Il bambino, la Cappella Sisitina, l'Essere - un esperimento etico.
L'esperimento.
Esiste
un esperimento mentale, nell'ambito della filosofia etica, che mette
alla prova il nostro dare giudizio di valore alle cose e alle
persone. Suona più o meno così: «poniamo
il caso che la Cappella Sistina sia vittima di un incendio, e un
bambino sia rimasto intrappolato al suo interno. Se chiamiamo
tempestivamente i pompieri potremo salvare la Cappella, ma il bambino
morirà; al contrario, se decideremo di salvare il bambino, non
faremo in tempo a chiamare i pompieri e la Cappella sarà perduta per
sempre». Al di là delle forzature tecniche, non è un esperimento
mentale assurdo. Ad esempio, non è difficile immaginare un
terrorista che costringa a scegliere tra la vita di qualcuno e la
salvezza di un importante patrimonio culturale – in questo caso, le
implicazioni politiche complicherebbero ulteriormente il discorso,
mentre la prima forma in cui abbiamo posto l'esperimento
(l'accidentalità dell'incendio ecc.) lo rende abbastanza puro e
scevro di implicazioni aggiuntive.
Innanzitutto,
in base a cosa compiamo la nostra scelta? In quanto si tratta di un
esperimento mentale, si suppone che dobbiamo rispondere secondo
ragione. Emotivamente parlando, la madre del bambino non avrebbe
dubbi sulla sua scelta, mentre qualcuno che abbia speso decenni di
studi nella completa devozione per la grandezza del genio umano,
potrebbe preferire l'irripetibile Cappella Sistina alla banalità di
una vita umana. In entrambi i casi, non è la ragione a parlare, ma
il sentimento, l'affetto. Ma noi dobbiamo rispondere a queste
questioni razionalmente. Innanzitutto: quando preferiamo qualcosa
rispetto a qualcos'altro, in base a cosa la preferiamo? In base a una
serie di metri di giudizio variabili, ognuno adeguato ad un oggetto e
alla circostanza. La scelta non ci è indifferente poiché ogni cosa
è più o meno adeguata alla nostra richiesta, alle nostre pretese,
al nostro fine. Non si preferisce mai senza alcun interesse verso gli
oggetti della nostra preferenza, o più precisamente, senza una
prospettiva che rende interessante questi oggetti, prospettiva che è
l'orizzonte di comprensione in cui sono già formulati giudizi di
valore.
Ogni valore ha un diritto, ossia richiede il nostro impegno per esso,
una presa di responsabilità.
Dobbiamo
però escludere ogni prospettiva soggettiva ed emotiva. Là dove
consultiamo l'emozione infatti, la nostra scelta è oggettivamente
indifferente, ma ha un peso soggettivo: la madre che salva il bambino
non vede con che peso la perdita di un tale patrimonio culturale può
gravare sull'umanità; lo studioso di prima (che si suppone non abbia
compiuto già questo esperimento mentale e non agisca secondo una
massima pienamente razionale, ma guidato da un generico sentimento di
venerazione verso la cultura) non vede invece come la preferenza di
un oggetto a una vita compia una pesante interpretazione della vita
umana stessa – ciò che interessa è la soddisfazione della
prospettiva personale. Al contrario, quando interpelliamo la ragione,
la nostra scelta è soggettivamente indifferente (con buona pace di
Spinoza e di coloro che legano ratio
e beatitudo,
la ragione può imporre cose spiacevoli, ed è un peso da
sopportare), oggettivamente di capitale importanza. Dobbiamo
chiederci: in base a cosa la ragione preferisce? Qual è la sua
prospettiva, il suo metro di giudizio? Quali sono, in ultimo, i suoi
valori?
Ci sono evidentemente questioni che per loro natura non ha senso che
siano sottoposte alla ragione, tutte le questioni riguardanti il
gusto e la preferenza soggettiva. Non ha senso scegliere
razionalmente il gusto della pizza che preferiamo stasera, né quale
mostra d'arte visitare per il puro piacere estetico (diverso è il
caso dello studio – in quel caso la ragione ci impone ciò che
oggettivamente ci fa bene, magari anche contro la nostra attuale
inclinazione emotiva). Queste questioni sono letteralmente
incomprensibili da un punto di vista diverso da quello del soggetto
che preferisce e decide. Le questioni razionali, si badi bene, non
sono semplicemente questioni che “riguardano tutti” (quante
preferenze collettive sono state e sono tutt'ora estremamente
irrazionali!), ma questioni che vanno risolte al di là
dell'interesse soggettivo di una, più o tutte le persone. Se nelle
questioni soggettive la prospettiva valoriale è soggettiva, nelle
questioni oggettive dobbiamo soddisfare le richieste di una
prospettiva oggettiva, che faccia valere il diritto di valori
oggettivi.
