Appunti di Ermeneutica Filosofica - Nietzsche e Heidegger: la volontà di potenza e l'esserci autentico

«È notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. Ed anche la mia anima è una fontana zampillante.
«È notte: ora soltanto si destano tutte le canzoni degli amanti. Ed anche la mia anima è la canzone d’un amante.
«C’è in me qualche cosa di non appagato e di non appagabile, che vuol farsi sentire. C’è in me un desiderio d’amore che parla, esso stesso, il linguaggio dell’amore.
«Io sono luce; ah, foss’io notte! Ma questa è la mia solitudine ch’io sono cinto di luce.

Ecce Homo



Preliminari metafisici.

1
La chiamata della coscienza non dà appiglio alla chiacchiera – ma altrimenti può essere pervertita. Essa è un discorso, non una facoltà dell'anima – è il discorso più originario dell'Esserci, dicente il nulla – nota: in Nietzsche gli istinti precedono ontologicamente l'anima. La chiamata sospinge nell'insignificanza il Si – essa è pathos della distanza. Nella chiamata la coscienza tace – è il silenzio più pesante di ogni parola. Le parole, infatti, sono maschere, e sono superficiali. La chiamata non è progettata: l'Esserci è gettato nella chiamata. Essa viene dalla lontananza, dal fondo del nostro esser-gettato, ma anche da sopra di me. L'Esserci è gettato nell'esistenza. Come si diventa quindi ciò che si è? (v.260 Al di là del bene e del male: l'aristocratico è ciò che è in sé fondamento: qual è l'istinto a essere il fondamento, al bastare a sé stessi, al non chiedere alcuna trascendenza? Tale istinto si manifesta nella chiamata. L'essere più proprio è proprio essere un Esserci – assumere il Ci gettato dell'Esserci. Quale istinto muove nella chiamata? Quale indomabile agire senza progetto? La chiamata è l'istinto che, dicendo il nulla, isola nell'autarchia ontologica l'Esserci – questo è fondamentalmente pathos della distanza. In questo senso, la volontà di potenza è un prendere le distanze dal mondo, scoprendolo come un nulla – come la tela su cui dipingere il proprio volere.

2
Se l'Esserci che è fondamento di ogni senso del mondo, è infondato, il mondo stesso è infondato, ossia: sarà nullo, non ha più nulla da dire. Solo a questo punto è l'autentico a dire, a forgiare valori.
Cos'è lo spaesamento? L'Esserci in quanto chiamante è l'Esserci nel suo essere spaesato, nel non sentirsi più a casa propria – ma l'aristocratico non ha bisogno di un cantuccio, ama le vette ostiche, l'alto mare: l'aristocratico è nomade, conquistatore, non stabile, sempre oltre sé stesso. Lo spaesamento è sì nichilismo (ma nota che se il nichilismo viene dalla morte di Dio, non può essere una condizione originaria, forse – o comunque, se è condizione originaria nella sostanza assume la forma di nichilismo solo a posteriori), ma è la condizione della coscienza come comprensione nullificante. Ogni comprensione realmente nullificante demolisce templi e idoli, ma sempre per far spazio a qualcosa – è questo lo spazio che l'aristocrate abita. La chiamata richiama al silenzio del poter-essere esistente. Tale è Achille, che si ritrae in sdegnoso silenzio prima di scegliere il suo più proprio poter-essere. Ma tale è anche Zarathustra che insegna la solitudine. La chiamata viene dallo spaesamento come richiamante indietro chiamante innanzi.

3
Qual è la colpa dell'Esserci? E in termini nietzschiani, la colpa antica è quella morale – ma in termini istintuali? Qual è l'istinto della colpa? O meglio, la colpa è il pervertimento di quale istinto su sé stesso? È un istinto deluso, frustrato, che si da la propria colpa per poter essere espiato -e Cristo, che vuole espiare le colpe degli uomini, vuole costringerli ad un amore che non provano. La colpa è una vendetta degli istinti deboli. In Heidegger l'Esserci è colpevole per il sol fatto di esistere. L'esser colpevole è un “è colpa mia se...”, dunque l'esser fondamento di una mancanza. Il modo di esser fondamento dell'Esserci è quello di non poter diventare quel fondamento che l'Esserci è chiamato ad essere, nel senso, quello di non poter fondarsi. L'esser nullo fondamento di una nullità. (v. p.337-338 S u Z) Nota: l'esser colpevole e l'esser fondamento che significano? La colpa ontica è un prodotto culturale, non certo ontologico. In Nietzsche in che risiede? E in Heidegger? Nella libertà-di e nella libertà-da. Il fondamento ontologico dell'agire libero-di è l'istinto, che è possibile su quello ontologico dell'agire libero-da, che è la nullità, il nichilismo, la gettatezza del Ci. L'Esserci non si è gettato d solo. Solo esistendo è il fondamento del poter-essere. Ha da esser-fondamento. Tale essere dal e per il fondamento è nichilismo agente. Ma l'esser gettato non possiede le proprie possibilità, non può che nullificare quelle in cui è gettato – l'anima nobile che forgia valori crea invece queste possibilità. È per questo ancora “più potente” dell'autentico heideggeriano? In un senso sì, ma se si considera che egli le crea a partire da sé stesso, e non può che esser gettato... L'Esserci non è fondamento del suo essere, ma l'essere del fondamento. La colpa vuole responsabilità e possesso sulle proprie azioni. Ognuna di queste è un non. La nullità del progetto fonda l'esser-libero del progetto, dell'Esserci. La libertà è esser-libero-di-non. Cura: nullo esser-fondamento di una nullità.

