Damien Hirst, Archeology Now - La decostruzione del canone classico
La mostra Archeology now dell'artista inglese Damien Hirst, ospitata dalla Galleria Borghese di Roma, è una riflessione e una critica estetica e filosofica sull'arte occidentale, il suo canone e la sua storia. Nella Galleria dove sono esposte le opere delle punte di diamante dell'arte italiana e occidentale insieme (Tiziano, Bernini, Caravaggio, Canova tra i più celebri), Hirst espone dei lavori che per l'originalità della loro bellezza e della loro provocazione quasi oscurano le statue e i dipinti classici e risignificano lo spazio museale. Così è instaurato un dialogo, anzi, un dibattito tra antico e contemporaneo, vero e falso, conoscenza e credenza, realtà e virtualità, dove il discorso migliore (Δίκαιος Λόγος) e il discorso peggiore (Ἄδικος Λόγος) si confondono.1 Proprio per questo non è sempre possibile ignorare il contesto in cui le opere di Hirst sono collocate.
L'esposizione è un intreccio dei più disparati temi, dal ruolo del canone a quello dell'artista, dal senso dell'esotico al rapporto tra mondo dell'arte e colonialismo, fino al tema del destino dell'opera, e la sua convenienza storica.
Di cruciale importanza è però la prospettiva storico-temporale. Queste opere (più di 80), infatti, appartengono alla serie Treasures from the Wreck of the Unbelieviable.2 Esse rappresentano, nella finzione inscenata da Hirst, i tesori che il ricchissimo liberto Aulus Calidius Amotan, noto come Cif Amotan II (anagramma di I am fiction), vissuto tra I secolo a. C. e I secolo d. C., avrebbe raccolto per dedicare un magnifico tempio ad Apollo. La sua nave avrebbe naufragato al largo di una costa dell'Africa Orientale, e questi tesori sarebbero rimasti sul fondale per 2000 anni, per essere poi recuperati da un team di archeologi marini ed esposti da Hirst in persona nel 2017 a Venezia. Per questo motivo molte di queste opere sono come ricoperte di coralli, denti di leone e incrostazioni marine varie – come la natura e il tempo le avessero irrimediabilmente reclamate per sé.
Five Graecian Nudes.
Nella sala che ospita la celebre Paolina Borghese di Antonio Canova, sono esposte due serie di cinque statue in bronzo, intitolate Five Graecian Nudes (Cinque nudi dell'antica Grecia). Quello che suona come un titolo meramente descrittivo, è già la prima bugia: le cinque statue non sono né nudi, né greche. Una bugia così palese serve però a smascherarne una più profonda.
Cos'è un nudo, e cos'è greco – o meglio, cos'è un nudo greco? Il nudo è manifestazione del bello nell'essenziale e nel naturale. Secondo le parole del Winckelmann:
« Nel nudo non tutto è bello (poiché anche fra gli antichi, come dice Platone nel Cratilo, vi sono buoni e cattivi artisti), ma ben poco è difettoso e cattivo; e siccome nella nostra natura si dice perfetto ciò che ha meno difetti, così esistono molte figure antiche che, in questo senso, possono passare per belle. Ma bisogna distinguere l'astratto e il puro bello dall'espressione nella bellezza […]. Le parti coperte delle figure antiche possono dirsi nel loro genere belle come il nudo, poiché tutte le loro vesti hanno le pieghe ben disposte e belle, e non sono tutte copiate da stoffe bagnate come generalmente, però a torto, si dice, ma da stoffe fini che poggiano sulla carne con pieghe basse e minute »3.
Posta la distinzione tra astratto e puro bello da un lato ed espressione nella bellezza dall'altro (ossia tra il bello come perfezione della figura etc., e ciò che in questa perfezione viene espresso, come il dolore del Laocoonte o l'ira dell'Apollo vaticani), mettiamo in risalto quella tra il nudo e il vestito. Entrambi sono espressione del « più alto concetto della bellezza astratta »4, la grazia.