Valori
ontologici.
Com'è
possibile un valore oggettivo? Sembra (e sembra soltanto) infatti
quasi ridicolo,
dopo Nietzsche e il nichilismo in generale, sostenere qualcosa come
un valore che non dipenda dall'arbitrio e dalla libera volontà
soggettivi. Se nella filosofia classica l'Essere
si limitava ad essere, poiché, stando il Bene al di là dell'Essere,
l'Essere era (è) e non poteva (non può) che essere, oggi
l'ontologia ha scisso radicalmente l'Essere e il dover essere
dell'Essere: non c'è alcun motivo per cui l'Essere debba essere, e
ogni dover essere risulta assolutamente fittizio. In questo senso,
non ci può essere alcun oggetto che per il suo stesso essere abbia un
valore oggettivo tale da rivendicare dei diritti
nei confronti di un soggetto. Ne Il
principio responsabilità
ad esempio Hans Jonas tenta di risolvere l'impasse
mostrando come l'incompletezza ontologica della Natura interpelli
direttamente l'Esserci nella sua responsabilità nei confronti
dell'Essere: la Natura, pur non essendo teleologica, funziona secondo
schemi che producono scopi, e la vita (la biosfera) in ultimo non è
che la liberazione della “necessità di scopo” della Natura nella
molteplicità degli scopi specifici che danno senso all'essere degli
esseri viventi. Per quanto complicato sia affermare che abbiamo delle
responsabilità nei confronti di certi esseri, per cui dobbiamo
impegnarci verso il loro dover essere in quanto valori, il fatto
stesso che riteniamo che certe questioni necessitino di qualcosa di
più di un semplice gusto, ci fornisce un dato importante. Sia pure
l'idea di oggettività (etica, ovviamente) un'illusione, una
maschera, il frutto della volontà di potenza ecc. certe questioni
comunque non potranno mai essere affrontate senza lo scrupolo che da
questa idea scaturisce: «starò facendo/avrò fatto la cosa
giusta?». L'esistenza stessa dell'etica lo prova.i
Come il soggetto puro ha necessità di riconoscersi come fatto della
stessa sostanza del mondo, così il suo comportamento etico vuole
poter difendere rivendicare la propria legittimità al tribunale
dell'Essere. Ogni visione di questo genere comprende l'Essere come da
una parte indipendente dal soggetto, dall'altra come capace di
pretendere dal soggetto stesso. Il rapporto di coappartenenza tra
Essere e Esserci (che è poi l'essenza dell'uomo) è, in altre
parole, il presupposto per ogni comportamento etico e razionale. La
ragione può quindi formulare e comprendere valori oggettivi (fino
all'Essere come valore), e la prospettiva dev'essere in grado di: da
una parte, mantenere aperta la dimensione razionale della preferenza;
dall'altra, rispettare i diritti rivendicati dall'essere dell'oggetto
in questione in quanto avente valore in sé. In questo senso, la
ragione deve seguire il «Bene in sè», non nel senso classico (nel
senso platonico
dell'Ἔρως),
ma nel senso che ha da essere il compimento del dover essere
dell'Essere.
Ma
concretamente, come ci si rende responsabili verso l'Essere?
Innanzitutto, mantenendo aperta la dimensione della razionalità,
ossia della tensione etica, della responsabilità verso l'Essere
stesso. In questo senso la ragione deve tenere l'uomo nella massima
considerazione, e non nella sua singola esistenza (si può affermare
che, oggettivamente, ci sono vite che valgono più di altre), ma come
possibilità stessa della razionalità, come preferenza del razionale
stesso. In secondo luogo, comprendendo i diritti oggettivi di ogni
oggetto, ossia secondo il suo essere, conoscendone l'essere e il
dover essere, il valore ecc. I due momenti si muovono in maniera
assolutamente parallela. Solo conoscendo l'essere di un oggetto
possiamo preferire a favore di ciò che favorisce la ragione stessa,
e solo favorendo tenendo aperto l'orizzonte razionale, possiamo dare
un senso alla nostra preferenza.
