Dasein in a vat: breve incursione nel riduzionismo neurale.

Che accade se l'io cosciente finisce per identificarsi completamente con il proprio cervello?

Affrontiamo questa posizione, quella di un cervello che, in quanto tale, entra in relazione con se stesso, attraverso un celebre esperimento mentale, proposto in particolare dal filosofo statunitense Hilary Putnam (Reason, Truth and History, 1981), in cui è presa in considerazione la posizione metafisica del cervello: l'esperimento del cervello nella vasca.

The experiment goes like this: immaginiamo un cervello (o un intero sistema nervoso), immerso in una vasca e collegato a un computer. In questo modo riceve tutto ciò di cui ha bisogno un cervello normale per funzionare, non solo i nutrimenti necessari, ma anche una perfetta simulazione del corpo e del mondo esterno. Il cervello riceve segnali elettrochimici, sensibili e non (visivi, tattili etc., ma anche relativi allo stato generale del corpo, valori biochimici etc.), nutrienti, ormoni etc., il tutto armonizzato da un'intelligenza artificiale, coerentemente con le risposte del cervello. Se la persona-cervello non mangia per un certo lasso di tempo, vi sarà un effettivo calo di zuccheri, che avrà effetti reali e concreti; se la persona-cervello fa esperienza di un trauma cranico, le parti giuste del cervello vengono immediatamente danneggiate; e così via. Possiamo persino immaginare che il rapporto con gli altri non sia del tutto simulato, ma che ogni persona che possiamo incontrare sia a sua volta un cervello in una vasca, che condivide il nostro stesso mondo simulato, all'interno del quale ci scambiamo parole ben reali: io parlo, percepisco simulati il suono della mia voce e i movimenti della mia bocca, le mie parole, simulate ma coerenti con le informazioni espresse, arrivano all'orecchio simulato dell'altro, il quale ascolta, e magari tra sé e sé, dunque senza bisogno del supporto esterno, esprime un giudizio. Nulla è imposto ai cervelli, i quali hanno un'esperienza fenomenica perfettamente normale: sono situati in un mondo, incontrano oggetti intramondani, e così via. Un simile stato delle cose, per quanto fantascientifico, è tanto logicamente possibile quanto empiricamente indecidibile – tanto quanto la « reale realtà » dei nostri corpi e del nostro mondo.

Ora, proponiamo uno scenario leggermente drammatico. In questo mondo di cervelli e vasche siamo un brillante neuroscienziato, il quale è stato operato per un tumore al cervello. Siamo sopravvissuti, ma il tumore ha danneggiato parte della via dorsale, causandoci una grave atassia ottica, di cui siamo naturalmente consapevoli. Dato il nostro amore per la scienza, abbiamo chiesto che venissero fatte delle foto al nostro cranio aperto, così da poter vedere il nostro cervello. Con soddisfazione guardiamo le parti di materia grigia mancante, e vi vediamo la causa delle nostre difficoltà visivo-motorie. Poiché siamo un cervello nella vasca, noi abbiamo realmente perso parte dei lobi occipitale e parietale (rimossa perché no dalla stessa IA che ci tiene in vita e simula il nostro mondo). Ma la domanda che sorge è: il cervello che è stato operato, di cui noi abbiamo visto le foto e che abbiamo attentamente studiato, è o non è il cervello che, a causa di una menomazione, produce risposte visivo-motorie incoerenti e anormali? Un cervello si trova in un cranio, un altro nella vasca; uno è virtuale, l'altro è reale come sono reali i pensieri che produce; i due cervelli sono indiscernibili, eppure si può dire che siano lo stesso? Non è chiaro che esistono su due livelli completamente differenti?

Hilary Putnam considera l'ipotesi del cervello nella vasca impossibile. Questo poiché per lui le parole non hanno significato indipendente dal loro riferimento reale, e solo in questo riferimento un'asserzione può essere non solo vera o falsa, ma sensata in generale. Al contempo però le parole, e in generale tutti i significanti (parole, immagini, pensieri – tutto ciò che sta-per qualcosa), non hanno necessariamente significato, non sono necessariamente in rapporto di riferimento con qualcosa. Per questo motivo ogni asserzione prodotta da un cervello in una vasca sarebbe priva di riferimento reale, e dunque insensata, compresa l'asserzione « sono un cervello in una vasca », poiché verrebbe formulata senza alcun riferimento al fatto reale.

