Il bambino, la Cappella Sisitina, l'Essere - un esperimento etico.

L'esperimento.

Esiste un esperimento mentale, nell'ambito della filosofia etica, che mette alla prova il nostro dare giudizio di valore alle cose e alle persone. Suona più o meno così: «poniamo il caso che la Cappella Sistina sia vittima di un incendio, e un bambino sia rimasto intrappolato al suo interno. Se chiamiamo tempestivamente i pompieri potremo salvare la Cappella, ma il bambino morirà; al contrario, se decideremo di salvare il bambino, non faremo in tempo a chiamare i pompieri e la Cappella sarà perduta per sempre». Al di là delle forzature tecniche, non è un esperimento mentale assurdo. Ad esempio, non è difficile immaginare un terrorista che costringa a scegliere tra la vita di qualcuno e la salvezza di un importante patrimonio culturale – in questo caso, le implicazioni politiche complicherebbero ulteriormente il discorso, mentre la prima forma in cui abbiamo posto l'esperimento (l'accidentalità dell'incendio ecc.) lo rende abbastanza puro e scevro di implicazioni aggiuntive.

Innanzitutto, in base a cosa compiamo la nostra scelta? In quanto si tratta di un esperimento mentale, si suppone che dobbiamo rispondere secondo ragione. Emotivamente parlando, la madre del bambino non avrebbe dubbi sulla sua scelta, mentre qualcuno che abbia speso decenni di studi nella completa devozione per la grandezza del genio umano, potrebbe preferire l'irripetibile Cappella Sistina alla banalità di una vita umana. In entrambi i casi, non è la ragione a parlare, ma il sentimento, l'affetto. Ma noi dobbiamo rispondere a queste questioni razionalmente. Innanzitutto: quando preferiamo qualcosa rispetto a qualcos'altro, in base a cosa la preferiamo? In base a una serie di metri di giudizio variabili, ognuno adeguato ad un oggetto e alla circostanza. La scelta non ci è indifferente poiché ogni cosa è più o meno adeguata alla nostra richiesta, alle nostre pretese, al nostro fine. Non si preferisce mai senza alcun interesse verso gli oggetti della nostra preferenza, o più precisamente, senza una prospettiva che rende interessante questi oggetti, prospettiva che è l'orizzonte di comprensione in cui sono già formulati giudizi di valore. Ogni valore ha un diritto, ossia richiede il nostro impegno per esso, una presa di responsabilità. Dobbiamo però escludere ogni prospettiva soggettiva ed emotiva. Là dove consultiamo l'emozione infatti, la nostra scelta è oggettivamente indifferente, ma ha un peso soggettivo: la madre che salva il bambino non vede con che peso la perdita di un tale patrimonio culturale può gravare sull'umanità; lo studioso di prima (che si suppone non abbia compiuto già questo esperimento mentale e non agisca secondo una massima pienamente razionale, ma guidato da un generico sentimento di venerazione verso la cultura) non vede invece come la preferenza di un oggetto a una vita compia una pesante interpretazione della vita umana stessa – ciò che interessa è la soddisfazione della prospettiva personale. Al contrario, quando interpelliamo la ragione, la nostra scelta è soggettivamente indifferente (con buona pace di Spinoza e di coloro che legano ratio e beatitudo, la ragione può imporre cose spiacevoli, ed è un peso da sopportare), oggettivamente di capitale importanza. Dobbiamo chiederci: in base a cosa la ragione preferisce? Qual è la sua prospettiva, il suo metro di giudizio? Quali sono, in ultimo, i suoi valori? Ci sono evidentemente questioni che per loro natura non ha senso che siano sottoposte alla ragione, tutte le questioni riguardanti il gusto e la preferenza soggettiva. Non ha senso scegliere razionalmente il gusto della pizza che preferiamo stasera, né quale mostra d'arte visitare per il puro piacere estetico (diverso è il caso dello studio – in quel caso la ragione ci impone ciò che oggettivamente ci fa bene, magari anche contro la nostra attuale inclinazione emotiva). Queste questioni sono letteralmente incomprensibili da un punto di vista diverso da quello del soggetto che preferisce e decide. Le questioni razionali, si badi bene, non sono semplicemente questioni che “riguardano tutti” (quante preferenze collettive sono state e sono tutt'ora estremamente irrazionali!), ma questioni che vanno risolte al di là dell'interesse soggettivo di una, più o tutte le persone. Se nelle questioni soggettive la prospettiva valoriale è soggettiva, nelle questioni oggettive dobbiamo soddisfare le richieste di una prospettiva oggettiva, che faccia valere il diritto di valori oggettivi.

