Coronavirus come Iperoggetto.
Cos'è il coronavirus? È forse un virus? È il prodotto della
globalizzazione capitalistica, o magari del rapporto malato che
l'uomo intrattiene con il resto della fauna su questo pianeta? Sì,
ma soprattutto no. La domanda stavolta vuole essere profonda,
superare
il rappresentare scientifico e muoversi nell'orizzonte ontologico. E
perché mai? Perché
l'esperienza reale di ciascuno di noi dipende innanzitutto, se non
solo, da ciò che si dà come essente. Se qualcosa non è, non ci
tocca. Ma a volte capita che ci affligga qualcosa dai contorni
sfumati, qualcosa che è ovunque ma non sappiamo precisamente dove,
qualcosa che è ora, ma non sappiamo precisamente quando
– qualcosa che, nonostante questa incertezza, sappiamo essere
reale. Non è il complotto ebraico a spaventarci, né la sostituzione
etnica, bensì qualcosa di tangibile senza alcuna riserva, eppure
sfuggente. La situazione emotiva adatta a questi oggetti è
un'inquietudine in cui le cose normali appaiono aliene
all'improvviso. Il filosofo Timothy Morton ha un nome per una simile
cosa: iperoggetto.
Un
iperoggetto è pensabile secondo cinque categorie: viscosità,
non-località,
ondulazione
temporale,
phasing
e interoggettività1.
Il coronovirus è un iperoggetto. In quanto tale ha il potere, se non
di far crollare una volta per tutte il capitalismo, sicuramente di
infettare le inezie della nostra vita. Gli iperoggetti sono oggetti
le cui caratteristiche ontologiche frantumano l'orizzonte stesso
della nostra esistenza – non nel senso che stravolgono le
coordinate di questo orizzonte, bensì nel senso che mettono in
questione l'esistenza stessa di un orizzonte. Come l'ombra dell'iperoggetto riscaldamento globale incombe su ogni chiacchiera riguardo il tempo (« non ci sono più le mezze stagioni » assume colori inquietanti ormai...), così il virus catalizza ogni nostro riferimento e attenzione in maniera importuna. Gli iperoggetti sono
heideggeriani e insieme post-heideggeriani.
Il
coronavirus è viscoso. La viscosità degli iperoggetti – che per
estensione è ormai la viscosità di ogni
oggetto – sta nel fatto che nessun distanziamento è possibile.
Essa elimina l'asettica distanza tra soggetto e oggetto della scienza
moderna: quanto più, conoscendoli, cerchiamo di separarci da essi,
tanto più ci restano « appiccicati ». Dove noi crediamo di essere
(qui a leggere un articolo, qui a ber un caffè), lì noi non siamo.
Ogni nostra esperienza « sincera » vuole ignorare quanto
l'iperoggetto ci sia attaccato. Goderci una passeggiata in una
giornata solare e con poco vento è ipocrisia, quando ogni
manifestazione del clima è manifestazione della crudele catastrofe
che è il riscaldamento globale. Restiamo bloccati nel negativo
hegeliano della concretezza contro cui ogni tesi universale si
infrange. Perché il coronavirus è viscoso? Esso ci sta addosso,
l'unione di noi e virus non è ulteriormente scomponibile. Non
significa che siamo medicalmente infetti: significa che ne siamo
ontologicamente contaminati. In ogni momento dell'esistenza siamo
legati al coronavirus. Se nella quotidianità della quarantena ciò
non è necessariamente evidente, le cose cambiano quando usciamo di
casa. Tornando dal supermercato incrociamo qualcuno che conosciamo.
Finalmente un volto nuovo dopo giorni di isolamento! – ma abbiamo
paura, ci ritraiamo. Poi però pensiamo: « il virus resta sulle
superfici per molto tempo, potrei averlo contratto dieci minuti fa.