4
L'esser-colpevole è fondamento della moralità in generale. (p.341-342) Ma in Nietzsche cos'è la moralità? Cosa presuppone dunque la moralità? In Heidegger, l'esser-colpevole, in Nietzsche: storicamente, un processo di “martellamento” dell'anima, un reprimere e rimuovere secoli di sofferenza; metafisicamente, quale istinto? L'istinto al sopportare, ossia: quanto meno può sopportare l'uomo che si corrompe nella moralità rispetto all'anima nobile? Ma cosa si deve sopportare? L'esistenza stessa naturalmente. La moralità è, come ogni volontà di potenza – ma come del resto ogni interpretazione coprente – un rimedio al nichilismo, al soccombere. A tal proposito vedi anche la prima delle Operette morali di Leopardi. I valori hanno tutti la stessa origine: l'abisso dell'esistenza. L'aristocrate crea valori sul nulla dell'esistenza (non a caso la rete di valori e nomi è sempre come le palafitte...), consapevole di questo nulla e della responsabilità che viene da un tale forgiare valori sul nulla. E dice: io ho creato questi valori – prima di me non v'era nulla, ora ci sono io. Ma il servo non ha questa forza, e si accontenta della “versione sclerotizzata” di ciò che gli dà, ossia gli impone, l'aristocratico. Ma quando il servo se ne rendo conto, ecco che ribalta. Non è più lui ad esistere al di là del bene e del male, ma l'aristocratico, che è peccatore, che è malvagio. Ma poiché il servo non ha guardato nell'abisso, ma solo nell'aristocratico, non sa che significa essere padrone di sé a partire da sé stesso. Deve dunque ipostatizzare il fondamento per essere libero, ossia, per tener fermo il valore che egli a fatica ha forgiato. Così nasce il Dio cristiano – e con lui, la coscienza infelice.

La chiamata fa comprendere questo esser-colpevole. (p.342) L'angoscia è il guardare nell'abisso, e imparare la saggezza del dolore. Ma per imparare bisogna saper ascoltare. Risvegliare all'esser-colpevole è un risvegliare all'esser-responsabile. Tale comprendere è un rendersi libero. Ha scelto sé stesso, dice Heidegger. Ma Nietzsche non parla di mancanze.

Comprendere il richiamo è un voler-avere-coscienza, ossia, il presupposto esistentivo più originario del divenir-colpevole. Solo così l'Esserci può essere responsabile. Con-essendo con gli altri sul nullo fondamento, l'Esserci è già da sempre colpevole verso gli altri. Voler-avere-coscienza in un silenzio carico d'angoscia – decisione. La decisione anticipatrice della morti può lasciar-essere gli altri, diventare la loro coscienza. (60) L'Esserci autentico assume il compito di corrispondere al proprio essere. Nell'angoscia il mondo non ha nulla da dire – e l'autentico può parlare, come verbo. Ma non bisogna restare incatenati alla propria liberazione. L'angoscia apre l'Esserci come solus ipse. L'aristocratico vuole portare tutti “al suo livello”, inter pares. La decisione è Entscheidung. L'autenticità va ri-aperta ogni volta di nuovo, non è un gesto unico, una volta per tutte. Proprio perché l'Esserci è essenzialmente predisposto alla deiezione, l'autentico deve tenersi in quell'apertura più propria, rinnovare l'apertura stessa ogni volta di nuovo.

5
La volontà diviene libera dall'avversione del “così fu”, vuole il continuo ritorno di ogni cosa che “così fu”.La volontà che vuole l'eterno ritorno è redenta dall'avversione verso sé stessa. La volontà infatti, proprio perché è autosuperamento di sé, della vita, si vuole ancora uguale a sé stessa solo eternamente. Ma il punto no è solo volere l'eterno ritorno d'ora in poi, ma volerlo sempre, ossia: non solo decidersi d'ora in avanti, ma decidersi sul passato stesso. Ossia decidere per ciò che ci richiama indietro, decidersi per il nostro Ci gettato. La decisione è eterna ed evenemenziale. Il “così fu” deve diventare un “così volli che fosse”. Questo è assumere la nullità del proprio esser-fondamento. L'autentico assume questo nullo fondamento nel senso che vuole sé stesso se non in quanto deietto, comunque in quanto gettato – non rifiuta sé stesso, ma si vuole fino in fondo. L'autentico non è meno gettato – è il nostro passato è ciò in cui siamo gettati. Per volere a ritroso bisogna volere l'eterno ritorno. Il Superuomo però è un fatto storico – così l'avvento dell'autentico, è un Evento concernente il destino storico dell'Essere?


Sugli ἄριστοι della Genealogia della Morale e nel pensiero di Nietzsche in generale.

