Astrologia e Poesia del Fenomeno
Le
poche ma abbaglianti pagine di Su verità
e menzogna in senso extramorale, composte nell’estate del 1873, sono il
nucleo teorico su cui si basano le considerazioni di Nietzsche sui filosofi
preplatonici, considerati come coloro che progressivamente affrancarono il
pensiero greco dal mito, per orientarlo in direzione della scienza. Ma cos’è
scienza? E cos’è il mito, l’invenzione poetica? Qual è la differenza e, soprattutto, cos’è che però
in fondo li lega?
In Verità e menzogna
Nietzsche decostruisce l’alterità kantiana se non già cartesiana di un mondo
del tutto in sé rispetto all’uomo
costantemente per sé e il concetto di
verità, mostrandone la sostanziale
natura menzognera: tutto questo in costante polemica con Platone e, quindi, il
pensiero occidentale. Vale
la pena riportare le primissime parole del testo, il cui tono mitico e
oracolare non può però rendere a pieno la gravità della “verità” di cui la
filosofia si fa disillusa annunciatrice:
«In
un angolo remoto dell’universo scintillante e diffuso attraverso infiniti
sistemi solari c’era una volta un astro, su cui animali intelligenti scoprirono
la conoscenza. Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia del
mondo”: ma tutto ciò durò soltanto un minuto. Dopo pochi respiri della natura,
l’astro si raggelò e gli animali intelligenti dovettero morire.» (traduzione di
Giorgio Colli)
Appare
subito l’accostamento di due concetti solitamente, soprattutto in un’ottica
platonica considerati antitetici: conoscenza (del vero) e menzogna. La
conoscenza si presenta come una tracotante e quindi contronatura bugia, subito
destinata a spegnersi in un’eternità di morte. Per Nietzsche conoscenza
significa in realtà alterità del mondo («Quell’alterigia connessa col conoscere
e col sentire…») e quindi menzogna. Questa alterità “cartesiana” distanzia e
separa irrimediabilmente l’uomo dal suo esser corpo, lo rende una «orgogliosa e
fantasmagorica coscienza» lontana «dall’intreccio delle sue viscere». Ma da
dove viene questa menzogna? Perché l’uomo ne ha avuto e ne ha sempre bisogno?
La sopravvivenza dell’individuo vivente avviene nell’ergersi di questo al di
sopra della natura minacciosa e antagonista coi propri mezzi: dice Nietzsche,
l’animale si impone con le corna, o con aspri morsi. Ma ciò è ovviamente
impossibile per l’uomo che, come già raccontava il mito, ha dalla sua l’intelletto. Ed è con questo intelletto,
quasi già teoretico inconsciamente, che l’uomo si erge sulla natura – potremmo
dire, suggerendo un punto di contatto col secondo Heidegger, sull’essere – ponendosi come altro rispetto
ad essa, come superiore: mentendo, rappresentando, mascherando, svolazzando
«attorno alla fiamma della vanità» l’uomo domina dal di fuori la natura,
imprime al divenire travolgente e pericoloso il carattere dell’essere che
preferisce. Come mostra più avanti nello scritto, è grazie al dominio tutto
utilitaristico del divenire che l’uomo, fermandolo sotto l’egida della forma e
del nome, si fa “tecnico”, scienziato, e sopravvive. La menzogna è, in altre
parole, il vero fuoco di Prometeo.
Data
per assodata la natura di costante mentitore dell’uomo, l’interesse di
Nietzsche è però quello di ritrovare l’origine del sentimento morale del vero: capire
come sia possibile il desiderio di una presunta verità in un animale così
intrinsecamente bugiardo. Il primo passo verso la formazione di tale sentimento
morale ha un carattere fortemente utilitaristico.
Nel contratto sociale con cui l’uomo supera il bellum omnium contra omnes c’è bisogno di intesa, di un linguaggio
condiviso: insomma, le menzogne con cui l’uomo ferma e domina il mondo
diveniente, i nomi, si fanno νόμοι. È una menzogna
condivisa e istituzionalizzata quella che fin da subito si definisce come
linguaggio – i nomi stessi, si vedrà più avanti, sono intrinsecamente falsi,
non esprimenti il mondo. Nella comunità si iniziano a delineare verità e
menzogna, ancora in senso utilitaristico: veritiero è colui che utilizza i nomi
condivisi per designare la realtà; menzognero è invece colui che egoisticamente
«fa cattivo uso delle salde convenzioni, scambiando arbitrariamente, o
addirittura invertendo i nomi.», e che nel farlo, danneggia gli altri uomini. La
menzogna è dannoso inganno interno all’inganno condiviso; per opposizione il
vero è il piacevole, l’utile, ma non ancora la pretesa designazione della
verità metafisica, della cosa in sé.