Putnam si scaglia contro ogni « magical theory of reference, a theory on which certain mental representations necessarily refer to certain external things and kinds of things »i. In controprova, Putnam sostiene che sia possibile, ad esempio, leggere, parlare o scrivere in giapponese, avere la sensazione di una perfetta comprensione del giapponese, senza veramente capirlo:


« Our example of a man pretending to think in Japanese (and deceiving a Japanese telepath) already shows the futility of a phenomenological approach to the problem of understanding. For even if there is some introspectible quality which is present when and only when one really understands (this seems false on introspection, in fact), still that quality is only correlated with understanding, and it is still possible that the man fooling the Japanese telepath have that quality too and still not understand a word of Japanese »ii.


Per questo motivo « the understanding of that expression — one’s understanding of one’s own thoughts — is not an occurrence but an ability »iii. È evidente che una simile posizione sia sbagliata. Non solo non ha senso ritenere che possano esistere parole prima e indipendenti dal riferimento (cos'è il necessario riferimento del pensiero alle cose se non la dimensione della comprensione, fondata sull'essere nel mondo e sulla quale si fonda il linguaggio stesso?iv), ma non è vero che innanzitutto e per lo più noi ci troviamo esattamente nella condizione di questo finto giapponese, che crede di capire e non capisce?v Gli esempi portati avanti da Putnam non solo non scalfiscono la nostra posizione fenomenologica, ma la rafforzano.

Allo stesso tempo dobbiamo chiederci: ammesso e non concesso che non siamo cervelli in una vasca (bensì, verrebbe da aggiungere, cervelli in un cranio), a che cosa realmente fanno riferimento le nostre parole? Cos'è che il nostro cervello-nel-cranio incontra quando produce la rappresentazione « casa » o « voce »? Non incontra forse, attraverso i suoi organi di senso, soltanto onde elettromagnetiche o sonore, le quali, contenendo già l'informazione « casa » o « voce », vengono convertite in segnali elettrochimici, elaborate etc.? E non è esattamente questa la condizione del cervello nella vasca, quella di non incontrare nient'altro che segnali elettrici? In altre parole – non è evidente l'insensatezza del fondare una teoria del linguaggio e della sensatezza delle asserzioni sul rapporto materiale che c'è tra un cervello e un altro oggetto? Il senso (così come la verità stessa, anche in quanto veritas) ha a che fare con l'apertura dell'esserci, e la sensatezza di un'asserzione o meno è un fatto fenomenologico. Ciò che stiamo facendo è una fenomenologia dell'essere (meramente)-un-cervello.