6
La memoria della volontà, il volere ancora, il ribadire il proprio volere- solo su questo fondamento uno può essere colpevole, può non volere più. La memoria della volotà è un potersi rendere responsabili per essa. Ma l'uomo deve imparare qualcosa per disporre del futuro, di sé, a separare l'accadimento necessario da quello casuale.
C'era un tempo in cui si giudicava a partire dall'effetto. Ma nell'ambito della moralità, si valuta l'intenzione. Nell'ambito della moralità l'azione non appartiene più a chi la compie, in quanto essa appartiene già alla comunità, al Si, che ne pre-valuta e pre-interpreta la giustizia, cui l'intenzione può conformarsi o meno. La comunità ha già giudicato l'azione – ora si giudica l'agente, non però a partire dall'azione. L'agente, quando si comprendere nel modo del Si, può giudicare la propria intenzione, ma di certo non può dire di possedere le proprie azioni – giudica così: “volevo/non volevo fare come si fa...”. Questo non vale per l'aristocratico. Egli, inter pares, insieme rivendica la propria azione ed è tutto in questa, quale che sia l'esito dell'azione. La sua grande opera è la sua maschera, la grande azione forgia il suo grande attore. L'aristocrate in questo si giudica fondamento, si autocelebra – la propria azione gli sembra cosa buona e giusta e per questo si giudica καλὸς καὶ ἀγαθός. Le azioni sono compiute sul fondamento del nulla. Ma il nulla è nell'Esserci, nell'esistenza stessa. La maschera non cela che questo nulla – ma non lo nasconde come per vergogna o paura, ma per manifestarlo, articolarlo, farne una ποίησις e infine, attraverso uno sguardo retrospettivo, redimerlo. Ma lo redime in quanto tale – l'azione dell'aristocrate trasvaluta il Niente. La produzione riprende, e così l'esistenza, ossia la vita, si autosupera. Questa è volontà di potenza.
L'uomo reso calcolabile e necessario è calcolabile dal Si, ossia, è giudicato in base alla sua calcolabilità dal Si – ossia, in base al suo conformismo. Esso retrocede nell'intenzione proprio perché le azioni non gli appartengono – l'intenzione in un certo senso non è che una mera situazione emotiva in cui è gettato. L'intenzione non è un volere – il volere è un agire già. Quando l'aristocrate onora i propri patres, onora il proprio fondamento, vuole il proprio passato – in un certo senso, vuole le proprie “condizioni di gettatezza”, e si considera come il punto di arrivo del passato – un destino dunque.

7
All'individuo sovrano, autonomo, sovramorale, al di là del bene e del male è consentito promettere. Quest'essere divenuto libero, signore del libero volere (e il volere è un agire), possiede sovranità su di sé e su tutto. La sua volontà è misura di tutte le cose, a partire da sé il signore onora e disprezza. Fa promesse ai suoi pari (con lentezza), e promettendo distingue. La sua parola, quando promette, non guarda al poi, non è una promessa dell'agire, ma è una promessa dall'agire-già, del volere – essendo il suo volere eterno, promettendo fissa nell'essere il suo volere. Il signore si sa abbastanza forte da mantenere la propria parola anche contro il destino, poiché egli è il fondamento delle proprie azioni, che eternamente vuole (nel senso che la volontà è una qualità del volere, non un suo modo temporale). Al contrario, il servo viene meno alla sua parola nel momento stesso in cui ce l'ha sulle labbra. Il servo ossia, non vuole, e con il suo volere muta anche la voce della sua coscienza, che ora parla di rimorso, ora di risentimento, ora di colpa, e mai dice l'Esserci come tale. Il signore ha il privilegio della responsabilità, la consapevolezza di una rara libertà. Tale responsabilità nel sovrano è istinto, istinto ad espandere la propria volontà, ad imporre la propria forma, ad assumere su di sé quanto più possibile, dando senso. In questo senso il signore ha un rapporto diverso con la significatività del mondo rispetto al servo: il servo si trova in una rete di rimandi come un ospite (è invero la sua prigione, ma lui non lo sa), mentre il signore è padrone di casa – anzi, ogni porzione di mondo è terra di conquista, le cose offrono il proprio essere al suo libero progettare che interpreta e lascia essere. In questo senso il volere del signore è un agire che è un creare valori. Ma proprio perché il signore autenticamente lascia essere gli enti nelle situazioni, egli chiama ciò che è da lui interpretato come “giusto”, “buono” (ossia, ciò che lo appaga nel suo progetto) Δίκη: ciò che è buono e giusto per il signore è buono e giusto in sé – e quindi, seguendo la genealogia degli aristocratici dei greci, la giustizia e il volere divini. Nel silenzio dell'esistenza, il signore “parla”, e la chiama voce degli dei, quegli dei da cui discende.