Valori ontologici.

Com'è possibile un valore oggettivo? Sembra (e sembra soltanto) infatti quasi ridicolo, dopo Nietzsche e il nichilismo in generale, sostenere qualcosa come un valore che non dipenda dall'arbitrio e dalla libera volontà soggettivi. Se nella filosofia classica l'Essere si limitava ad essere, poiché, stando il Bene al di là dell'Essere, l'Essere era (è) e non poteva (non può) che essere, oggi l'ontologia ha scisso radicalmente l'Essere e il dover essere dell'Essere: non c'è alcun motivo per cui l'Essere debba essere, e ogni dover essere risulta assolutamente fittizio. In questo senso, non ci può essere alcun oggetto che per il suo stesso essere abbia un valore oggettivo tale da rivendicare dei diritti nei confronti di un soggetto. Ne Il principio responsabilità ad esempio Hans Jonas tenta di risolvere l'impasse mostrando come l'incompletezza ontologica della Natura interpelli direttamente l'Esserci nella sua responsabilità nei confronti dell'Essere: la Natura, pur non essendo teleologica, funziona secondo schemi che producono scopi, e la vita (la biosfera) in ultimo non è che la liberazione della “necessità di scopo” della Natura nella molteplicità degli scopi specifici che danno senso all'essere degli esseri viventi. Per quanto complicato sia affermare che abbiamo delle responsabilità nei confronti di certi esseri, per cui dobbiamo impegnarci verso il loro dover essere in quanto valori, il fatto stesso che riteniamo che certe questioni necessitino di qualcosa di più di un semplice gusto, ci fornisce un dato importante. Sia pure l'idea di oggettività (etica, ovviamente) un'illusione, una maschera, il frutto della volontà di potenza ecc. certe questioni comunque non potranno mai essere affrontate senza lo scrupolo che da questa idea scaturisce: «starò facendo/avrò fatto la cosa giusta?». L'esistenza stessa dell'etica lo prova.i Come il soggetto puro ha necessità di riconoscersi come fatto della stessa sostanza del mondo, così il suo comportamento etico vuole poter difendere rivendicare la propria legittimità al tribunale dell'Essere. Ogni visione di questo genere comprende l'Essere come da una parte indipendente dal soggetto, dall'altra come capace di pretendere dal soggetto stesso. Il rapporto di coappartenenza tra Essere e Esserci (che è poi l'essenza dell'uomo) è, in altre parole, il presupposto per ogni comportamento etico e razionale. La ragione può quindi formulare e comprendere valori oggettivi (fino all'Essere come valore), e la prospettiva dev'essere in grado di: da una parte, mantenere aperta la dimensione razionale della preferenza; dall'altra, rispettare i diritti rivendicati dall'essere dell'oggetto in questione in quanto avente valore in sé. In questo senso, la ragione deve seguire il «Bene in sè», non nel senso classico (nel senso platonico dell'Ἔρως), ma nel senso che ha da essere il compimento del dover essere dell'Essere.

Ma concretamente, come ci si rende responsabili verso l'Essere? Innanzitutto, mantenendo aperta la dimensione della razionalità, ossia della tensione etica, della responsabilità verso l'Essere stesso. In questo senso la ragione deve tenere l'uomo nella massima considerazione, e non nella sua singola esistenza (si può affermare che, oggettivamente, ci sono vite che valgono più di altre), ma come possibilità stessa della razionalità, come preferenza del razionale stesso. In secondo luogo, comprendendo i diritti oggettivi di ogni oggetto, ossia secondo il suo essere, conoscendone l'essere e il dover essere, il valore ecc. I due momenti si muovono in maniera assolutamente parallela. Solo conoscendo l'essere di un oggetto possiamo preferire a favore di ciò che favorisce la ragione stessa, e solo favorendo tenendo aperto l'orizzonte razionale, possiamo dare un senso alla nostra preferenza.

