Critica politica e filosofica del sogno metafisico del potenziamento umano e della distinzione tra natura e tecnica su cui si fonda.
«Augmenting humans», «human enhancement», «confini del
genere umano», sono slogan, advertising – lo dico senza voler essere
provocatorio – di una vecchia ideologia capitalista cui l’uomo bianco cisgender
etero abile borghese imprenditore occidentale è andato dietro dagli inizi della
rivoluzione industriale. I concetti di «aumento dell’essere umano», del
«portarlo oltre i propri confini» non cambiano solo perché vengono colorati da
velleità “democratiche” o perché si vogliono estendere a tutta la popolazione,
a tutte le classi sociali.
La frontiera dell’aumento dell’umano, si dice, è aperta
dalle «nuove tecnologie». Ma le tecnologie sono sempre «nuove». Viviamo in
questo campo ideologico dell’aumento e del superamento dell’umano (o della sua
protezione) da molto più tempo di quanto possiamo immaginare. Le teorie eugenetiche
di Francis Galton (1822-1911) sono un esempio moderno della teorizzazione,
sulla base della teoria darwiniana dell’evoluzione, di un potenziamento
dell’umano – o di una sua purificazione (e cos’è il potenziamento se non un
lasciarsi dietro la parte impura, povera, irascibile, non controllabile,
debole?). Dal canto suo, Adolf Hitler vedeva nell’infanticidio spartano la
prima tecnica volta a creare uno Stato Völkisch e il suo modello umano
corrispondente.
Con il termine «biotecnica» voglio indicare ogni tecnica
che si occupa di determinare la vita umana, dalla morte alla nascita, dunque
tanto la medicina contemporanea quanto un qualsiasi rituale che tenti di
assicurarsi la nascita di un maschio.
Come la filosofia ha ampiamente insegnato, da Martin
Heidegger ad Emanuele Severino, l’essenza della tecnica coincide con la volontà
di potenza, ossia – per tenere un tono meno filosofico – con l’incessante brama
di aumentare la propria potenza. L’uomo pio va in Terra Santa a combattere per
la propria fede, ma per farlo, deve esercitarsi con la spada. Progressivamente
tutti i suoi sforzi sono direzionati all’aumento della sua potenza combattiva,
e il mezzo (la spada) si trasforma in fine. Questa è la tecnica come volontà di
potenza. In quanto è quella tecnica che ha di mira l’essere umano, la
biotecnica vuole un costante e indefinito potenziamento dell’umano, dunque un
suo costante superamento.
Ora, ogni biotecnica rispecchia un’antropologia – anzi,
un’interpretazione morale e in ultima analisi politica dell’umano. Più in
particolare, presuppone un’idea di ciò che dell’umano va superato – di ciò che dell’umano
è inferiore, ostacolo, e dunque solo strumento e non fine. Non è difficile
immaginare quali forme umane, nella storia della potenza occidentale, sono
state da superarsi: il proletariato (il lavoratore), donne, persone trans, gay
e bisessuali, infedeli, persone nere e indigene, disabili, comunisti, e così
via. Come ampiamente messo in luce da Jacques Derrida, tutte queste forme
dell’«altro» hanno in comune un tratto, quello del «non possesso di sé»: la
femmina è isterica (o la donna è mobile), le persone nere e indigene sono
ancora primitive, gli infedeli non conoscono la verità. L’altro è sempre preda
di qualcosa di basso, e solo il maschio bianco (etc.) ha possesso di sé, è vero
e proprio soggetto. È però solo in virtù di tale autopossesso che l’uomo può
autopotenziarsi. La biotecnica è allora, in ultima analisi, il modo in cui
l’umano viene sempre più epurato da certe forme inferiori in favore di forme
superiori. (Se queste forme «superiori» debbano poi essere eliminate con
l’eliminazione dell’umano in toto, atto che sancirebbe il completamento e la
fine della biotecnica, è un’altra questione.)
In questo senso, ogni domanda su quali siano i «confini
del genere umano», quando viene finalmente posta tenendo conto della vera
essenza della tecnica (la quale non è mai solo un mezzo neutrale e adoperabile
per qualsiasi scopo), perde di senso. Come la potenza e la tecnica stessa, così
nemmeno l’umano ha «confini». Cercare di «ripensare i confini del genere umano»
significa allora solo cercare di ripensare i confini delle discriminazioni
politiche fondamentali a partire dalle quali si ricerca un potenziamento
dell’uomo – che è un po’ come chiedere quale razzismo, quale abilismo, quale
omolesbobitransfobia, e infine quale capitalismo dobbiamo auspicare per il
nuovo millennio. Questa conclusione, lineare, dovrebbe ispirare un primo
sospetto nei confronti dello human enhancement in quanto tale.