8
Qual è il fondamento ontologico del far promesse? Promesse aristocratiche, s'intende: il plebeo non ha la facoltà di promettere realmente – deietto nel Si, (si) è già da sempre “promesso” (a tal proposito sarebbe interessante mettere alla prova gli argomenti politici presenti nel Critone, ancora oggi di grande forza persuasiva). Innanzitutto il promettere aristocratico non è volto al futuro come a un mero “domani”, ma è un promettere che è presente, non perché sia labile ma proprio in virtù della sua solidità. Questa dimensione del “presente” non è deietta, ma in essa l'aristocratico opera distinzioni che egli vuole ancora. In secondo luogo, all'interno di questa distinzione operata egli tratta i suoi pari, ai quali promette, verso i quali il con-essere assume l'esser-colpevole (che si risolve con il voler elevare i pari agli stessi valori e alla stessa coscienza, ossia un renderli liberi per il loro più proprio poter essere, ma dialetticamente). Onorando la propria promessa il signore onora sé stesso, è fedele a sé stesso, sceglie il proprio volere come un valore, lo pone avanti a sé come una legge. In terzo luogo, onorando la propria promessa, il signore onora la distinzione da lui sancita. Ma ogni distinzione è una nullità di qualcosa, qualcosa che viene lasciato fuori – ogni risolversi per un poter-essere è un nullificare la possibilità che non si ha assunto. In Essere e Tempo Heidegger sembra adombrare la scelta esistenziale, come se questo nullificare fosse uno dei caratteri della finitezza dell'Esserci, del suo limite ontologico. E lo è. Ma alla stessa maniera l'autentico nullificare una possibilità è l'onorare l'altra, un segnare distintamente un valore positivo. La nullità del progetto autentico deve essere voluta non solo “ora” ma come eternamente ritornante, dunque anche in quanto passato. L'essere un progetto nullo è anche un comprendersi sulla nullità del fondamento – essere quel nullo fondamento che l'Esserci è. Il forgiare valori del signore è allora ontologicamente possibile solo sul fondamento della colpa. Questo è il dato più importante. Il secondo è questo: che tale responsabilità si fa istinto, volere ancora – e quindi coscienza. (vedi p.48 Genealogia della Morale) Ma la coscienza è un risveglio alla colpa, quindi un risvegliare al promettere, al giudicare, al far distinzioni, al separare etc. – in altre parole, alla volontà di potenza. (Nota: non a caso è quest'ultima che, rintuzzata su sé stessa nelle/dalle articolazioni opprimenti del Si, genera quelli che sono i “coprimenti” della coscienza come struttura ontologica dell'Esserci...) I “non voglio” della società si imprimono a sangue. In rapporto a questo si forma la società. Ma quei “non voglio” riguardano l'intenzione: tu “non vuoi” fare certe cose che non si fanno ecc. Lo stato interpretativo che decide ciò che si può avere l'intenzione di fare o meno è già deciso.

Sul sentimento di giustizia. “Il delinquente merita la pena poiché avrebbe potuto fare altrimenti” (avrebbe potuto nullificare una possibilità esistentiva piuttosto che un'altra – ma le possibilità son già decise): qual è il presupposto? Il delinquente è in qualche modo responsabile, colpevole. Ma questo sentimento non è originario – non v'è allora fin da subito il coprimento morale che afferma che in seguito ad un'azione qualcuno possa essere colpevole. Nella deiezione più primitiva la nullità di cui il delinquente è stato fondamento (e non poteva essere altrimenti, ma il Si rende il discorso più coperto e superficiale) non è una nullità/mancanza morale verso la comunità (che necessita di una forte interiorizzazione dei “non voglio”), ma il semplice esser fondamento di un danno. In questo senso Heidegger nella sua critica alle genealogie dell'idea di colpa dice non volendo qualcosa di vero. Ammesso che la colpa come fatto esistenziale sia qualcosa di assolutamente interno all'Esserci come solus – i più primitivi coprimenti di questo fatto ragionano proprio secondo il concetto di debito. In questo caso: il delinquente è in debito, e i debiti si pagano – il prezzo è sancito dall'equazione con la sofferenza. Le genealogie criticate da Heidegger naturalmente mancano la colpa come fatto esistenziale, ma, con Nietzsche, la comprendono nella sua interpretazione storica. In questo senso deiezione dell'interpretazione e interpretazione che produce deiezione si alimentano vicendevolmente. Inoltre il senso del debito e la punizione (il dolore per il dolore) come sfogo stessi, pur essendo un coprimento della colpa esistenziale, ci dice qualcosa del coprimento e della deiezione in atto: “l'altro è causa del mio dolore; non è responsabile di tale dolore perché non si possiede, non è realmente (moralmente) colpevole; nonetheless è fondamento di una nullità, ossia il mio dolore (nota: il colpevole viene ancora giudicato a partire dalle sue azioni, e non ancora dalle sue intenzioni) e dunque deve pagare”. E dunque frustrate. Qualcosa come la legge del taglione, ci dice Nietzsche, già è una crudeltà più raffinata (per noi, con Heidegger, un ulteriore coprimento), introduce un calcolo, una stima di valore. In questo senso la nullità di cui il delinquente può essere fondamento è già sottomessa alle stime quasi matematiche della legge. Qui ancora il delinquente (che sente la pena come un accidente, con un'ingenuità che Nietzsche definisce quasi spinoziana) è giudicato a partire dagli effetti delle sue azioni – ma è un giudizio che si muove secondo pregiudizi (“se ha rubato un tot, gli sarà tagliato un tot di carne” e così via”).