L'esperimento del cervello nella vasca è la versione fantascientifica, tutta novecentesca, del celebre dubbio iperbolico di Cartesio: e se tutto ciò che vedo, sono e penso fosse l'inganno di un genio maligno? Come quello cartesiano, il nostro esperimento è solitamente considerato una forma radicale di scetticismo. Ciò di fronte a cui ci troviamo però non è una mera questione di conoscibilità o meno del mondo, se sia anche solo possibile una verità, e così via. In Essere e Tempo Heidegger dirime molto facilmente la questione: « « C'è » verità solo perché e fintanto che l'Esserci è »vi, la verità è presupposta con l'essere dell'esserci stesso – i tentativi dello scetticismo che dubita della realtà del mondo esterno « presuppongono un soggetto senza-mondo, un soggetto non sicuro del proprio mondo, un soggetto che deve perciò cominciare con l'assicurarsi del proprio mondo »vii. Solo in un secondo momento il mondo esterno viene surrettiziamente dimostrato, o peggio, presupposto per sfinimento. Crediamo che l'esperimento del cervello nella vasca riguardi invero tutt'altro. La persona cervello-in-una-vasca non è meno un essere nel mondo di una persona cervello-in-un-cranio. Ciò che si dà (ϕαινόμενον) non è diverso, e in entrambi i casi con l'aprirsi di un esserci si danno tanto la verità quanto persino una certa comprensione dell'essere. Anzi, è quanto mai evidente che la questione dell'essere stessa è ridotta a un fatto meramente fenomenico: un cervello in una vasca può fare esperienza dell'essere come semplice presenza, porsi domande sull'essenza della metafisica e così via tanto quanto un cervello in un cranio. Il riduzionismo puro dell'esserci e del pensiero a un pezzo di carne trasforma letteralmente l'ontologia in una pura illusione ontica. Sia detto chiaramente: non sarà un pensiero più profondo dell'essere a garantirci che non siamo cervelli in una vasca, anzi: dovremo forse essere pronti ad abbracciare questa prospettiva. Ma perché tanto orrore di fronte a questa possibilità? In fondo, all'essere nel mondo non interessa che il suo ente sia fondato, che il commercio intramondano sia assicurato? Sì – ma nel suo cuore più profondo, no. Ciò che ci interessa, per così dire, è che il mondo sia veramente qui, che non sia solo nella nostra testa. C'è una cruciale differenza tra, ad esempio, un foglio per un cervello in una vasca e un foglio per un cervello in un cranio. Il secondo è un ente che è quello che è indipendentemente da meviii – quando dico « foglio », la mia parola mostra un foglio che è un foglio (o qualsiasi cosa sia, e non altro) indipendentemente dal fatto che la mia parola lo mostri. Il primo, al contrario, è un ente piatto, è un foglio solo finché è codificato come foglio nell'esperienza – venuta meno l'attività neurale, viene meno il foglio stesso, restano solo una macchina tanto complessa quanto cieca. Nessuna IA può esserci. La differenza tra le due posizioni naturalmente è però solo prospettica: se pensiamo di essere cervelli in un cranio, siamo assicurati circa la realtà dell'ente di cui facciamo esperienza; se pensiamo di essere cervelli in una vasca, l'ente stesso, fenomenicamente fondato e compreso, appare come esclusivamente illusorio. La macchina che lo simula, tanto logicamente possibile quanto empiricamente indecidibile, occupa uno status ontologico ambiguo. Essa non è un'ente della nostra esperienza, né un fondamento ontoteologico. Piuttosto, quando viene supposta come « reale », fa svaporare la realtà e l'essenza di ogni altro ente. Le due posizioni possibili si sovrappongono come stati quantistici: sono entrambe possibili, finché in maniera del tutto arbitraria non ci risolviamo per l'una o per l'altra posizione. Ma ciò significa: non ci possiamo mai risolvere per l'una o l'altra. E questo perché l'impossibilità della metafisica è insita nella riduzione stessa dell'uomo al suo cervello.

Ancor più che il nostro dire « foglio » per riferirci a un foglio contemporaneamente reale ed apparente, è il nostro dire « cervello », « il mio cervello », e infine « io sono il cervello », ad essere instabile. La riduzione dell'esserci ad un pezzo di carne rende impossibile produrre asserzioni, immagini o pensieri veri. Un cervello, per il modo stesso in cui « conosce », non può entrare in relazione con se stesso senza sfaldarsi in una molteplicità di prospettive indecidibili: sono in un cranio o in una vasca? Sono hardware o software?ix

Un cervello, in altre parole, in quanto tale, non è un esserci, non è un essere umano, non apre alcuna comprensione dell'essere. And yet, we humans find ourselves in this predicament.

Quando un neuroscienziato come Damasio afferma l'impossibilità di giungere alla realtà assolutax, non lo sta facendo nella classica maniera kantiana. In Kant la distanza che c'è tra fenomeno e noumeno è immanente al ϕαινόμενον stesso, nella sua radicale antinomicità,o (che è lo stesso) all'intellettoxi. Da un lato allora risiede la realtà assoluta, prodotto di una simile radura, dall'altro il soggetto assoluto, il quale non è né fenomenico né noumenico: « the transcendental object is the void beyond phenomenal appearances, while the transcendental subject already appears as a void »xii. Ciò che affermano le neuroscienze appare simile: da un lato c'è una realtà, e dall'altra un organismo limitato, il quale produce tanto una teoria del mondo quanto, non avendo una conoscenza completa di se stesso, una teoria del sé. Accostiamo scienza e filosofia troppo velocemente. Nella prospettiva filosofica la cosa è in sé affetta dalla differenza ontologica: come sappiamo, l'essere è finito, l'incompletezza del fenomeno e l'insostanzialità del soggetto sono due facce della stessa medaglia. Al contrario, nessuna neuroscienza si sognerebbe di affermare che il cervello non è una sostanza reale, privo contenuto, e che la realtà con cui esso entra in rapporto abbia in sé il germe del paradosso. Il limite dell'uomo, per la neuroscienza, è meramente organico: possiamo fare ciò può fare un essere umano, non ciò che può fare, ad esempio, un altro animale (« Rane e pesci che guardino ai gatti li vedono in modo differente, e lo stesso vale per i gatti stessi »xiii). Non a caso la realtà assoluta, per la scienza, non è un noumeno radicalmente e per sempre distinto, ma qualcosa a cui ci avviciniamo, che è più o meno a portata di mano.