Il bambino e il monumento.

Possiamo quindi tentare una risposta al quesito iniziale: il bambino o la Cappella Sistina? Rispetto all'essere del bambino e della Cappella Sistina, quale dei due ha più valore nei confronti della razionalità (come cura etica dell'Essere)? Quali sono i diritti oggettivi rivendicati dall'uno e dall'altro?

Il bambino. Qual è l'essere del bambino, razionalmente? Esso è un essere assolutamente non autosufficiente, immaturo, un essere che incarna, forse più di ogni altro, le rivendicazioni del dover essere e la richiesta di responsabilità. In questo senso possiamo considerarlo alla stregua di una poter essere puro, che va preferito in quanto “rappresentante” dell'intera umanità in quanto possibilità. Questa sembra essere anche la posizione di Jonas: il bambino è oggetto archetipico dell'appello dell'Essere alla responsabilità dell'Esserci, e in quanto tale va preferito. Possiamo suggerire che, lasciando morire il bambino, lasceremmo un segno indelebile nella generale comprensione della vita umana in quanto possibilità futura, sacrificandola a favore della conservazione di un passato ipostatizzato che in quanto passato ha più diritto della possibilità pura futura. Sacrificare il bambino potrebbe rivelarsi un atto di puro conservatorismo, che pone la dimensione materiale del sistema al di sopra delle possibilità umane. Fin'ora la Cappella Sistina non è stata preferita ad alcun bambino, ma pare che il mondo abbia comunque intrapreso questa rotta. Le parole di Greta Thunberg esprimono esattamente questa gravissima irresponsabilità del sistema attuale nei confronti del futuro dell'umanità.

«You lied to us. You gave us false hope. You told us that the future was something to look forward to. And the saddest thing is that most children are not even aware of the fate that awaits us. We will not understand it until it’s too late. And yet we are the lucky ones. Those who will be affected the hardest are already suffering the consequences. But their voices are not heard. […] You don’t listen to the science because you are only interested in solutions that will enable you to carry on like before. Like now. And those answers don’t exist any more. Because you did not act in time.»ii

L'essere del bambino è in questo senso la pura possibilità etica, nel senso etimologico del termine, da ἦϑος: affine a quella di habitus, l'idea di etica è quella di un processo di formazione e autoformazione, tensione verso la virtù, espressione dell'uomo nella totalità della sua umanità. Ogni bambino, dal momento in cui è messo al mondo, richiede “ontologicamente”, a chi ascolta con le “orecchie della ragione”, di essere formato in modo che sia in grado di assumere la responsabilità più alta. Ogni fallimento in questo processo di formazione pone l'uomo in uno stato, pur parziale e minimo, di non-essere. Considerando l'incapacità radicale del sistema attuale nei confronti delle proprie responsabilità (storiche, ontologiche ecc.: si pensi all'inadeguatezza dell'uomo di fronte alla catastrofe ecologica, di fronte alle migrazioni di massa, alla povertà ecc.), dobbiamo concludere che quasi tre millenni di educazione, nonostante i successi (che ci permettono di renderci conto di ciò), abbiano in sostanza fallito. E se dunque il bambino è quel puro poter essere avente diritto alla sua massima formazione etica, qual è il suo valore circa il destino della razionalità stessa – in altre parole, in che senso salvare il bambino può essere l'atto che giustifica sé stesso?