Notiamo
come grazie a questa dichiarata mancanza di un sostrato di verità nel
linguaggio convenzionale in un certo senso si evita il problema che si presenta
nel Cratilo di Platone. Nel dialogo
la tesi di Ermogene della convenzionalità del linguaggio si scontra proprio con
l’esistenza di discorsi veri e falsi: se i termini fossero assolutamente
arbitrari la conoscenza sarebbe impossibile, e ogni discorso risulterebbe falso,
insensato. Certo, Platone risolve il problema facendo risalire i nomi alle idee
(spesso nei dialoghi ci si riferisce a queste come ciò per cui certe cose hanno
lo stesso nome – questa soluzione sarà appunto implicitamente criticata fortemente
da Nietzsche proprio nello scritto di cui parliamo), ma considerando come
criterio di verità o falsità l’aderenza o meno di nomi arbitrari ad una realtà
arbitrariamente condivisa, Nietzsche evita il paradosso di Ermogene, confuta la
risposta socratica: non esistono discorsi assolutamente veri o falsi, ma solo
discorsi convenzionalmente tali.
Dunque,
quand’è che la veridicità si connota di un carattere morale più alto, assoluto,
metafisico? Quand’è che insomma si inizia a parlare di verità come designazione esatta di ciò che è? Quando nell’uomo
subentra l’oblio. L’oblio è, come si
era affermato nelle Considerazioni
Inattuali, fondamentale condizione per la vita, per una vita tutta immersa
in sé stessa: tanto più grande la storia che viene obliata, tanto più invece
che essere un peso diventa il dialettico negativo per un superamento
propositivo. Oblio è trasformazione, crescita, evoluzione. Anche in questo caso
(nonostante il colore che il concetto assume sia diverso) l’oblio risulta
fondamentale per un’”evoluzione”, contro la quale Nietzsche pure si mostra
estremamente critico – anzi, è proprio questa evoluzione che viene decostruita.
La verità nasce dall’oblio della vera-falsa natura della parola: non
corrispettivo linguistico di un ente, ma metafora.
La parola è «raffigurazione in suoni di uno stimolo nervoso», ma non per questo
possiamo collegare lo stimolo e la stessa raffigurazione sonora a una sorta di
noumeno conoscibile attraverso la parole stesse, che con esse intratterrebbe un
rapporto necessario: non possiamo concludere da questo stimolo nervoso una
«causa fuori di noi», un αἴτιον.
Nietzsche
delinea un complesso sistema genetico della parola su più livelli: sistema che,
come si è intuito, indubbiamente si scaglia contro il socratismo
(quell’esigenza di concetto che avrebbe ammazzato la vita come divenire e
differenza) che da Platone in poi ha permeato la cultura occidentale. Secondo
il filosofo tedesco la parola è innanzitutto allusione: in maniera del tutto a-logica, arbitraria e non
necessaria, lo stimolo nervoso (che potremmo già di per sé considerare una
sorte di metafora del rapporto tra la fantomatica res cogitans e il mondo) diventa un’immagine (prima metafora) che a
sua volta si fa suono (seconda metafora) e quindi parola. Il linguaggio è così
una «Nefelococcigia», la città immaginaria descritta da Aristofane negli Uccelli, una città paradossale,
illusoria, come dice il nome, tra le
nuvole, e quindi offuscata…
Dietro
la parola vi è il concetto, la grande
illusione del socratismo: facendo risalire ad un nucleo di stabile verità la
parola, possiamo affermare la veridicità, anzi, l’esistenza legittima del
concetto corrispondente. Se, ad esempio, usiamo la parola “foglia” per definire
una molteplicità di foglie, possiamo forse ben pensare che tra le varie foglie
ci sia qualche qualitas occulta ma
comune a tutte che fa sì che queste siano foglie e che tutte “foglia” siano
chiamate. Questo quid che a livello
metafisico è quel supposto nucleo di verità, a livello linguistico-conoscitivo
è il concetto, l’εἶδος.