Il
bambino e il monumento.
Possiamo
quindi tentare una risposta al quesito iniziale: il bambino o la
Cappella Sistina? Rispetto all'essere del bambino e della Cappella
Sistina, quale dei due ha più valore nei confronti della razionalità
(come cura etica dell'Essere)? Quali sono i diritti oggettivi
rivendicati dall'uno e dall'altro?
Il
bambino.
Qual è l'essere del bambino, razionalmente? Esso è un essere
assolutamente non autosufficiente, immaturo, un essere che incarna,
forse più di ogni altro, le rivendicazioni del dover essere e la
richiesta di responsabilità. In questo senso possiamo considerarlo
alla stregua di una poter essere puro, che va preferito in quanto
“rappresentante” dell'intera umanità in quanto possibilità.
Questa sembra essere anche la posizione di Jonas: il bambino è
oggetto archetipico dell'appello dell'Essere alla responsabilità
dell'Esserci, e in quanto tale va preferito. Possiamo suggerire che,
lasciando morire il bambino, lasceremmo un segno indelebile nella
generale comprensione della vita umana in quanto possibilità futura,
sacrificandola a favore della conservazione di un passato
ipostatizzato che in quanto passato ha più diritto della possibilità
pura futura. Sacrificare il bambino potrebbe rivelarsi un atto di
puro conservatorismo, che pone la dimensione materiale del sistema al
di sopra delle possibilità umane. Fin'ora la Cappella Sistina non è
stata preferita ad alcun bambino, ma pare che il mondo abbia comunque
intrapreso questa rotta. Le parole di Greta Thunberg esprimono
esattamente questa gravissima irresponsabilità del sistema attuale
nei confronti del futuro dell'umanità.
«You
lied to us. You gave us false hope. You told us that the future was
something to look forward to. And the saddest thing is that most
children are not even aware of the fate that awaits us. We will not
understand it until it’s too late. And yet we are the lucky ones.
Those who will be affected the hardest are already suffering the
consequences. But their voices are not heard. […] You don’t
listen to the science because you are only interested in solutions
that will enable you to carry on like before. Like now. And those
answers don’t exist any more. Because you did not act in time.»ii
L'essere
del bambino è in questo senso la pura possibilità etica,
nel senso etimologico del termine, da ἦϑος: affine a quella di
habitus,
l'idea di etica è quella di un processo di formazione e
autoformazione, tensione verso la virtù, espressione dell'uomo nella
totalità della sua umanità. Ogni bambino, dal momento in cui è
messo al mondo, richiede “ontologicamente”, a chi ascolta con le
“orecchie della ragione”, di essere formato in modo che sia in
grado di assumere la responsabilità più alta. Ogni fallimento in
questo processo di formazione pone l'uomo in uno stato, pur parziale
e minimo, di non-essere. Considerando l'incapacità radicale del
sistema attuale nei confronti delle proprie responsabilità
(storiche, ontologiche ecc.: si pensi all'inadeguatezza dell'uomo di
fronte alla catastrofe ecologica, di fronte alle migrazioni di massa,
alla povertà ecc.), dobbiamo concludere che quasi tre millenni di
educazione, nonostante i successi (che ci permettono di renderci
conto di ciò), abbiano in sostanza fallito. E se dunque il bambino è
quel puro poter essere avente diritto alla sua massima formazione
etica, qual è il suo valore circa il destino della razionalità
stessa – in altre parole, in che senso salvare il bambino può
essere l'atto che giustifica sé stesso?
Il
monumento.