Il monumento. La Cappella Sistina è il monumento alla grandezza passata, l'opera d'arte inesauribile che ancora nel presente può rinnovare la propria carica poietica e etica originaria, secondo il suo essere (in questa accezione la si considera nell'esperimento mentale). Senza addentrarci in una impossibilmente complessa trattazione sulla proiezione etica verso il futuro che l'opera d'arte ha in quanto promesse de bonheur, bisogna notare come l'essere dell'opera in quanto preferita a una vita (secondo il senso ontologico su descritto) è assolutamente complementare al bambino. Se infatti il bambino è da formarsi, l'opera, il monumento, ha proprio il ruolo e il massimo potere formativo. Il monumento è in questo senso un oggetto etico, non estetico, e in quanto tale è stato considerato per moltissimi secoli invero. La Bellezza, da Platone in avanti (al di là delle sue diffidenze epistemologiche nei confronti dell'arte), ha sempre avuto il ruolo di educare sentimentalmente l'uomo alla morale e alla ragione. Dalla Cappella Sistina come Biblia pauperum ai quadri politici di Jacques-Louis David, l'arte è sempre stato anche il mezzo con cui l'uomo razionale torna nella caverna dopo aver fatto esperienza dell'Essere e del Bene. Ma c'è un problema: la Cappella Sistina, come qualsiasi altro monumento, pur nel suo sublime potenziale formativo, non può assumersi quella responsabilità formativa che il bambino richiede. Il bambino ha bisogno di una madre, una famiglia, tutt'al più di una comunità umana che lo introduca nell'orizzonte (innanzitutto linguistico) di comprensione umano, che lo formi secondo il suo essere; posto di fronte alla più sublime delle opere, senza quell'orizzonte ermeneutico umano, questa gli resterà muta. Sta all'uomo (all'educatore) tenere aperto il potenziale formativo dell'opera in una sua comprensione autentica. Perché allora salveremmo la Cappella Sistina, o un qualsiasi altro monumento alle possibilità di fioritura del bocciolo che è l'essere umano, se non perché confidiamo nella possibilità formativa dell'opera, nei confronti della quale l'umanità tutta è sempre infante?iii Il diritto che il monumento rivendica è in netto contrasto col sacrificio del bambino?

Il sacrificio dell'Opera.

Apparentemente. Il problema non cade se al posto del bambino consideriamo un adulto. È vero che così l'esperimento mentale si limita a paragonare il valore di un essere umano con il valore di un'opera d'arte. Bisogna però notare che il senso del bambino in quanto poter essere regge solo se presupponiamo che il bambino debba poi restare vivo. Se dovesse morire appena giunto a maturità, tutti gli sforzi formativi sarebbero stati vani. Dunque l'uomo deve essere.iv In-quanto-cosa, rispetto al monumento, salviamo l'uomo? L'uomo dev'essere salvato in quanto il suo valore è incommensurabile rispetto a un qualsiasi altro oggetto, sia quantitativamente che qualitativamente. L'orizzonte in cui si coglie il valore dell'uomo e quindi il suo dover essere è infatti il più fondamentale e fondante di tutti. Obliando, con la nostra responsabilità verso l'uomo, il valore stesso di ciò per cui abbiamo sacrificato l'uomo, ci troveremmo con un cadavere da una parte e una parete affrescata incapace di dire più nulla dall'altra. Ogni delitto contro l'umanità, in questo senso, impoverisce il«mondo dello Spirito» – ma alla stessa maniera, ogni violenza contro lo Spirito è un delitto contro l'umanità. Il bambino chiede, secondo il suo essere, di essere formato secondo ragione, in modo da essere completamente, ed essendo assumere la responsabilità stessa dell'Essere. Ma questo significa che il diritto del bambino a diventare maturo nel senso più compiuto si traduce nel suo diritto a poter essere responsabile per un altro bambino, o in senso più generale, per l'umanità intera. Ma questa responsabilità è etico-formativa – elevata al massimo grado, vuol dire veramente la creazione dell'opera d'arte. Nel nostro esperimento, il sacrificio della Cappella Sistina non solo sancisce il primato del futuro sul passato, ma ispira per l'ultima volta alla sua essenza di evento poietico e etico, proiettandosi totalmente nel futuro, perdendo ogni traccia con il passato di cui era testimonianza. Il monumento, sacrificatosi per la vita umana, per la promessa insita nel bambino, fa di quest'ultimo la vera promesse de bonheur. Un simile sacrificio dev'essere compreso ovviamente nell'autenticità e radicalità della sua dimensione ontologica, affinché non venga coperto dalla chiacchiera, obliato da una comprensione inautentica, vanificato. Solo così la nostra responsabilità verso il dover essere dell'opera in quanto monumento etico coincide con il sacrificio della stessa, con la responsabilità verso il dover essere del bambino in quanto possibilità etica. A guardar bene questo esperimento mentale, che a prima vista ci pone semplicemente di fronte alla questione (sinceramente, quasi economica) del valore dell'uomo e dell'opera, ci mostra piuttosto il rapporto che c'è tra l'umanità e la sua costante produzione, rapporto che esiste in relazione alla responsabilità ontologica dell'uomo stesso. L'uomo, in quanto per essenza etica forma (azione poietica) e si-forma, è in rapporto di responsabilità verso il dover essere dell'Essere, ossia, verso il proprio aver-da-essere del proprio Esserci (in quanto si forma) e verso il dover essere della propria creazione, ossia la condizione dell'esistenza dell'umanità sotto il segno dell'etica e della ragione. Ogni forma di poiesis non è banalmente espressione di una privata volontà di potenza, ma un processo fondativo già da sempre orientato al futuro (in questo senso, l'opera autentica è costantemente autosuperantesi, secondo il vero senso della volontà di potenza) e all'umanità in quanto oggetto di responsabilità – in ultima istanza, verso la possibilità stessa della responsabilità, della libertà, della creazione.