9
Il debitore dà in pegno il proprio corpo per garantire sul peso della propria parola: il valore di una volontà si afferma attraverso un abbandono del possesso di sé. Ora, la parola è un dar valore, ma non qui: che valore è quello dato concedendo ad un altro il diritto su di sé? Il proprio corpo, ma anche i propri possedimenti, la propria donna ecc. sono tutti oggetti esterni che fondano la validità della promessa – che hanno valore solo nello stato interpretativo del Si (ad esempio, che senso avrebbe promettere in pegno una somma di denaro in una società che non conosce il nostro tipo di economia?). Il soggetto debitore non assume su di sé l'esser-colpevole ma lo scarica su un oggetto esterno (fetish). Inoltre l'esser posseduti da un altro, che è un modo particolare del con-essere (che nella massima articolazione del Si da vita, credo, all'onnipresente figura del Grande Altro), impone al debitore il dover mantenere una promessa – che si mantiene grazie alla paura, che sappiamo essere nient'altro che un coprimento, un'interpretazione deietta dell'angoscia. In quanto tale la paura esternalizza su un fetish esterno ciò che avviene all'interno, la deiezione in fieri. Sapendo la debolezza del proprio volere, si supplisce ad essa consegnando il fare al Si. Il risultato è il sentimento deietto della colpa. Dal canto suo il creditore, sfogando la propria rabbia, partecipa del diritto signorile, che è il poter trattare il debitore al di là del bene e del male. I “creditori” vanno costituendo prima la casta governante (aristocrazia), poi, progressivamente, avviene la “sclerotizzazione” della volontà del creditore che si fa prima organo di controllo, poi Stato/Dio/ogni forma di auctoritas. In questa maniera il Si (l'ideologia) si espande andando a determinare quella situazione che Nietzsche vede nel mondo contemporaneo. Ma nel momento più primitivo, lungi dall'esserci un'ideologia, il Si è quasi una mera fattualità “economica”. Chi è trattato al di là del bene e del male subisce letteralmente il bene e il male di chi decide. Ma non è detto che il creditore sia un signore autentico. Potremmo dire che il Si stesso usi per costituirsi e rafforzarsi la dialettica tra classi. (In prospettiva potremmo dire: la storia della dialettica tra classe di servi e classe di padroni è l'articolazione del con-essere nel destino di deiezione dell'Esserci e di oblio dell'Essere...)
Eppure... far soffrire reca soddisfazione. Perché? Si compie l'esser fondamento di una nullità, ma sull'altro. Come può essere il far soffrire una riparazione? In che maniera una situazione emotiva può “ripagare”?

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Si consideri la vergogna dell'essere umano dinanzi all'uomo, come vergogna degli istinti: quale istinto perverso ha dovuto sviluppare un simile trucco per la sopravvivenza? Ora, il dolore è contro l'esistenza, ma prima... è una seduzione alla vita! Dal dolore, subendolo e facendolo, si impara. Se la vita è dolore, essere cagione di dolore è essere cagione di vita, e questo è il dire di sì al dolore, che è nullità della vita. Sul fondamento dell'angoscia, si creano valori, si da forma alla vita – come? Cagionando dolore. La non assurdità della sofferenza (p. 57) è il suo superarsi nel canto – nell'arte, nella morale artistica, nella tragedia dionisiaca. Ma qual è il fondamento esistenziale di un tale gioioso soffrire? L'angoscia. La sofferenza, che è vita, ha senso e bellezza sul fondamento dell'angoscia – ma ora nell'era del Si (della tecnica), la sofferenza è assurda, va allontanata e eliminata come un male superabile. Nel Si l'eliminazione della sofferenza è considerata progresso! Anche la plebe vuole maschere, tanto più spesse e rozze quanto minore è la pozzanghera della sua anima.

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L'etica soloniana è l'etica più nobile, di colui che si giudica soltanto nella completezza della morte – ma che anticipando la morte si giudica ora come già compiuta: perché è “eterno”. L'esser-morti è una grande, angosciosa libertà – l'angoscia è l'essere tesi fra vita e morte: la libertà è diventare questa tensione. Ricorda le parole di Zarathustra sulla libera morte...

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Dio è innanzitutto testimone del dolore umano -gli dà un senso. Ma così facendo si esternalizza la causa, la responsabilità (dipende dal dio). Una πόλις può porre nel dio questo dolore che non si sopporta nella sua purezza, per riappropriarsene mediatamente nel dio stesso. Ma nel dio polide c'è già un coprimento della nullità dell'Esserci di un popoli. Ma questa è la civiltà in cui non v'è alcuna virtù senza testimoni, ossia: l'Eroe, da quello epico a quello tragico sono “autentici” poiché accettano e vogliono il destino – e il destino è ciò che ci costituisce come volere, come scelta, sul fondamento del nulla - il gelido Ade che è l'insignificanza della vita stessa. Ma: v'è la mediazione dello spettatore. Lo spettacolo dell'autenticità è già qualcosa che copre il silenzio? Ossia, non è una voce nel silenzio, ma una voce sul silenzio (dal ditirambo a Euripide...?). E il libero volere (l'intenzione) serve a perpetuare questa mediazione, approfondirla, spostare il valore di ogni azione sempre di più al di fuori dell'Esserci, è il perdersi di un popolo. La tragedia si risolve in commedia. Il mondo antico per Nietzsche è essenzialmente pubblico. Ancora non v'è un'introiezione psciologica-ideologica del Si (del Grande Altro).