Voglio sottolineare ora un secondo sospetto. I confini
del genere umano possono essere pensati in termini di «confini naturali»
(un’espressione dal sapore quasi Völkisch), confini tra natura e tecnica.
Critica
filosofica
I
due termini di natura e tecnica oggi intrattengono un rapporto
peculiare. La natura è tale che, lì dov’essa è persa di fronte all’avanzare
della tecnica, ogni tentativo umano di guarire quanto è danneggiato (salvare
una specie, un ecosistema - o un essere umano) non fa che approfondire questa
perdita stessa, poiché il tentativo è tecnico a sua volta. Al tempo stesso la tecnica
sa come avvalersi dei meccanismi naturali, integrarli e sussumerli sotto il
proprio progetto (un organismo vegetale come una palma da olio cresce, sì, ma in una monocultura): il
confine tra le due si fa sempre meno chiaro. Entrambe, in questa confusione che
le rafforza, si indeboliscono.
Questa
inquietudine è permessa da quella specifica costellazione concettuale moderna
che divide l’essere in due metà: da
un lato l’umano, l’antropico, l’artificiale, “worthy of filling up fifty per cent of ontology”[1],
dall’altro il resto, la “natura”, preesistente, la quale si contende lo spazio
con l’uomo. Chiamo questa concezione topologica,
poiché vede l’essere, o il mondo, come diviso tra cose naturali e cose
artificiali. Tale concezione per la verità oscilla tra due estremi: il
naturalismo, per cui, essendo l’uomo stesso naturale, nessuna sua attività può
essere innaturale (tutto è natura); il costruttivismo, per cui la natura è
un’ideologia, non qualcosa di reale che possa essere minacciato (tutto è
tecnica). Se le modifiche antropiche siano ancora parte della natura o qualcosa
sui generis[2]
è dunque un fatto di arbitraria interpretazione. Infatti, questi sono due
riduzionismi accomunati da uno stesso presupposto metafisico: che non v’è differenza tra natura ed ente naturale,
tecnica ed artefatto. Per questo motivo, se
sono contrapposte nel concetto, tecnica e natura lo sono anche nella cosa.
Ad esempio, capiamo bene che di fronte ad un rigoglioso ecosistema restaurato
come la Fazenda Bulcão nella Vale del Rio Doce (Brasile), o
addirittura alla foresta amazzonica, plasmata da millenni di attività delle
popolazioni indigene[3],
siamo costretti ad ammettere che anche quella non è più natura.
In
questa vera e propria guerra di posizione la tecnica si impone su una natura
preesistente. Non è possibile però capire come la prima possa minacciare alcunché se non capiamo in
che senso la seconda è passiva ma non impassibile. Infatti, la filosofia ci
insegna che per potersi espandere incontrastata, la tecnica deve ridurre il resto dell’ente ad un fondo[4],
un deposito inesauribile di stuff[5],
da cui mai può aspettarsi un contraccolpo. Eppure, è proprio la perdita della
natura – questa inquietante confusione del confine –
il contraccolpo, tanto teorico quanto empirico. Per natura non si può intendere
certo il pianeta Terra, le galassie e gli atomi di idrogeno. È la vita ciò che può patire, e ciò cui ci
riferiamo quando, nella confusione del confine, contrapponiamo natura e
tecnica. La tecnosfera avanza nella biosfera, non in altro.
Se
guardiamo però finalmente a cosa è in gioco in questa lotta, possiamo ancora
mantenere un approccio topologico (originatosi in quella filosofia moderna che
riduce anche il vivente al meccanismo fisico[6])?
Veramente vita e tecnica sono contrapposte, nel concetto e nella cosa?
Veramente il vivente è tale solo se è naturale? La foresta amazzonica è ben
viva. Decisamente viva è una persona che segue una terapia ormonale, o il cui
cervello, grazie alla sua plasticità, ha integrato una protesi nella propria
mappatura del corpo. È qui che è necessario cambiare approccio, poiché il
vivente non è in sé né naturale né artificiale, e non potremo capire veramente
l’intrecciarsi, anche conflittuale,
di natura e tecnica, se non lo poniamo nel suo luogo adeguato. L’approccio che
propongo è allora modale.