Alcune obiezioni.

Delle obiezioni potrebbero essere portate avanti, di carattere ontico, volgarmente pragmatico. Il sacrificio di un bambino val bene l'educazione possibile di altre migliaia di giovani? Il sacrificio del bambino è accettabile se questo viene da una famiglia di bassa estrazione sociale o di una cultura estremamente differente, così da essere incapace di apprezzare l'opera e il suo sacrificio? Il sacrificio è accettabile se il bambino è malato? A queste obiezioni, si deve rispondere con un'altra domanda: ha senso ragionare a questo livello? No, non ha senso. Quando cominciamo a fare ragionamenti del genere (es.: «quel bambino è sacrificabile, poiché viene da una famiglia disagiata e non sarà mai in grado di essere degno del sacrificio dell'intera Cappella Sistina» ecc.) scadiamo nell'irrazionale egoistico, in cui diamo ascolto alle preferenze contingenti degli uomini (individui o in gruppo) senza guardare all'essere delle cose. Approcciamo male l'esperimento mentale. Inoltre, ogni ragionamento che ipostatizzi i disagi sociali, le differenze nazionali e così via, sotterrando indebitamente le contingenti differenze dell'ontico alle profondità ontologiche del poter essere, è da rigettare come filosoficamente sbagliato, come classista, razzista e discriminatorio in genere. Nel caso in cui dovessimo scegliere tra l'opera e l'uomo maturo e disagiato, magari dannoso, incapace di quella responsabilità verso l'umanità che abbiamo indicato come quell'aspetto dell'essenza umana che emerge in una simile situazione? La ragione, come ho detto, può portarci a dire cose spiacevoli. Il sacrificio di un monumento capace di formare l'uomo alla ragione sarebbe uno spreco ontologico, se a restare vivo dovesse essere un uomo fondamentalmente controproducente nei confronti del dovere essere umano. Ma in questo caso non stiamo preferendo un oggetto ad un uomo, al contrario – troviamo molta più umanità nella grandezza del monumento che nella bassezza di un uomo. La prospettiva è tra l'altro ben diversa da quella che presenta la fantascienza, per cui può salvare solo una porzione di umanità, che si assicuri della sopravvivenza della specie, e questa porzione dovrà essere la migliore per ovvi motivi: in questo caso bisogna scegliere chi è più adatto a una simile responsabilità, e chi non si salva viene letteralmente retrocesso a prodotto di scarto ontologico, in quanto incapace di prendersi cura dell'umanità, essendo quest'ultima la prerogativa e l'essenza dell'uomo, il suo dover essere. Il recente film The Wandering Earth (2019, Frant Gwo) mostra ad esempio come persino l'intera popolazione del pianeta Terra, in casi estremi, sia sacrificabile, quando il futuro della specie e della biodiversità sono da salvaguardare come fine ultimo.

Troppo vecchio per le proprie vittorie.