La Cappella Sistina è il monumento
alla grandezza passata, l'opera d'arte inesauribile che ancora nel
presente può rinnovare la propria carica poietica e etica
originaria, secondo il suo essere (in questa accezione la si
considera nell'esperimento mentale). Senza addentrarci in una
impossibilmente complessa trattazione sulla proiezione etica verso il
futuro che l'opera d'arte ha in quanto
promesse
de bonheur,
bisogna notare come l'essere dell'opera in quanto preferita a una
vita (secondo il senso ontologico su descritto) è assolutamente
complementare al bambino. Se infatti il bambino è da formarsi,
l'opera, il monumento, ha proprio il ruolo e il massimo potere
formativo. Il monumento è in questo senso un oggetto etico, non
estetico, e in quanto tale è stato considerato per moltissimi secoli
invero. La Bellezza, da Platone in avanti (al di là delle sue
diffidenze epistemologiche nei confronti dell'arte), ha sempre avuto
il ruolo di educare sentimentalmente l'uomo alla morale e alla
ragione. Dalla Cappella Sistina come Biblia
pauperum
ai quadri politici di Jacques-Louis David, l'arte è sempre stato
anche il mezzo con cui l'uomo razionale torna nella caverna dopo aver
fatto esperienza dell'Essere e del Bene. Ma c'è un problema: la
Cappella Sistina, come qualsiasi altro monumento, pur nel suo sublime
potenziale formativo, non può assumersi quella responsabilità
formativa che il bambino richiede. Il bambino ha bisogno di una
madre, una famiglia, tutt'al più di una comunità umana che lo
introduca nell'orizzonte (innanzitutto linguistico) di comprensione
umano, che lo formi secondo il suo essere; posto di fronte alla più
sublime delle opere, senza quell'orizzonte ermeneutico
umano, questa gli resterà muta. Sta all'uomo (all'educatore) tenere
aperto il potenziale formativo dell'opera in una sua comprensione
autentica. Perché allora salveremmo la Cappella Sistina, o un
qualsiasi altro monumento alle possibilità di fioritura del bocciolo
che è l'essere umano, se non perché confidiamo nella possibilità
formativa dell'opera, nei confronti della quale l'umanità tutta è
sempre infante?iii
Il diritto che il monumento rivendica è in netto contrasto col
sacrificio del bambino?
Il
sacrificio dell'Opera.
Apparentemente.
Il problema non cade se al posto del bambino consideriamo un adulto.
È vero che così l'esperimento mentale si limita a paragonare il
valore di un essere umano con il valore di un'opera d'arte. Bisogna
però notare che il senso del bambino in quanto poter essere regge
solo se presupponiamo che il bambino debba poi restare vivo. Se
dovesse morire appena giunto a maturità, tutti gli sforzi formativi
sarebbero stati vani. Dunque l'uomo deve essere.iv
In-quanto-cosa,
rispetto al monumento, salviamo l'uomo? L'uomo dev'essere salvato in
quanto il suo valore è incommensurabile rispetto a un qualsiasi
altro oggetto, sia quantitativamente che qualitativamente.
L'orizzonte in cui si coglie il valore dell'uomo e quindi il suo
dover essere è infatti il più fondamentale e fondante di tutti.
Obliando, con la nostra responsabilità verso l'uomo, il valore
stesso di ciò per cui abbiamo sacrificato l'uomo, ci troveremmo con
un cadavere da una parte e una parete affrescata incapace di dire più
nulla dall'altra. Ogni delitto contro l'umanità, in questo senso,
impoverisce il«mondo dello Spirito» – ma alla stessa maniera,
ogni violenza contro lo Spirito è un delitto contro l'umanità. Il
bambino chiede, secondo il suo essere, di essere formato secondo
ragione, in modo da essere
completamente, ed essendo assumere la responsabilità stessa
dell'Essere. Ma questo significa che il diritto del bambino a
diventare maturo nel senso più compiuto si traduce nel suo diritto a
poter essere responsabile per un altro bambino, o in senso più
generale, per l'umanità intera. Ma questa responsabilità è
etico-formativa – elevata al massimo grado, vuol dire veramente la
creazione dell'opera d'arte. Nel nostro esperimento, il sacrificio
della Cappella Sistina non solo sancisce il primato del futuro sul
passato, ma ispira per l'ultima volta alla sua essenza di evento
poietico e etico, proiettandosi totalmente nel futuro, perdendo ogni
traccia con il passato di cui era testimonianza. Il monumento,
sacrificatosi per la vita umana, per la promessa insita nel bambino,
fa di quest'ultimo la vera promesse
de bonheur.