La “verità” per Nietzsche è un’altra: nota infatti che non solo le parole sono «preferenze unilaterali», la cui arbitrarietà e mutevolezza per cui, ad esempio, «designiamo l’albero come maschile e la pianta come femminile» si discosta enormemente dalla supposta stabilità del vero che dietro queste si cela, ma che i concetti, le immagini metaforiche che alludono alla realtà fenomenica, sono assoluti stabili e trascendentemente comuni desunti da un mondo contingente che non ha niente né di assoluto né di stabile né di comune nei suoi particolarismi. Infatti il concetto non farebbe riferimento a una singolarissima «esperienza primitiva» ma a una miriade di casi «più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi semplicemente disuguali.». Il τί ἐστι socratico, l’εἶδος platonico, la forma aristotelica ecc.: tutte scremature arbitrarie, tiepide e scolorite, che, riferite ad una supposta vera verità, impoveriscono il mondo, lo riducono ad una copia dipinta e tessuta a modello di queste «da mani maldestre». La critica implicita è al Timeo, in cui si racconta del Demiurgo che guardando alle idee come cause paradigmatiche avrebbe formato la materia eternamente imperfetta. Nietzsche porta l’esempio dell’idea di onestà: noi diciamo che un uomo è onesto, che un’azione è onesta ecc. in virtù dell’onestà: cosa sia essenzialmente quest’”onestà”, non lo sappiamo. L’uomo accetta dogmaticamente quell’esigenza di stabilità e assoluto che viene strenuamente salvata nel Parmenide rifiutando come dogmatica l’idea che «la nostra antitesi tra individuo e genere» sia antropomorfica e non essenziale. La verità è allora un’illusione mai smascherata, un «mobile esercito di metafore […] una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente […] che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche, vincolanti».
La “verità” per Nietzsche è un’altra: nota infatti che non solo le parole sono «preferenze unilaterali», la cui arbitrarietà e mutevolezza per cui, ad esempio, «designiamo l’albero come maschile e la pianta come femminile» si discosta enormemente dalla supposta stabilità del vero che dietro queste si cela, ma che i concetti, le immagini metaforiche che alludono alla realtà fenomenica, sono assoluti stabili e trascendentemente comuni desunti da un mondo contingente che non ha niente né di assoluto né di stabile né di comune nei suoi particolarismi. Infatti il concetto non farebbe riferimento a una singolarissima «esperienza primitiva» ma a una miriade di casi «più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi semplicemente disuguali.». Il τί ἐστι socratico, l’εἶδος platonico, la forma aristotelica ecc.: tutte scremature arbitrarie, tiepide e scolorite, che, riferite ad una supposta vera verità, impoveriscono il mondo, lo riducono ad una copia dipinta e tessuta a modello di queste «da mani maldestre». La critica implicita è al Timeo, in cui si racconta del Demiurgo che guardando alle idee come cause paradigmatiche avrebbe formato la materia eternamente imperfetta. Nietzsche porta l’esempio dell’idea di onestà: noi diciamo che un uomo è onesto, che un’azione è onesta ecc. in virtù dell’onestà: cosa sia essenzialmente quest’”onestà”, non lo sappiamo. L’uomo accetta dogmaticamente quell’esigenza di stabilità e assoluto che viene strenuamente salvata nel Parmenide rifiutando come dogmatica l’idea che «la nostra antitesi tra individuo e genere» sia antropomorfica e non essenziale. La verità è allora un’illusione mai smascherata, un «mobile esercito di metafore […] una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente […] che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche, vincolanti».
Dunque,
come è dannoso il falso, così ciò che è utile è ciò che è vero – e ciò che è
vero, esiste: si fonda l’ottimismo
metafisico: la realtà è metafisicamente concettuale, e l’uomo razionale si serve dei concetti, «pone
ora il suo agire sotto il dominio delle astrazioni». La metafora intuitiva si
fa schema, il particolare universale, il soverchiante divenire un rassicurante
immutabile. E in quest’ottica l’uomo può dominare
l’essere ormai ammansito, può costruire un «ordine piramidale» con cui
gerarchizzare, delimitare il reale: la verità si fa affare di Stato potremmo quasi dire, il fuoco di Prometeo diventa
il dono di Zeus. Ecco che Nietzsche
definisce quindi l’apparato concettuale dell’uomo-architetto una «cupola concettuale
infinitamente complicata […] fatta di ragnatele» costruita «sull’acqua corrente
(le intuizioni)». È una costruzione tutta antropomorfica questa, e in quanto
tale non rivela all’uomo nessuna verità in
sé, ma esclusivamente sé stesso. Come l’astrologo crede che le stelle gli
svelino il presente e il futuro, dice Nietzsche, così l’uomo si vede come
«misura di tutte le cose» nel senso che si vede come il luogo privilegiato in
cui l’essere prende forma, come punto di vista astrattivo di molteplice puro
che genuinamente gli si presente. In realtà, l’uomo dimentica che quegli
impulsi nervosi da cui derivano idee, parole e verità sono anch’essi metafore,
allusioni: lo stesso fenomenizzarsi della realtà noumenica, se mai ce n’è una,
è un suo falsarsi ancor prima che questo prenda forma, ad esempio, nelle
categorie kantiane.