Non sono rari i casi, nella cultura pop contemporanea, in cui l'uomo è alle prese con la necessità di un sacrificio per un bene superiore. Mentre l'esempio che abbiamo adottato noi in fondo non comporta nulla di drastico (in fondo, la perdita della Cappella Sistina, per quanto tragica, non elimina il restante sconfinato patrimonio culturale umano – al contrario, il sacrificio di un bambino, soprattutto se filtrato attraverso la comprensione perversa della chiacchiera e dell'inautenticità , può lasciare un segno gravissimo sul nostro modo di guardare l'uomo), ci sono esempi molto interessanti che mostrano come il sacrificio sia una componente inevitabile di ogni tipo di misura drastica, quando la posta in gioco è globale. È il caso oggi più che mai. La vita stessa, la dimensione della Natura che dà senso a quest'ultima, liberando la sua necessità astratta di «scopo» in una molteplicità concreta di «scopi», sensi, logiche, è in pericolo. La catastrofe ecologica va accolta con la massima serietà, nella radicalità della sua minaccia. Se l'Essere, l'evento ontologico fondamentale, è il movimento fondamentale interno alla Natura in quanto si apre a sé stessa, allora l'oblio dell'Essere non ha come suo culmine la tecnocrazia e il banale controllo assoluto della tecnica, la dimenticanza del senso dell'Essere ecc. ma una vera e propria chiusura. Ciò che ora è una Natura libera, redenta nella vita, rischia di tornare nel buio antecedente il pensiero, nel non-Essere radicalmente diverso dall'Essere e dall'ente. La responsabilità dell'uomo nei confronti di quest'apertura passa per il sacrificio dell'uomo stesso, o meglio, dell'uomo per come è stato fin'ora. Le opere dell'uomo, che hanno insegnato a lungo la via etica, si sono quasi completamente sclerotizzate, il mondo dello Spirito si è inaridito, ammutolito. L'uomo contemporaneo, che vive «alla fine dei tempi», è solo, ha completamente su di sé il peso dell'intero proprio Essere. Spesso distinguiamo tra un periodo “platonico” della filosofia, in cui l'Essere è eterno, verticale, e un periodo “storico” (hegeliano), in cui l'Essere è temporale, orizzontale. Crediamo che oggi più che mai il tempo si sia fermato. Gli eventi si accumulano sul limitare di questa storia. La linea della storia compie pochi altri piccoli passi, e ogni passo è un rischio assoluto sullo strapiombo della catastrofe cosmica. La dimensione della temporalità è mutata. Quando affermiamo, insieme a «there is no planet b», che «non c'è più tempo», bisogna intenderlo in senso letterale. La dimensione del tempo non si prest più ad alcun calcolo, ad alcuna procrastinazione, ad alcun controllo. L'Apocalisse non è più una promessa per un futuro, prossimo o lontano, ma incombe come una spada di Damocle sul destino dell'uomo. Mai come oggi l'essere-per-la-morte dell'Esserci dell'umanità intera ci è stato presenta di fronte agli occhi. Ogni forma di negazionismo, di ottimismo, è un disconoscimento insieme di dati scientifici e di una verità ontologica fondamentale. L'uomo non può permettersi (false) speranze di fronte al destino, ma essendo la prospettiva concreta quella del Nulla e della morte, l'unica situazione emotiva concessa è quella dell'angoscia. Ma è per questo che l'uomo deve decidersi, adesso e una volta per tutte, per il suo più più proprio poter essere, vale a dire, per la possibilità stessa della propria esistenza, in quanto responsabilità verso il suo Esserci futuro. Dobbiamo muoverci da una dimensione in cui il futuro riserva esclusivamente il vuoto ad una in cui il futuro è ancora l'orizzonte privilegiato, in cui è possibile qualcosa come l'etica, la responsabilità umana, la vita. Questo significa però che l'uomo deve operare un radicale superamento di sé stesso, sacrificando ciò che ha di più prezioso. L'intero monumento alla storia umana passata, va sacrificato in quest'ottica di autosuperamento dell'uomo e della Natura. La rivoluzione, ancora prima che economica e sociale, dovrà essere antropologica, ontologica. Non stiamo affermando la necessità di “liberarci” di monumenti e patrimonio culturale, ma di superare le idee etiche che hanno determinato l'uomo, spingendolo nella situazione tragica in cui versa ora. Apertis verbis, bisogna abbandonare e superare il modo tradizionale in cui concepiamo l'uomo come essere sociale, politico, economico, morale ecc. Il sistema economico, con i suoi valori (fra tutti, quello assolutamente deleterio di libero mercato), si è rivelato una condanna più che un motore del progresso; la democrazia e lo stato Nazionale sembra non essere all'altezza di questi nuovi compiti epocali; il nostro rapporto con la cultura resta incastrato nell'impasse dell'antinomia tra relativismo tollerante e assolutismo dei diritti umani; gli stessi diritti umani, il cui potenziale emancipatorio è ancora inespresso, devono essere ripensati in ottica globalista, e così via. Se l'essenza di tutto ciò, dell'intero mondo dello Spirito, se il suo dover essere era quello di orizzonte in cui l'umanità potesse formarsi e incamminarsi verso la sua espressione compiuta, rimanere fedeli a questo dover essere, alla luce del suo fallimento, ci impone il suo superamento. Questo significa però dover sacrificare la vita degli uomini per come la conosciamo: dalle condizioni di vita materiali fino alla limitazione della sua sfera di influenza sul mondo e sulla società. La limitazione di certe libertà deleteria aprirà nuovissimi spazi di libertà, congeniali al nuovo essere dell'uomo. Ma stando la salvezza nel momento del maggior pericolo, questa non verrà senza il più grande dolore. E, come insegna Nietzsche, è proprio attraverso la sublimazione del dolore che la necessità gli impone che un popolo nasce, si fonda e si rinnova. Dovranno essere sacrificate vite umane? Non sembra essere il caso, in realtà. Dovranno essere sacrificati modi di vivere? Assolutamente.