Un simile sacrificio dev'essere compreso ovviamente nell'autenticità
e radicalità della sua dimensione ontologica, affinché non venga
coperto dalla chiacchiera, obliato da una comprensione inautentica,
vanificato. Solo così la nostra responsabilità verso il dover
essere dell'opera in quanto monumento etico coincide con il
sacrificio della stessa, con la responsabilità verso il dover essere
del bambino in quanto possibilità etica. A
guardar bene questo esperimento mentale, che a prima vista ci pone
semplicemente di fronte alla questione (sinceramente, quasi
economica) del valore dell'uomo e dell'opera, ci mostra piuttosto il
rapporto che c'è tra l'umanità e la sua costante produzione,
rapporto che esiste in relazione alla responsabilità ontologica
dell'uomo stesso. L'uomo, in quanto per essenza etica forma (azione
poietica) e si-forma, è in rapporto di responsabilità verso il
dover essere dell'Essere, ossia, verso il proprio aver-da-essere del
proprio Esserci (in quanto si forma) e verso il dover essere della
propria creazione, ossia la condizione dell'esistenza dell'umanità
sotto il segno dell'etica e della ragione. Ogni forma di poiesis
non è banalmente espressione di una privata volontà di potenza, ma
un processo fondativo già da sempre orientato al futuro (in questo
senso, l'opera autentica è costantemente autosuperantesi, secondo il
vero senso della volontà di potenza) e all'umanità in quanto
oggetto di responsabilità – in ultima istanza, verso la
possibilità stessa della responsabilità, della libertà, della
creazione.
Alcune
obiezioni.
Delle
obiezioni potrebbero essere portate avanti, di carattere ontico,
volgarmente pragmatico. Il sacrificio di un bambino val bene
l'educazione possibile di altre migliaia di giovani? Il sacrificio
del bambino è accettabile se questo viene da una famiglia di bassa
estrazione sociale o di una cultura estremamente differente, così da
essere incapace di apprezzare l'opera e il suo sacrificio? Il
sacrificio è accettabile se il bambino è malato? A queste
obiezioni, si deve rispondere con un'altra domanda: ha senso
ragionare a questo livello? No, non ha senso. Quando cominciamo a
fare ragionamenti del genere (es.: «quel bambino è sacrificabile,
poiché viene da una famiglia disagiata e non sarà mai in grado di
essere degno del sacrificio dell'intera Cappella Sistina» ecc.)
scadiamo nell'irrazionale egoistico, in cui diamo ascolto alle
preferenze contingenti degli uomini (individui o in gruppo) senza
guardare all'essere delle cose. Approcciamo male l'esperimento
mentale. Inoltre, ogni ragionamento che ipostatizzi i disagi sociali,
le differenze nazionali e così via, sotterrando indebitamente le
contingenti differenze dell'ontico alle profondità ontologiche del
poter essere, è da rigettare come filosoficamente sbagliato, come
classista, razzista e discriminatorio in genere. Nel caso in cui
dovessimo scegliere tra l'opera e l'uomo maturo e disagiato, magari
dannoso, incapace di quella responsabilità verso l'umanità che
abbiamo indicato come quell'aspetto dell'essenza umana che emerge in
una simile situazione? La ragione, come ho detto, può portarci a
dire cose spiacevoli. Il sacrificio di un monumento capace di formare
l'uomo alla ragione sarebbe uno spreco ontologico, se a restare vivo
dovesse essere un uomo fondamentalmente controproducente nei
confronti del dovere essere umano. Ma in questo caso non stiamo
preferendo un oggetto ad un uomo, al contrario – troviamo molta più
umanità nella grandezza del monumento che nella bassezza di un uomo.
La prospettiva è tra l'altro ben diversa da quella che presenta la
fantascienza, per cui può salvare solo una porzione di umanità, che
si assicuri della sopravvivenza della specie, e questa porzione dovrà
essere la migliore per ovvi motivi: in questo caso bisogna scegliere
chi è più adatto a una simile responsabilità, e chi non si salva
viene letteralmente retrocesso a prodotto di scarto ontologico, in
quanto incapace di prendersi cura dell'umanità, essendo quest'ultima
la prerogativa e l'essenza dell'uomo, il suo dover essere. Il recente
film The
Wandering Earth
(2019, Frant Gwo) mostra ad esempio come persino l'intera popolazione
del pianeta Terra, in casi estremi, sia sacrificabile, quando il
futuro della specie e della biodiversità sono da salvaguardare come
fine ultimo.
Troppo
vecchio per le proprie vittorie.