Oppure, potrebbe essere sui miei vestiti, e potrei inavvertitamente
contrarlo spogliandomi una volta arrivato a casa ». Il coronavirus è
invisibile, eppure ci sta fenomenologicamente addosso. Che il singolo
virus sia effettivamente presente sul nostro corpo è un fatto di
mera probabilità, ma l'ontologia ragiona in termini di « è » o «
non è ». Il coronavirus è qui, non davanti, ma addosso
a noi. D'un tratto cominciamo a sospettare del nostro stesso corpo,
delle unghie che mangiamo quando siamo nervosi, delle dita con cui ci
grattiamo il naso. Le nostre dita sono
il coronavirus, e solo dopo, se siamo fortunati, sono le nostre dita.
Il
coronavirus è non-locale. La non-località degli iperoggetti
significa questo: essi sono ovunque e da nessuna parte in
particolare. Un iperoggetto è troppo grande per essere in un punto
specifico: ha dimensioni planetarie. Dov'è il riscaldamento globale?
Ovunque, ma non sappiamo dire dove. Questo non perché esso trascenda
la categoria dello spazio, anzi: il cambiamento climatico è qui sul
pianeta Terra, tra la crosta terrestre e l'atmosfera. Eppure non è
né qui né lì – è appunto non-locale. Ciò che vediamo sono sue
manifestazioni contingenti (una siccità, una giornata insolitamente
soleggiata etc.) senza che esso sia un noumeno kantiano, una mera
cosa del pensiero. No, è ben reale. Il coronavirus ha lo stesso
carattere. Nelle prime settimane del 2020 abbiamo creduto e sperato
(mentendo a noi stessi) che il coronavirus fosse un fatto locale,
localizzabile nella città di Wuhan, nella Cina centrale. Ben presto
esso ha dispiegato la sua essenza planetaria. Eppure dov'è
il coronavirus? È in un laboratorio, studiato da accorti scienziati?
È nel corpo di un contagiato? È sulle nostre dita? Esso si ritrae
nella sua interezza, sottraendo all'uomo il primato dell'intimità. Ci troviamo di fronte a un oggetto che si comporta come un
umano – ha un « dentro » imperscrutabile che si manifesta in un «
fuori » cui è irriducibile – ma che non è umano. Possiamo
esperire il coronavirus solo indirettamente, e solo indirettamente
possiamo debellarlo. Ogni strategia al di sotto del worst
case scenario
è, a causa della non-località del coronavirus, immatura o cinica.
Il
coronavirus ci pone in uno strano rapporto col tempo. Timothy Morton
parla di « ondulazione temporale », un modo strano per dire che «
gli iperoggetti non durano per sempre: piuttosto ci mettono al
cospetto di una finitudine
molto grande
»2.
In questo caso il virus ci manifesta la nostra scarsa dimestichezza
con gli iperoggetti: esso è infatti molto meno « iper » degli
iperoggetti più massicci, la cui estensione temporale è immensa, ma
non infinita, non dominabile da alcuna rivendicazione della ragion
sublime umana. Quanto « dura » Giove? A confronto il coronavirus ha
l'estensione temporale di un battito di ciglia. Eppure esso già
sembra estendersi troppo. L'idea che la situazione attuale possa
protrarsi per intere stagioni ci paralizza. Non sono i nostri piani a
cadere nel tempo, bensì il tempo a prender forma nei nostri piani.
L'estensione del coronavirus li frantuma. I più fortunati assistono
alla distruzione del tempo nell'indifferenza dei giorni di
quarantena. I medici e gli infermieri devono accettare la prospettiva
di un conflitto senza riposo né fine in vista. La prospettiva
temporale è completamente nuova, ed è quella all'interno della
quale dovremmo affrontare anche il riscaldamento globale: è finita
l'era dei piani.
Ma
il coronavirus infetta il tempo anche in un altro modo: phasing.