Concepire,
secondo tradizione, natura e tecnica come modi di produzione dell’ente
in generale (come ciò che viene all’essere da sé se è physis, o per
mezzo di altro se è techne[7],
la quale può essere tanto umana quanto divina[8])
però non ci aiuta: fuori dal vivente esse sono reciprocamente indifferenti.
Inoltre, nella misura in cui la tecnica semplicemente distrugge il vivente, quest’ultimo viene meno, e non può esservi né
indifferente né coinvolto. Natura e tecnica si toccano solo nel vivente in
quanto vive, e vanno viste dunque nella sua prospettiva.
Il
vivente è essenzialmente un ente autopoietico. Esso raccoglie una serie
di determinazioni (genetiche, epigenetiche, ambientali etc.) sotto il proprio
sviluppo, che diciamo appunto ontogenesi. In questa autoproduzione
costante, il vivente non è estrinsecamente influenzato dall’ambiente esterno ed
interno, ma (nella misura in cui non ne è danneggiato) ne integra le variazioni
all’interno del proprio sviluppo. Pensate dal punto di vista del vivente, tali
variazioni ne sono ontologicamente dipendenti. Sia esso un animale da
allevamento sottoposto all’assunzione di ormoni artificiali o un ecosistema
ripristinato, ciò che vive è cieco all’origine naturale o antropica di ciò
che sussume sotto di sé, dentro di sé. Il caso umano è eclatante: la l’eredità
per via epigenetica di tratti acquisiti di origine antropica ha un peso
determinante nello sviluppo dell’organismo umano nella sua società.[9]
“[H]eredity (‘nature’) can be developmentally constructed
(‘nurtured’)”[10],
e ciò che è costruito tecnicamente viene naturalizzato nella trasmissione e
ricostruzione ontogenetica.
È
chiaro allora che dal punto di vista di ciò che sentiamo minacciato nello
scontro tra tecnica e natura, non solo tale scontro non esiste, ma non si danno
neanche i contendenti. La domanda su dove inizi l’antropico e dove finisca il
naturale, in breve, non ha senso nella prospettiva del vivente.
In
che prospettiva ha senso? Cosa è ora nel modo della natura, ora nel modo
della tecnica? Ciò che viene sussunto e cancellato nel vivente. Quando, di
fronte ad un vivente che sussume in sé un che di tecnico (ad esempio, chi
sfugge alla malattia grazie ad un vaccino, o chi modifica il proprio corpo in
accordo al proprio sentire), gridiamo alla fine della natura, crediamo che una
simile determinazione, per così dire, contamini il vivente, prendendone
il sopravvento, sottraendolo dal campo della natura e relegandolo a quello
della tecnica. Così facendo, smembriamo il vivente nelle sue cause, per poi
decidere quale tra queste è la più potente. Ma la potenza determinante di una
causa dipende dal vivente nella sua interezza che la recepisce (come i fenomeni
di canalizzazione e plasticità adattiva rendono manifesto[11]),
non da quale unilateralità concettuale della topica di natura e tecnica
preferiamo. Le determinazioni naturali e antropiche si offrono al
vivente. Natura e tecnica sono due modi di questa offerta. Più in particolare,
la tecnica è il modo in cui l’uomo si mette al servizio della vita. Per questo
il rischio intrinseco alla tecnica non sta nella sua innaturalità, ma nella sua
letalità.
Vediamo
allora che il rapporto tra natura e tecnica nel vivente è un fatto di mera
collaborazione e assecondamento reciproco o contrasto. Nel vivente la tecnica
non ha effetti “tecnici” poiché lì non vi si impone come attiva, allo stesso
modo in cui il vivente non è “naturale” per il solo fatto che produce sé
stesso, poiché in quanto viene ri-prodotto v’è sempre anche ciò che è antropico
– nei marcatori epigenetici che determinano il sesso delle tartarughe in base
alla temperatura[12],
nelle nicchie ecologiche che gli animali costruiscono nelle e con le
città, negli effetti transgenerazionali del razzismo sulla salute delle persone
nere negli USA . La visione topologica di natura e tecnica è rifiutata perché
sono rifiutate le ipostatizzazioni corrispondenti, in favore di una visione
modale delle determinazioni del vivente.