Non
sono rari i casi, nella cultura pop contemporanea, in cui l'uomo è
alle prese con la necessità di un sacrificio per un bene superiore.
Mentre l'esempio che abbiamo adottato noi in fondo non comporta nulla
di drastico (in fondo, la perdita della Cappella Sistina, per quanto
tragica, non elimina il restante sconfinato patrimonio culturale
umano – al contrario, il sacrificio di un bambino, soprattutto se
filtrato attraverso la comprensione perversa della chiacchiera e
dell'inautenticità , può lasciare un segno gravissimo sul nostro
modo di guardare l'uomo), ci sono esempi molto interessanti che
mostrano come il sacrificio sia una componente inevitabile di ogni
tipo di misura drastica, quando la posta in gioco è globale. È il
caso oggi più che mai. La vita stessa, la dimensione della Natura
che dà senso a quest'ultima, liberando la sua necessità astratta di
«scopo»
in una molteplicità concreta di «scopi», sensi, logiche, è in
pericolo. La catastrofe ecologica va accolta con la massima serietà,
nella radicalità della sua minaccia. Se l'Essere, l'evento
ontologico fondamentale, è il movimento fondamentale interno alla
Natura in quanto si apre
a sé stessa, allora l'oblio dell'Essere non ha come suo culmine la
tecnocrazia e il banale controllo assoluto della tecnica, la
dimenticanza del senso dell'Essere ecc. ma una vera e propria
chiusura.
Ciò che ora è una Natura libera,
redenta nella vita, rischia di tornare nel buio antecedente il
pensiero, nel non-Essere radicalmente diverso dall'Essere e
dall'ente. La responsabilità dell'uomo nei confronti di
quest'apertura passa per il sacrificio dell'uomo stesso, o meglio,
dell'uomo per come è stato fin'ora. Le opere dell'uomo, che hanno
insegnato a lungo la via etica, si sono quasi completamente
sclerotizzate, il mondo dello Spirito si è inaridito, ammutolito.
L'uomo contemporaneo, che vive «alla fine dei tempi», è solo, ha
completamente su di sé il peso dell'intero proprio Essere. Spesso
distinguiamo tra un periodo “platonico” della filosofia, in cui
l'Essere è eterno, verticale, e un periodo “storico”
(hegeliano), in cui l'Essere è temporale, orizzontale. Crediamo che
oggi più che mai il tempo si sia fermato. Gli eventi si accumulano
sul limitare di questa storia. La linea della storia compie pochi
altri piccoli passi, e ogni passo è un rischio assoluto sullo
strapiombo della catastrofe cosmica. La dimensione della temporalità
è mutata. Quando affermiamo, insieme a «there is no planet b», che
«non c'è più tempo», bisogna intenderlo in senso letterale. La
dimensione del tempo non si prest più ad alcun calcolo, ad alcuna
procrastinazione, ad alcun controllo. L'Apocalisse non è più una
promessa per un futuro, prossimo o lontano, ma incombe come una spada
di Damocle sul destino dell'uomo. Mai come oggi l'essere-per-la-morte
dell'Esserci dell'umanità intera ci è stato presenta di fronte agli
occhi. Ogni forma di negazionismo, di ottimismo, è un
disconoscimento insieme di dati scientifici e di una verità
ontologica fondamentale. L'uomo non può permettersi (false) speranze
di fronte al destino, ma essendo la prospettiva concreta quella del
Nulla e della morte, l'unica situazione emotiva concessa è quella
dell'angoscia. Ma è per questo che l'uomo deve decidersi, adesso e
una volta per tutte, per il suo più più proprio poter essere, vale
a dire, per la possibilità stessa della propria esistenza, in quanto
responsabilità verso il suo Esserci futuro. Dobbiamo muoverci da una
dimensione in cui il futuro riserva esclusivamente il vuoto ad una in
cui il futuro è ancora l'orizzonte privilegiato, in cui è possibile
qualcosa come l'etica, la responsabilità umana, la vita. Questo
significa però che l'uomo deve operare un radicale superamento di sé
stesso, sacrificando ciò che ha di più prezioso. L'intero monumento
alla storia umana passata, va sacrificato in quest'ottica di
autosuperamento dell'uomo e della Natura. La rivoluzione, ancora
prima che economica e sociale, dovrà essere antropologica,
ontologica. Non stiamo affermando la necessità di “liberarci” di