Cosa sta facendo il cervello quando produce una teoria del sé? Sta forse conoscendo qualcosa, producendo descrizioni di un oggetto determinato? Ciò che ci insegna la neuroscienza è che, in primo luogo, sta sopravvivendo: « Il sistema immunitario, l'ipotalamo, le cortecce frontali ventromediane e la Dichiarazione dei Diritti hanno, alla radice, la stessa causa »xiv. Tra le cortecce frontali e la Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo c'è naturalmente una bella differenza: le prime sono pezzi di carne, la seconda è un oggetto in rapporto diretto con l'idea universale di uomo. In altre parole, la teoria del sé, di ciò che significa « essere umani », è adattiva tanto quanto un cervello più grande o il pollice opponibile. Solo in questo senso un cervello, o meglio, un organismo sta anche conoscendo se stesso: non in senso teoretico, ma in senso pratico, la conoscenza di sé è un dare un ordine, un modo per gestire in maniera coerente un sistema complesso in un ambiente complesso.

Per questo motivo, in linea di principio, è logicamente possibile immaginare un cervello immerso in una vasca, vivente in dialogo con un'intelligenza artificiale, la quale gli fornisce una simulazione perfetta del mondo e del corpo. Questo perché, in quanto è un oggetto completamente determinato nella sua sostanza e nelle sue azioni, il cervello può interagire completamente con una macchina, la quale a sua volta, in linea di principio, può comprendere le risposte del cervello e integrarle nella simulazione: alla completezza della determinazione di questi oggetti risponde la sufficienza di una capacità di calcolo finita. Nel riduzionismo biologico il sostanziale è tutto, e due enti possono interagire completamente tra di loro. È evidente che viene persa l'essenza propria della soggettività, quella di essere al contempo il “buco” e l'“eccesso” del non-tutto che è la realtà, al contempo spettatore superfluo e fondamento abissale e libero. Poiché il riduzionismo abolisce ogni simile incompletezza, esso riduce tutto a una legge unica ed esterna, la quale per sua natura non può mai essere colta dall'interno – poiché non v'è alcun interno.

A questo punto si potrebbe proporre una dimensione gnostica della cerebralità umana, che coincide con la sua astrattezza:


« Cyberspace thus designates a turn, a kind of "negation of negation," in the gradual progress towards the disembodying of our experience (first writing instead of the "living" speech, then press, then the mass media, then radio, then TV): in cyberspace, we return to the bodily immediacy, but to an uncanny, virtual immediacy. In this sense, the claim that cyberspace contains a Gnostic dimension is fully justified: the most concise definition of Gnosticism is precisely that it is a kind of spiritualized materialism: its topic is not directly the higher, purely notional, reality, but a "higher" BODILY reality, a proto-reality of shadowy ghosts and undead entities. »xv


Venendo meno il senso di resistenza del mondo, viene meno la sua stessa realtà: l'assoluta certezza coincide con l'assoluto scetticismo.


squishy
Are we this squishy?


ii Ivi, p. 20.

iii Ibidem.

iv Cfr. Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2005, §§ 31-34.

v Cfr. ivi, §§ 35-37.

vi Ivi, p. 273.

vii Ivi, p. 250.

viii Cfr. ivi, § 44 c.

ix Checché ne dica Damasio, la metafora hardware/software ha perfettamente senso: così come posso simulare un corpo per un cervello, posso simulare un neurone per un altro neurone, e così via – tipico problema di ontologia: sostituendo i pezzi della nave di Teseo, e ricomponendola con i vecchi, qual è la vera nave? E lo stesso ragionamento può essere fatto con i neuroni. La natura estremamente relazionale di oggetti come il cervello, le cellule etc. rende tutto ancora più instabile. Il cyberspazio è una monadologia.

x Antonio Damasio, L'errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1995, p. 320.

xi Cfr. Slavoj Žižek, The Parallax View, MIT Press, 2006, p. 20.

xii Ivi, p. 21.

xiii L'errore di Cartesio, p. 320.

xiv Ivi, p. 354.


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