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La giustizia non è reazionaria. Sono gli istinti attivi, la brama di dominio e di possesso a fondare ogni giustizia. L'uomo attivo è il signore. Egli ha lo sguardo libero, la migliore coscienza. Il nobile non ha bisogno di valutare pregiudizialmente il proprio oggetto. Il nobile non ha pregiudizi poiché giudica a partire da sé, accettando dionisiacamente tutto ciò che serba il destino. Il diritto serve a stanare e a tener buono il risentimento. Tutto ciò che è reazionario è quindi contro la legge. Il volere dell'aristocratico, che è il giusto in sé, è imperante. Ogni azione reazionaria è ὕβρις. L'aristocratico si concepisce come degno di venerazione in quanto valore in sé.

14
(Vedi pagine 64-65 dalla Genealogia della Morale) La legge apprezza impersonalmente le azioni, arginando il pathos reattivo del risentimento che vuole vendetta: il signore agisce come una forza maggiore, il servo si sente colpito nella persona, nell'intimo. Nascono diritto e torto, non a partire dal danno ma dalla legge stessa. Il sottomettere della volontà a sistemi maggiori è un creare più grandi unità di potenza, è un accrescimento di potenza. Attraverso la sottomissione il con-essere dell'Esserci si articola a formare unità dello Spirito maggiori – Dasein come popolo, comunità ecc. Insieme, ogni sviluppo è sviluppo del senso. A questo punto dobbiamo attestare, attraverso Nietzsche, come la morte di un simile Dasein sia possibile, così come l'autentico e l'inautentico.

Morte: la disgregazione della comunità? Non proprio. Cos'è esistenzialmente la morte de Dasein? L'impossibilità delle possibilità, del Dasein stesso che è poter-essere aperto. Un Dasein collettivo “morto” è un Dasein che non ha più scelte da compiere – e le scelte si compiono grazie gli istinti attivi, la volontà di potenza. La morte di un Dasein-popolo è la stanchezza di un popolo, il rintuzzarsi dei suoi istinti, lo scemare della vita, la paralisi del Dasein collettivo. Per Nietzsche un Dasein simile è quello democratico, quello socialista ecc. - in altre parole, quello del gregge.

Inautentico: non comprende la morte per quella che essa effettivamente è, e la considera come... progresso! Solo in una simile traiettoria può esistere il senso di colpa, che è un amare le proprie catene.

Autentico: la storia ha dimostrato che bisogna essere cauti nel rispondere ad una simile domanda. Non è questo il luogo adatto.

15
Quest'essere che manca di qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e che deve far di sé stesso un'avventura, una camera di supplizio, una selva... questo giullare inventa la cattiva coscienza. L'Esserci soffre sé stesso. (p.75) Caduto in nuove condizioni esistenziali, si rivolge contro i suoi istinti più intimi.
Bisogna criticare Heideggere? Se quel che si dice è vero, vi sono stati popoli in cui non v'era inautenticità né gettatezza (intesa in senso peggiorativo). Cosa dovettero inventare i Greci per sopravvivere al lungo travaglio di popoli e guerre che li ha generati? La tragedia, il pessimismo, il genio del cuore, Dioniso. Tutto questo per permanere in una certa apertura sul mondo. La storia più arcaica della Grecia ha generato, in una vera e propria dialettica servo-padrone, un popolo libero, che guarda nell'abisso, nella vastità del mediterraneo, e canta – il ditirambo. Il Dasein di un simile popolo non conosce Si, poiché rivendica la fondazione dei propri valori, loda i padri, ha il mito dell'autoctonia. Il Greco non fa “perché si fa così”, ma perché così vollero i padri. E dunque lui, in quanto Greco, vuole (ancora) così. In lui non v'è un rintuzzarsi dell'istinto. Non v'è solipsismo, tutto è preso nel coro ditirambico, nella formazione oplitica, nell'ἀγορά . Il popolo greco è un essere-per-la-morte perché: sa il non-valore della vita (v. Achille nell'Ade), conosce la saggezza del sileno (meglio non nascere, o morire presto), e la saggezza di Solone ecc. ecc. Eppure non ci si può togliere il sospetto che anche in un simile popolo che racconta sé stesso come un popolo autentico, che combatte sulla soglia dell'abisso per secoli, traendo immagini apollinee dal proprio fondo dionisiaco, non sia privo delle stesse mediazioni che noi sentiamo come una caduta, e in cui invece loro erano completamente coinvolti (Žižek ).