monumenti e patrimonio culturale, ma di superare le idee etiche che
hanno determinato l'uomo, spingendolo nella situazione tragica in cui
versa ora. Apertis
verbis,
bisogna abbandonare e superare il modo tradizionale in cui concepiamo
l'uomo come essere sociale, politico, economico, morale ecc. Il
sistema economico, con i suoi valori (fra tutti, quello assolutamente
deleterio di libero
mercato),
si è rivelato una condanna più che un motore del progresso; la
democrazia e lo stato Nazionale sembra non essere all'altezza di
questi nuovi compiti epocali; il nostro rapporto con la cultura resta
incastrato nell'impasse
dell'antinomia tra relativismo tollerante e assolutismo dei diritti
umani; gli stessi diritti umani, il cui potenziale emancipatorio è
ancora inespresso, devono essere ripensati in ottica globalista, e
così via. Se l'essenza di tutto ciò, dell'intero mondo dello
Spirito, se il suo dover essere era quello di orizzonte in cui
l'umanità potesse formarsi e incamminarsi verso la sua espressione
compiuta, rimanere fedeli a questo dover essere, alla luce del suo
fallimento, ci impone il suo superamento. Questo significa però
dover sacrificare la vita degli uomini per come la conosciamo: dalle
condizioni di vita materiali fino alla limitazione della sua sfera di
influenza sul mondo e sulla società. La limitazione di certe libertà
deleteria aprirà nuovissimi spazi di libertà, congeniali al nuovo
essere dell'uomo. Ma stando la salvezza nel momento del maggior
pericolo, questa non verrà senza il più grande dolore. E, come
insegna Nietzsche, è proprio attraverso la sublimazione del dolore
che la necessità gli impone che un popolo nasce, si fonda e si
rinnova. Dovranno essere sacrificate vite umane? Non sembra essere il
caso, in realtà. Dovranno essere sacrificati modi di vivere?
Assolutamente.
In
conclusione.
Emerge
il senso generale di quanto abbiamo detto. L'umanità come
possibilità ha un primato categorico nei confronti di ogni suo
prodotto. Il rapporto tra l'uomo e il suo prodotto, ciò che è
“umano”, è dialettico, di costante assimilazione e superamento.
Superando l'uomo l'attuale declinazione dell'umano, supera sé
stesso. Per potersi tenere aperto come poter essere deve rinnovare il
proprio Esserci, impedendo che lo sclerotizzazione delle proprie
possibilità lo annichilisca. Se la morte di un singolo uomo è un
prezzo che l'Essere può pagare (anzi, è proprio nella mortalità
degli uomini che esso si manifesta alla coscienza), l'estinzione
della vita ha un peso completamente diverso. La vita rivendica il
proprio diritto all'essere, e l'uomo è quel momento riflessivo in
cui essa può rendersi responsabile per sé stessa. Nella scelta tra
l'uomo e l'umano, ricordiamo sempre l'incommensurabilità del primo
rispetto al secondo, della radicale distanza tra la storia e il mondo
dell'uomo e l'uomo stesso. Il soggetto ha bisogno di riconoscersi
nella sostanza del proprio mondo – ma una vera etica emancipatoria
è possibile solo attraverso il salto nella «notte del mondo» della
pura soggettività, ovvero della pura possibilità esistenziale, viva
e sempre autosuperantesi – nell'abisso della volontà di potenza.
Diis
bene iuvantibus.
i Ciò
non può essere ridotto a mera ideologia: è spesso la spinta etica
che ci conduce ad una critica radicale
e autentica
della cultura, del sistema ecc.
iii Di certo non sacrificheremmo un bambino per una meta turistica...
iv Questa non è una vera e propria conclusione. Vale piuttosto come “postulazione per assurdo”: rifiutando questo postulato, ossia l'esistenza dell'uomo, si rifiuta anche la sua spinta etica, che però c'è, e dunque chiede che l'uomo sia. Il dover esistere dell'uomo si fonda sull'essenza stessa dell'uomo. A differenza però della prospettiva spinoziana, che non contempla il suicidio, la nostra fa riferimento all'uomo come umanità totale. Nel momento in cui l'umanità decide per il proprio annichilimento, decide contro il proprio essere responsabile nei confronti dell'Essere – responsabilità che gli appartiene irrevocabilmente.
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