli stessi che hanno animato la ricerca filosofica di Nietzsche.

«Non pentirti per un fallo commesso, ma compi, in cambio, una buona azione in più.» dice Nietzsche in Umano troppo umano. È il comandamento fondamentale dello spirito libero, preludio all’ evoluzione superomistica: significa non solo inserirsi all’interno del flusso del divenire come essere sempre mutevole e auto-superantesi, ma soprattutto accettare la sfida dell’Eterno Ritorno, e volere sempre ciò che si ha voluto. Ma all’ ultimo uomo questa grande volontà manca: così come i Dubliners di Joyce, anche Zeno Cosini appare come paralizzato di fronte agli eventi e in balia delle situazioni.
Zeno si pente di ogni scelta e i suoi propositi non si concretizzano mai. Nel tentativo di giustificare questa sua mancanza di ferma volontà prova a dargli una spiegazione “filosofica”. Nel capitolo Il fumo Zeno dice:

«Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: «mai più!». Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. E poi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.»

Notiamo come proprio l’atteggiamento che Zeno definisce «bellissimo», Nietzsche lo interpreta come il peggior sintomo di mancanza di volontà e di schiavitù nei confronti della morale borghese. Inoltre appare come un “eterno ritorno” non di una volontà (come sarebbe auspicabile per Nietzsche, che invece di un mai più porrebbe un voglio ancora), bensì di una sconfitta, di un proposito non concretizzato. Quel che sembra un divenire (e tale è sembrato ad alcuni critici) è in realtà una stasi che si ripete uguale a sé stessa: l’esatto opposto della dinamica volontà di potenza. Quello del fumo non è l’unico caso. Nel capitolo La moglie e l’amante più volte vediamo Zeno cambiare atteggiamento nei confronti dell’una e dell’altra: quando è con l’amante ora è spinto da una passione impulsiva ora tesse le lodi della moglie quasi a volersi purificare, mentre torna a casa lo prende un sincero amore per la moglie, salvo sentir subito dopo la mancanza dell’amante. «Sulla via mi trovai subito più vicino ad Augusta che non a Carla (l’amante)» dice, mentre rincasa dopo aver baciato appassionatamente quest’ultima. Emblematica è l’annotazione che Zeno scrive sul dizionario alla C di Carla, recitante «ultimo tradimento». Ricorda le numerose “ultime sigarette” del primo capitolo. La volontà è qui e in molti altri casi vuota velleità, vana e volubile, e il pentimento per le numerose azioni sbagliate e non più volute è motivo di dissidio interiore. Come fa notare Giacomo Debenedetti, Zeno Cosini vive in un eterno presente fatto di attimi sterili: ogni suo stato di coscienza e ogni suo volere non hanno alcuna prospettiva temporale ma rispondono agli impulsi del momento. Il senso del tempo viene perso per incapacità di afferrarlo; incapacità che deriva da quella che Sartre definisce «Oscura coscienza del pericolo di essere uomo», coscienza del non poter mai determinare in tutto il proprio destino. L’uomo sveviano non solo è preda del momento, ma è anche e soprattutto non-padrone della propria vita e del proprio volere. Tutto ciò che avviene, avviene indipendentemente dalle azioni di Zeno: la relazione extraconiugale finisce per mano dell’amante stessa, la fortuna commerciale finale è totalmente fortuita e data non dalla bravura di Zeno ma dalla speculazione sulla guerra. Il tragico della vita lo travolge, ora gli causa disavventure e dolore, ora gli concede la fortuna. Il suo stesso matrimonio ne è emblema: rifiutato dalle due sorelle Malfenti più belle, è accettato dalla più brutta.

L’atteggiamento di Zeno nei confronti di ciò che accade non è però passivo. Certo, la sua è una volontà debole e mal indirizzata, eppure c’è. Ma è quella tipica dell’ultimo uomo positivista, convinto di poter spiegare e affrontare tutto attraverso il ragionamento scientifico. In particolare, sappiamo che la più grande colpa dell’ultimo uomo è quella di non riconoscere la gravità della morte di Dio. La svalutazione del mondo operata attraverso la sua riduzione a semplice fenomeno “studiabile” – riduzione di cui quest’uomo si vanta (nello Zarathustra: «che cosa è amore? Che cosa è creazione? Che cosa è brama? Che cosa è l’astro? — così chiede l’ultimo uomo, ammiccando» lasciando intendere di avere la risposta in mano.) – rende la morte di Dio non solo sopportabile, ma anche positiva, quasi supremo compimento della forza della ragione umana. Nel capitolo La morte di mio padre, Zeno, discutendo col suo vecchio del suo studio del Cristianesimo, afferma: «Per me la religione non è altro che un fenomeno qualunque che bisogna studiare». Il suo è un ateismo da, come ammette, «studente scioperato», e ricorda le reazioni della folla nel famoso Aforisma 125 della Gaia Scienza di Nietzsche. In Zeno non v’è una solida base filosofica né tantomeno una consapevolezza dell’importanza dell’argomento, ma solo il gusto della più mediocre ricerca scientifica (talaltro lasciata a metà e mai conclusa, proprio come i suoi studi di chimica ecc.).