Una
simile visione mostra come la differenza tra sostenibilità e insostenibilità
della tecnica non sia qualitativa, ma di grado: se da un lato è pensabile un
vivente completamente tecnico, dall’altro l’offerta tecnica deve essere,
realisticamente, in accordo con quella naturale. La differenza tra il
disboscamento dell’Amazzonia e una silvicoltura come quella dei Menominee[13],
o tra il veleno e il farmaco, sta solo nel disaccordo o
nell’accordo con le determinazioni preponderanti nel vivente (es. i landscapes
in opera nella canalizzazione, che garantisce una stabilità dello sviluppo al
variare dell’ambiente attraverso le generazioni). In altre parole, la tecnica è
tanto più sostenibile quanto più è potente, ed è tanto più potente quanto più
conosce e asseconda il vivente.
Infine,
dobbiamo dedurre che l’attività antropica, naturale nel suo scaturire dall’uomo
stesso, rimane meramente tecnica solo se il suo prodotto sussiste inerte in sé
stesso (un quadro, l’ISS). Nella misura in cui si offre al vivente, essa
già vi appartiene: la sua tecnicità è tolta (aufgehoben) nel suo
sviluppo, naturalizzata nella sua riproduzione.
Conclusione
Fugate
infine le paure per una snaturalizzazione o una svitalizzazione dell’uomo, vediamo
che l’unico problema reale è quello della direzione della nostra azione
tecnica. In altre parole, quale forma vitae, quale anima vogliamo per l’essere
umano come vivente. La questione torna a essere allora eminentemente morale,
anzi, politica.
Quando
parliamo di politica, come abbiamo visto, dobbiamo parlare di differenze di
potenza. Alcune figure hanno maggiore potenza, e sono i propri stessi fini,
altre figure sono ridotte a strumenti delle prime. Non è strano che tra i
potenti e i ricchi del pianeta vadano di moda le fantasie del postumanesimo o
del transumanesimo, i sogni metafisici della simulation theory o del metaverso.
Si ha quasi il sospetto che, da padroni momentanei della tecnica, questi ricchi
maschi bianchi cisgender eterosessuali temano per così dire di essere essi
stessi tolti, superati. Con il superamento dell’ultima forma padronale di
umano, si supera l’umano in quanto tale – si supera anzi il superamento
dell’umano stesso. Quando Elon Musk ci mette in guardie dalle intelligenze
artificiali dà solo voce alla paranoia del proprio privilegio capitalistico,
fondata sulla natura stessa della tecnica di cui è primo vassallo.
Ugualmente, quando parliamo di «human enhancement», non corriamo che un rischio politico. Il potenziamento dell’uomo, ossia lo human enhancement in quanto tale, è un tutt’uno con la tecnica stessa. In quanto tale, le nostre decisioni dipendono solo da come decidiamo di porci in rapporto alla tecnica. Contro Heidegger e Severino, dobbiamo forse dire che la politica può essere come un freno al treno della tecnica che corre sempre più veloce, poiché l’accellerazione della tecnica non è altro che l’accellerazione della discriminazione tra uomo e uomo, dell’aumento delle forme di vita umane che vengono lasciate dietro.
[1] Graham Harman, Object oriented ontology: a new theory of
everything, Penguin Books, UK, 2017, p. 56.
[2] Come si legge
nel bando.
[3] C. Levis et al.,
Persistent effects of pre-Columbian plant
domestication on Amazonian forest composition, in Science, 2017.
[4] M. Heidegger, Die Frage nach der Technik (1953), trad.
it. a cura di G. Vattimo, La questione
della tecnica, goWare, Firenze, 2017.
[5] T. Morton, Hyperobjects: philosophy and ecology after
the end of the world, University of Minnesota Press, 2013.
[6] Cfr. L.
Illetterati, Teleological Judgment:
Between Technique and Nature, in I. Goy, E. Watkins, Kant’s Theory of Biology, De Gruyter, 2014.
[7] Cfr. Aristotele, Fisica, B1.
[8] E. Severino, La terra e l’essenza
dell’uomo, in Essenza del nichilismo, Adelphi, 1982, p. 246-7.
[9] Cfr. E. Jablonka, 2016.
[10] Ivi, p. 55.
[11] Cfr. ivi, p. 43.
[12] Cfr. N. Valenzuela, et al., 2019.
[13] Cfr. F. Jabr, The social life of forests,
NYT.
Questo testo è stato scritto in occasione del convegno interdisciplinare Augmenting humans: ripensare i confini del genere umano del Forum Ferdinando Rossi a Torino, e sarà presentato il 25 marzo.
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