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L'uomo è posto in questa situazione esistenziale da un atto di violenza. Tale atto fu un plasmare l'uomo stesso, un signoreggiare e conquistare. Lo Stato è esattamente questo (a Sparta era ancora palese). Il Si non è un contratto, ma è imposto. La violenza a volta può essere tale da insegnare – un perdersi, altre volte... Tali signori giungono come il fulmine, senza motivo, come un destino, troppo repentini, non progettati, troppo persuasivi per essere anche solo odiati, o temuti. L'intero mondo crolla. Se i signori sono plasmatori di forme, il mondo non ha più una forma (e per erigere nuovi templi, devono radere al suolo quelli vecchi – il mondo deve crollare nell'insignificanza). Il servo si ritrova dall'oggi al domani in un mondo devastato, irriconoscibile. A volte, se impara, si riconquista. A volte si richiude nel risentimento. Un popolo di conquistatori potrà essere la coscienza del popolo sottomesso a volte, altre potrà sottomettertelo fino all'annichilimento. La volontà di potenza è un forgiare valori, orizzonti di comprensione, ossia luoghi in cui nulla ha senso se non il tutto. (p.67) I signori ignorano cosa sia colpa, responsabilità, scrupolo. Nell'opera si sanno giustificati in anticipo e per l'eternità. La loro opera è un punto fermo arbitrario della loro volontà, ribadito e affermato. Quale è il fondamento ontologico del sottomettere? Qual è il con-essere autentico?

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Le prime stirpi si sentivano in debito presso i genitori: non ci si possiede, ci si sente in debito. La stirpe non attribuisce direttamente a sé le proprie conquiste – questo non per incapacità di un popolo che si sente incatenato, ma perché, giudicandosi aristocraticamente a partire dagli effetti, le azioni determinano il Dasein solo a posteriori. Se le azioni hanno successo allora sarà grande il Dasein, sarà infimo se si risolveranno in fallimento. Ma, se vogliamo, sta qui l'impasse dell'aristocrazia: come può l'aristocratico assumere pienamente il possesso sulle proprie azioni se non può legarvi un volere precedente ad esse? Comunque... l'etica dell'intenzione sembra comunque essere un delegare agli altri la comprensione delle possibilità dell'essere.
L'aristocratico è potente e le sue grandi azioni creano a posteriori il loro autore – l'antenato, il progenitore, il dio ecc. da cui l'aristocratico che è discendente trae legittimazione. Attraverso la mediazione mitologica l'aristocratico può prendere possesso delle proprie opere e scoprirsi come destino, come il punto finale della stirpe ecc. È l'autentico quell'essere che si risolve per il suo più proprio poter essere, ossia per il suo destino (e per il suo essere un...). Non solo la morte, ma ogni azione fondata nell'Esserci autentico nasce da un'adeguata comprensione delle possibilità che la situazione offre ecc. ossia, ogni azione ha carattere destinale.
Il senso di debito verso i propri avi è un autentico risolversi per il proprio essere colpevole? Risvegliandosi alla colpevolezza l'aristocrate insieme si sa infondato (ma le grandi azioni hanno bisogno di un grande fondamento – dunque esternalizzazione) e avente da essere quel fondamento (ci si coglie come fondati sul passato in cui siamo gettati ecc.). Nessun Esserci ha veramente possesso delle proprie azioni - c'è sempre uno scarto tra l'Esserci (esistenza gratuita) e le proprie azioni, le proprie possibilità esistentive (essenze). L'autentico, scegliendo l'ente che è, sceglie l'insignificanza – scopre che non c'è un Grande Altro. L'autentico resta connesso al Si. Non solo quindi crea valori, ma avendo avanti a sé ancora il Si nella sua insignificanza, i valori nella loro falsità ecc. sa dell'insignificanza trascendentale della propria opera. Da qui viene la necessità di autosuperamento.

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Il Dio cristiano non è un dio polide, ma è contro ogni autorità. Mentre l'aristocratico può sanare debiti (ossia può sinceramente promettere), i debiti del servo sono incommensurabili e insanabili al punto che solo Dio può redimere l'uomo. (p.80) Il massimo senso di debito diventa debito verso la causa prima. Il senso di colpa si volge all'indietro, verso Dio, Adamo, la Natura, l'Esserci coe tale, l'esistenza stessa., che non è in sé valida. Nasce il desiderio del nulla, al punto che solo Dio può salvare l'uomo. Gli istinti sono colpe verso Dio – bisogna non volere, frenare gli istinti: essi giudicano valori diversi da Dio. Se è vero che la rinuncia al piacere diviene presto il piacere della rinuncia e il modo in cui queste anime sopravvivono, tutti gli altri istinti attivi dovranno “andare in letargo”, essere repressi. La volontà e la vita non devono tentare l'autosuperamento, poiché son troppo deboli. (p.83) L'angoscia è negativa e positiva perché ci rivela la nostra libertà sul fondamento del nulla (come il cogito cartesiano, è un solus ipse) – si scontrano la finitudine dell'esistenza e l'infinità della libertà. L'angoscia ha portato Adamo a peccare. Dio gli disse: “sei libero – e dunque, non lo sei”. La libertà si conosce proprio nel momento del limite, e in questo scarto nasce l'angoscia. In Adamo la proibizione diventa tentazione. La deiezione si fonda proprio sull'angoscia, sulla gettatezza (da cui viene una libertà costretta ed essere libertà). L'angoscia, in altre parole, è il risultato di proibizione che diventa desiderio e punizione che diventa ostacolo. L'innocente non è colpevole, eppure, è in angoscia come se lo fosse. Il nullo fondamento di una nullità è presente nel creare valori. Ma questo creare valori è una libertà a cui si è costretti – un nullificare a cui si è costretti. Eva si lascia tentare dalla conoscenza del bene e del male, ossia, della condizione in cui Dio li ha gettati – ha scelto sé stessa, con tutto il travaglio che questo comporta. Il cadere dell'uomo è invece proprio la gettatezza, la possibilità del possedere sé stessi, essere senza Dio/come Dio/oltre Dio. Il bene e il male che si conoscono mangiando i frutti proibiti non sono valori morali specifici, ma la natura stessa di ciò che si dice essere bene e male, ossia, un limitare e un nullificare. Adamo, cui era stato assegnato di nominare gli enti, dar loro valore ecc, scopre che la sua è stata un'opera carica di nullità. Ma poiché ora è “come Dio”, dobbiamo dire che questa nullità è interna a Dio creatore stesso.