« La grazia nelle opere d'arte si riferisce unicamente alla figura umana, e non riguarda solo l'essenziale, cioè la posizione e i gesti, ma anche l'accidentale, e cioè gli ornamenti e le vesti. »5
L'essenziale – ossia il naturale – è espresso nel nudo; i tessuti, a loro volta, possono essere un'appena percepibile accidentalità, ariosi, leggeri. Così la grazia, ossia il bello astratto, esprime le emozioni, il carattere e le virtù del soggetto. Ad esempio, « il piacere non si manifesta col riso, ma mostra soltanto la serenità della gioia interna; sul volto di una Baccante non appare – si potrebbe dire – che l'aurora della voluttà »6. L'essenza del nudo, allora, lungi dall'essere uno spogliarsi e un mostrare, è il « contegno spirituale »7, il con-tinere (il tenersi insieme, nella penombra, manifestato appena) dello Spirito. Non a caso il nudo è riservato agli déi, i quali non si manifestano mai all'occhio umano (e la cui visione, come la lingua greca stessa suggerisce, è insieme teoria, ϑεωρία, e terrificante meraviglia, θαῦμα) – ai meri mortali non è concesso spogliarsi.8 In questo senso, può essere autenticamente nudo, e non meramente denudato, solo ciò che per lo più rimane invisibile.
La Paolina borghese come Venere vincitrice di Antonio Canova è un esempio perfetto della grazia classica. La dea tiene in mano la mela donatale da Paride in cambio della promessa dell'amore della più bella delle mortali, Elena. Si è appena manifestata agli occhi prescelti di un mortale, e per questo la serenità del suo sorriso e della sua posa è indecifrabile – lo sguardo tocca la superficie brillante del marmo, e non può procedere oltre. Come Paride non può conoscere il vero senso del regalo della dea – Elena, ossia la tragedia della guerra di Troia –, così noi non possiamo decifrarne il mistero.
È proprio qui che i nudi greci di Hirst entrano in gioco. Ora che conosciamo l'essenza storica del nudo greco, possiamo capire il contrasto tra l'aspetto di queste statue e il loro titolo. Queste cinque statue appaiono scarne, spoglie, piatte, anonime. Il bronzo stesso – elemento capace di grandissima espressività – sembra mera plastica. Queste statue sono anonime, ignave, senza carattere né virtù – quasi prodotte in serie – come dei manichini. Cinque manichini – o, per dirla con Giorgio De Chirico, cinque muse inquietanti.
Ed è infatti di muse che si tratta. Le cinque statue infatti rappresentano le cinque giovani vergini della Città di Crotone che il pittore greco Zeusi (V secolo a. C.) scelse per realizzare il ritratto (ormai perduto) di Elena, scegliendo ora da una ora da un'altra un dettaglio, una parte del corpo perfetta.9 Il ritratto di Elena è allora una raccolta misurata e armoniosa di parti archetipiche, disperse nel molteplici delle manifestazioni sensibili (le cinque giovani crotonesi, solo parzialmente perfette) e raccolte nell'unità dell'idea.10
Secondo la didascalia posta a commento dei Five Graecian Nudes, « The story expresses the classical belief that beauty is most perfect when individuality is restrained in favour of the universal ideal ». L'ideale classico consisterebbe, secondo l'interpretazione di Hirst, nella soppressione dell' « individualità » in favore dell'universalità. L'individuale è qui una fanciulla crotonese qualsiasi, la quale, in virtù di una sua parziale perfezione – un bel naso, delle belle spalle, un bel taglio degli occhi –, viene fatta idealmente a pezzi, sacrificata nell'unità del λόγος del bello. Il λόγος discrimina, determina ciò che è degno di entrare nell'essere e ciò che deve esser lasciato fuori, ciò che è divino e aristocratico e può quindi essere accolto nel disegno del nudo, e ciò che invece è mortale e volgare, e va invece scartato, contenuto, coperto11. Allora, al fondo del processo di produzione del bello inteso come collezione di idee archetipiche (quasi idee platoniche12) v'è un atto fondamentalmente violento, polemico.