Gli iperoggetti sono caratterizzati da phasing:
fenomenologicamente parlando, essi esistono allontanandosi e
avvicinandosi, occultandosi e scoprendosi a momenti alterni, pur
incombendo sempre su di noi. L'iperoggetto non « sparisce » quando
viene meno, ma lascia che ci dimentichiamo di esso, per ripiombare
nel nostro campo cognitivo quando meno ce lo aspettiamo. Il phasing
trasporta nel tempo la strana kantianità della non-località
dell'iperoggetto. « Un oggetto regola
il tempo
degli altri oggetti »3.
Il coronavirus regola il nostro tempo. I sintomi del COVID-19 si
manifestano dopo un tempo lungo e variabile: qualche giorno? una
settimana? due? Ogni occasione di contagio getta avanti a sé due
settimane di ansia. Il tempo non è più scandito in una successione
ordinata di momenti. Questi getti si mischiano, creando una marea
temporale di possibilità di manifestazione del sintomo. Il tempo
stesso è infettato: il « domani » è
quello del « domani manifesterò i sintomi da COVID-19 », così il «
tra poco » e il « tra dieci giorni ». In questa temporalizzazione
il medico convive con l'ansia: « potrei essere infetto – potrei
essere asintomatico, oppure i sintomi potrebbero manifestarsi domani
». Nel delay
variabile tra contagio e manifestazione del sintomo si consuma un
tipo particolare di phasing:
non solo il coronavirus ha molteplici finestre temporali attraverso
le quali affacciarsi nella nostra vita, ma queste finestre sono
probabilistiche, incerte e contemporaneamente sempre presenti, così
come il virus è sempre qui, anche quando fortuitamente non lo è.
Perché
una simile analisi del coronavirus? Siamo ben lontani dai proclami
fatti a gran voce dai filosofi di oggi che in ogni avvenimento
scorgono l'occasione di un gran cambiamento. Il coronavirus è,
pensato nella sua essenza propria, solo uno tra i tanti iperoggetti
che sono entrati nel nostro mondo senza bussare, anzi, sfondando la
porta. Heidegger fatica a pensare fino in fondo una simile irruzione,
ma vi si avvicina, ad esempio, quando parla dello « scotimento di
tutto l'ente »4.
A essere scosso non è il mondo della seconda guerra mondiale, ma
l'ente nelle sue fondamenta ontologiche antropocentriche. Gli
iperoggetti, e tra essi il coronavirus, sono una contrazione
dell'essere. Pensare propriamente il coronavirus, sviluppare persino
un ontologia virale, è necessario per tracciare le coordinate
ontologiche del presente. L'era degli iperoggetti è anche detta
Antropocene. Questa è tutt'altro che una denominazione
antropocentrica: piuttosto, non tanto pone l'uomo nel mezzo della
natura come « un ente tra gli altri »5,
bensì nel mezzo dell'essere
come un iperoggetto
tra gli altri. Il guadagno filosofico di un simile pensiero è
notevole: esso ci permette di scrostare Heidegger dalle
interpretazioni postmoderne, da quelle che vaneggiano di
antisemitismo e nazismo metafisico e da quelle che lo accusano di
pretendere troppo (il pensiero dell'essere) e concludere poche cose e
oscure; ci permette di abbandonare il complesso della spaesatezza
novecentesca: persa la vecchia casa dell'essere, il mondo come oikos
del padrone, rassicurante al limite del kitsch,
troviamo che « Ogni creatura del mondo ha una propria casa / E la
terra è una casa per noi tutti »6.
1 Quest'ultimo
carattere, l'interoggettività,
è cardinale nella scuola filosofica d'appartenenza di Timothy
Morton, la Object Oriented Ontology.
A noi però interessa poco. Ci basti dire questo: l'interoggettività
riproduce tra oggetti il rapporto che la filosofia moderna pone tra
soggetto e oggetto.
2 Timothy
Morton, Iperoggetti, NERO,
Roma, 2018, p. 84.
5 Martin
Heidegger, Segnavia, pp. 276
– 277.
Commenti
Posta un commento