In molti altri casi Zeno dimostra un vivo interesse per le cause scientifiche dei mali propri e altrui. Pensiamo a tutti i ragionamenti sul suo zoppicare quando si sente a disagio, oppure alle ricerche riguardo la malattia di Ada (sorella della moglie), il «morbo di Basedow». A proposito notiamo come Zeno, studiando questa banalissima malattia della tiroide, si convinca di aver scoperto «il segreto essenziale del nostro organismo». Elabora dunque un’assurda teoria sulla malattia e la saluta, sulla società con “malati di Basedow” da una parte ed edemici dall’altra, facendo della ricerca un’ossessione e convincendosi di aver «portato alla luce le radici della vita la quale è fatta così». L’atteggiamento positivistico (anzi, quasi sembra una parodia del positivismo) di Zeno si riflette, come Debenedetti fa notare, nella narrazione di Svevo. Essa è “causologica”: nel descrivere tanto il flusso di coscienza di Zeno quanto paesaggi e situazioni, c’è sempre una certa attenzione per i motivi “chiari e distinti” di quanto narrato.

Nel capitolo Psico-Analisi Zeno sembra assumere una consapevolezza tutta nuova, in particolare nelle ultimissime pagine. La descrizione dell’imminente ruina mundi ha un che di nicciano, nell’identificare l’uomo come il maggior nemico e profanatore della terra. Scrive: «Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa ordigni fuori del suo corpo […] l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. […] La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare (l’influenza darwiniana è chiara)». L’immagine finale, la terra ridotta a nebulosa da un’esplosione, priva di parassiti e di malattie, stona col personaggio di Zeno Cosini però, quasi come se avesse abbandonato ogni fiducia nella scienza e nel progresso. Di fatti, poco prima dice: «Fu il commercio che mi guarì» dalla malattia, e non la psicanalisi. La malattia di Zeno è la convinzione di star male, un dissidio interiore sorto tra ciò che lui vorrebbe essere e fare e ciò che irrimediabilmente torna a fare, che si riflette in comportamenti e mali fisici (come il suo zoppicare in situazioni di disagio). Andando incontro alla malattia con la terapia psicanalitica, il nesso tra la malattia e l’interpretazione che ne dà il malato è fondamentale: diventa strumento di conoscenza («Solo noi malati sappiamo qualcosa di noi stessi»), ma al contempo svela la consapevolezza della propria mediocrità. Guarendo attraverso il successo economico, Zeno si convince di aver risolto il problema, di aver finalmente “concluso qualcosa nella vita” («Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e dalla mia salute»). In questa guarigione molti critici hanno individuato una riscossa dell’inetto. Eppure, se ricordiamo quanto fa notare Debenedetti, non c’è nessun merito nel successo commerciale. La guarigione non è affatto una riscossa dunque, ma l’ennesima dimostrazione dell’incapacità di Zeno di porsi di far fronte alla propria malattia. Le considerazioni dell’ultima pagina come sono da interpretarsi dunque? Se da una parte possono esprimere il punto di vista dell’autore, dall’altra stonano col personaggio di Zeno, che di fatti nella bozza de Il Vecchione, seguito ideale della Coscienza, non sembra affatto cambiato. Forse proprio il fatto che la formulazione di tali idee e un tale cambio di mentalità siano avvenuti solo successivamente al fortuito e quanto mai meschino successo commerciale (che gli causerà anche l’odio della famiglia) è la prova che Zeno (che qui sembra rivestire i panni dell’intellettuale nichilista più banale) non è fino in fondo filosoficamente cosciente dell’importanza di quanto dice, e da ultimo uomo qual è tratta questa nuova teoria come le numerose altre mediocri teorie che, nel corso del libro, sviluppa quasi nel tentativo di ottenere una dignità intellettuale. Prova della sua scarsa coscienza della gravità di questa profezia apocalittica, che molto ricorda la condanna dell’allontanamento dal senso della terra di Nietzsche che sicuramente Svevo conosceva, è la reazione, l’atteggiamento: non v’è disperazione nelle sue parole, né tantomeno la volontà di superare questa condizione autodistruttiva. A Zeno basta il commercio fruttuoso per compensare la morte di Dio, e questo fa di lui un ultimo uomo.

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