Così « restrained », questa individualità è rappresentata da Hirst come un manichino senz'anima – quasi come se delle fanciulle di Crotone, una volta consumate nella produzione violenta dell'archetipo, non siano rimasti che gusci vuoti. Ma l'interpretazione deve spingersi più avanti. Da un lato l'opera di Hirst sembra volerci mostrare l'altro lato del platonismo, quel che resta dell'essere umano dopo esser stato sottoposto al suo fondamentale processo di astrazione. Dall'altro lato, però, queste statue sono pur sempre loro stesse i « nudi greci ». Sono esse stesse l'« espressione nella bellezza », per riprendere le parole di Winckelmann. Esse circondano Paolina Borghese, come spettri, frammenti dello Spirito che la grazia di quest'ultima esprime. In questo senso, questi sordi manichini sono essi stessi gli archetipi selezionati da Zeusi, raccolti in unità nella stessa stanza. Una volta astratti dall'individualità, a favore di un canone di perfezione universale, le bellezze della contingente materia umana non sono altro che spenti atomi, anonimi e tutti uguali.
Ciò che ci si deve chiedere è allora questo: che Venere è mai possibile con simili archetipi? Quale nudo potranno mai ispirare queste muse inquietanti? Che regalo potrà mai donarci questa nuova smunta Venere? Al massimo uno fantasma, proprio come Elena secondo certe varianti del mito – una parodia della dea. (Del resto, si narra, lo stesso Zeusi morì ridendo del proprio ritratto di Afrodite.)
La riflessione di Damien Hirst ha come tema il destino del modo classico della produzione artistica. Prendendosi gioco della bellezza di Venere, Hirst attacca i concetti di bello, grazia, perfezione, essenza. Il bello non è brutto – è semplicemente neutro. La grazia è non scomposta – è solo apatica. La perfezione non è imperfetta – è banalmente ignava. L'essenza non è arbitraria ed inessenziale – è solo vuota.
Oggetto della sua ironia è però, forse ancora di più, proprio Paolina Borghese, una ricca mortale che lo scultore volle rendere immortale. E che ne è della più bella fanciulla di Crotone, una volta messa a confronto con la splendida Elena di Zeusi? Nel desiderio di immortalarsi, di fare di sé un dio – di idealizzarsi, di indiarsi –, l'uomo diventa una parodia di sé stesso, e quel poco che per natura possa dirsi bello perde tutto il suo fascino. (Hirst sembra dirigere questa ironia anche contro sé stesso. È il caso della statua che lo rappresenta sì nudo, fiero, che vigila come dall'alto sulla sua collezione, ma allo stesso tempo quasi molle, debole, mortale, circondato dai busti dei bei più immortali Dodici Cesari, scolpiti da Giovan Battista della Porta, e che decorano l'opulento salone di Mariano Rossi.13)
1Cfr. Aristofane, Le nuvole.
2Cfr. https://www.palazzograssi.it/it/mostre/passate/damien-hirst-a-palazzo-grassi-e-punta-della-dogana-nel-2017-1/.
3Johann J. Winckelmann, Dissertazione sulla capacità del sentimento del bello nell'arte e sull'insegnamento della capacità stessa (1763), in Il bello nell'arte, SE, 2008, p. 89.
4Johann J. Winckelmann, Della grazia nelle opere d'arte, dai Brevi studi sull'arte antica (1756 – 1759), ivi, p. 63.
5Ibidem.
6Ivi, p. 64.
7Ibidem.
8Tale distinzione tra nudo divino e vestito umano torna nel quadro Amor sacro e amor profano (1515) di Tiziano Vecellio, esposto proprio alla Galleria Borghese.
9Cfr. Plinio, Naturalis historia, XXXV, 64
10Non è un caso che l'arte (τέχνη, tecnica, e ποίησις, poesia / produzione) dell'arista sia un λόγος (da λέγειν, traducibile come « discorso », ma anche « raccolta », « fascio »), e che λόγος a sua volta sia tradotto come ratio, che è sì « ragione », ma anche « misura », « proporzione », « razione ».
11Cfr. Eraclito, Diels-Kranz, B 53.
12Non è l'εἶδος (da εἶδον, aoristo di ὁράω, vedere) platonico il risultato di una visione teoretica del divino che discrimina ciò che alto da ciò che è basso?
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