In conclusione.

Emerge il senso generale di quanto abbiamo detto. L'umanità come possibilità ha un primato categorico nei confronti di ogni suo prodotto. Il rapporto tra l'uomo e il suo prodotto, ciò che è “umano”, è dialettico, di costante assimilazione e superamento. Superando l'uomo l'attuale declinazione dell'umano, supera sé stesso. Per potersi tenere aperto come poter essere deve rinnovare il proprio Esserci, impedendo che lo sclerotizzazione delle proprie possibilità lo annichilisca. Se la morte di un singolo uomo è un prezzo che l'Essere può pagare (anzi, è proprio nella mortalità degli uomini che esso si manifesta alla coscienza), l'estinzione della vita ha un peso completamente diverso. La vita rivendica il proprio diritto all'essere, e l'uomo è quel momento riflessivo in cui essa può rendersi responsabile per sé stessa. Nella scelta tra l'uomo e l'umano, ricordiamo sempre l'incommensurabilità del primo rispetto al secondo, della radicale distanza tra la storia e il mondo dell'uomo e l'uomo stesso. Il soggetto ha bisogno di riconoscersi nella sostanza del proprio mondo – ma una vera etica emancipatoria è possibile solo attraverso il salto nella «notte del mondo» della pura soggettività, ovvero della pura possibilità esistenziale, viva e sempre autosuperantesi – nell'abisso della volontà di potenza. Diis bene iuvantibus.


Sudan Dusk, Ol Pejeta Conservancy, Kenya, settembre 2015 - Anne de Carbuccia.


«Ho trascorso due giorni con lui, dall'alba al tramonto, osservando la sua gentilezza e sentendo la sua solitudine.
Una specie, la sua, sopravvissuta a milioni di anni e a tutte le evoluzioni, ma decimata in un solo decennio dalle guerre, dalla perdita di habitat e dal bracconaggio per il suo corno.
Sudan è il simbolo estremo del disprezzo umano per la natura. Lo farò vivere per sempre.
Sudan, l'ultimo maschio di rinoceronte bianco settentrionale del pianeta, è morto il 19 marzo 2018.»








i Ciò non può essere ridotto a mera ideologia: è spesso la spinta etica che ci conduce ad una critica radicale e autentica della cultura, del sistema ecc.
iii Di certo non sacrificheremmo un bambino per una meta turistica...
iv Questa non è una vera e propria conclusione. Vale piuttosto come “postulazione per assurdo”: rifiutando questo postulato, ossia l'esistenza dell'uomo, si rifiuta anche la sua spinta etica, che però c'è, e dunque chiede che l'uomo sia. Il dover esistere dell'uomo si fonda sull'essenza stessa dell'uomo. A differenza però della prospettiva spinoziana, che non contempla il suicidio, la nostra fa riferimento all'uomo come umanità totale. Nel momento in cui l'umanità decide per il proprio annichilimento, decide contro il proprio essere responsabile nei confronti dell'Essere – responsabilità che gli appartiene irrevocabilmente.

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