Notiamo
come Nietzsche sembrerebbe riprendere le tesi gorgiane sul non-essere: nessun essere vero in sé esiste, se pure esistesse
non potrebbe essere conoscibile (poiché la conoscenza umana si basa sul sistema
metaforico su descritto), e se pure potesse essere conosciuto non potrebbe
essere comunicato (poiché le parole sono astrazioni arbitrarie che non rendono
in nessun modo l’intuizione metaforica che è alla base della “conoscenza” umana).
Il processo conoscitivo, se mai di conoscenza alla fine si tratta, non è
necessario, bensì estetico, avviene
per mezzo di allusioni, metafore che si fanno nomi che si fanno νόμοι:
esso è fondamentalmente creazione
artistica. Ma quest’impulso metaforico – che pur, come si vede nella
seconda parte dello scritto, nel suo non esaurirsi mai si fa vera e propria
opera d’arte – ha forse in sé un sentore tragico: la forma apollinea del
socratismo concettuale deve scontrarsi necessariamente con l’aorgico dionisiaco
che in sé non può essere addomesticato. La libertà creatrice dell’uomo sembra
dar forma, parvenza di esistenza al non essere… eppure, come Gorgia ci ricorda
nell’Encomio di Elena, l’uomo non
intrattiene col mondo un rapporto necessario, logico, razionale, ma come Elena
fa ciò che fa «per volere del Caso e volere degli dei e decreto di Necessità
(da interpretarsi non come stretto λόγος causa-effetto ma come inesorabilità
del divenire), o rapita con forza, o convinta da discorsi, o presa d’amore.».
(DK 82 B 2) Ecco, non è al contempo l’uomo Paride, che, in quest’ottica, per il
proprio bene deve attraverso la parola
piegare a sé l’essere, ed Elena stessa, che secondo una variante del mito
diventa un “fantasma”, proprio come l’uomo per sopravvivere diventa soggetto
creatore, coscienza, fantasma in un corpo?
La
parvenza di coerenza che l’uomo riscontra nella natura macroscopica e
microscopica, la parvenza che la scienza gli mostra, lo convince dell’esistenza
di leggi naturali, lo fa ancora una volta astrarre
arbitrariamente, in un processo induttivo che vuole creare concetti da
esperienze diverse, che vuole trarre la regola dall’abitudine. Ma la
(apparente) permanenza di un fenomeno x
non ci da in nessun modo la certezza della permanenza di una realtà noumenica x corrispondente. La critica di
Nietzsche è stavolta verso la scienza, verso le pretese conoscitive di una
scienza che non si pone il problema dei fondamenti. Le leggi della natura ci
sono note solo come effetti, solo come relazioni, rimandi: una legge rimanda
all’altra e la loro essenza ci è, dice Nietzsche, inconoscibile. Alla luce di
quanto detto finora il motivo è chiaro: non esiste una vera e propria essenza,
non v’è un nucleo di immutabile verità dietro queste leggi. Cosa
ci è noto dunque? Nietzsche azzarda una teoria: «ci è realmente noto soltanto
quello che noi stessi aggiungiamo, il tempo, lo spazio, ossia i rapporti di
successione e numeri.». Il rigore matematico, pure ammesso dal filosofo, che permea
le leggi scientifiche deriva in ultima analisi dall’uomo stesso,
dall’intuizione di spazio e tempo. Inserita, per così dire, nelle metafore che (o
con cui) l’uomo conosce, la matematica nel mondo è sentita da quest’ultimo come
necessaria ed esatta, ma solo perché come tale era già nel mondo rappresentato
stesso. L’edificio concettuale è quindi stabile (non per questo veritiero)
proprio perché su tale matematica si fonda… almeno finché questa è posta a
fondamento. L'edificio concettuale è sì «un’imitazione dei rapporti temporali,
spaziali e numerici sul terreno delle metafore», ma è pur sempre una
costruzione antropomorfa, fragile. Se il demiurgo platonico guardava alle idee
per creare il mondo, dando forma alla materia, l’uomo guarda al mondo, allo
spazio, al tempo e ai numeri che albergano dentro di sé per dar forma
attraverso la metafora alle idee. Il rapporto si ribalta: se nel dialogo
platonico avevamo un abbassamento ontologico dalle idee verso la terra, ora la
creazione è un’indebita ontologizzazione del non essere. Però, se il rapporto che
l'antropico mondo delle idee, l’edificio concettuale intrattiene con il
noumenico non è necessario, non per questo lo è quello che intrattiene con
l'uomo stesso… «quella ragnatela concettuale in certe occasioni viene strappata
dall’arte.».
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