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Esistono modi più nobili di servirsi della poetica creazione di dei,che il fine non sia l'autocrocifissione. Es. gli dei greci, che sono nobili e signori di sé, bestie divinizzate. I greci son “teste di fanciulli”. I Greci vedevano in sé la radice del male nella stoltezza – e davano la colpa agli dei! E gli dei ringraziavano per ogni bene. Il Greco si appella al dio in ragione degli effetti delle azioni, diversamente dal Dio cristiano, cui si confessano le proprie intenzioni. Nel mondo greco la “colpa” del dio non è diversa dal “fato” – si pensi alla storia di Aiace. Lo spirito nobile ha bisogno di pericoli; lo spirito del servo “si lascia andare”. Dai pericoli il signore trae la sua grande salute.

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L'autentico, ci dice Heidegger, risulta essere quasi un rafforzamento della soggettività metafisica, che sappiamo culminare nella volontà di potenza. La volontà di potenza crea nuovi orizzonti di senso – l'autentico scopre le sue possibilità storiche. L'autentico è un'apertura all'Essere – la volontà di potenza è l'Essere.

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Per Nietzsche la Verità è un valore che esprime e riproduce la volontà di potenza, di vita. Conoscere è sfruttare la propria sofferenza: nell'uomo creatura e creatore sono lo stesso – non è questo l'aver-da-essere. Ogni trascendenza è un negare la finitudine dell'esistenza. In questo senso anche l'autentico come apertura sull'Essere è idealista, non accetta la finitudine dell'esistenza, ossia – cogliendosi all'interno delle sue possibilità storiche, all'interno della storia dell'Essere, e sapendo il rapporto privilegiato che questo ha con l'Esserci, si eleva ad una trascendenza in cui gli orizzonti “creati” si ricomprendono nell'orizzonte della storia dell'Essere. Ha ragione Nietzsche quando afferma che per creare non bisogna solo distruggere, ma anche saper dimenticare.

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Il signore deve porre il proprio volere sopra di sé come una legge. È vero che, al contrario del “gregge”, l'inautenticità e il Si sono un fatto ontologico – ma pur sempre dati fenomenologici. Per il Si, qualsiasi cosa venga conquistata con lo sforzo diviene qualcosa di cui parlare, ogni segreto perde la sua forza. Una volta sopraggiunta e compresa la domanda, uno non può non...? Porsi la questione sulla decisione non è una terza parte intermedia, non ha senso. Se l'eroe arcaico che duella è autentico, e si fa coscienza e destino dell'altro, può esserlo colui che conquista e sottomette?
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La verità nietzschiana non è solo un valore, ma un modo fondamentale della volontà di potenza, un meta-valore. Non è incompatibile con l'ἀλήθεια, poiché la volontà di potenza “produce” apertura, e ogni apertura viene da un nascondimento – ogni verità è una maschera. La verità è anche l'oblio dell'Essere. Gli istinti (lo sappiamo da Lo Stato Greco) fondano a posteriori sé stessi, per poter essere e agire. Per Heidegger l'apertura dell'Essere è il destino stesso dell'Essere, e a partire da essa l'autentico comprende la propria situazione storica. L'autentico si comprende a partire dall'Essere in quanto Essere – e in questo senso non v'è alcuna essenza, ma la pura gratuita storica esistenza. Le essenza sono quindi maschere, che vengono prodotte poieticamente, costituiscono quell'apertura che è il destino storico dell'Essere – dunque l'autentico si comprendere come Esserci poietico, che forgia valori, orizzonti di comprensione. Ma ogni creazione è una maschera – di cosa? Di Dioniso...

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Le autentiche possibilità storiche riguardano sia l'Esserci che l'Essere come tale – ma a volte Nietzsche parla di certe esplosioni della volontà di potenza quasi come di eventi, eventi storici che si rivelano fondanti per la stessa storia dell'Essere (degli enti). Ma ricordiamo che nella critica heideggeriana, Nietzsche è l'ultimo dei metafisici proprio perché è interessato all'essere degli enti, non all'essere in quanto tale. L'Esserci autentico è rilasciato (Gelassenheit), possieduto dall'Essere in quanto tale (eigent-lich): l'Esserci non ha controllo sulla storia. Ma anche in Nietzsche l'uomo è una corda già da sempre tesa fra la scimmia e il Superuomo, il suo destino non gli appartiene, ma è invece gravido di avvenire.

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Sulla profonda sofferenza – essa crea profonda divisione. Ogni divisione è un creare valori. La sofferenza più profonda e individuale, che massimamente divide e isola? L'angoscia. Essa come divisione è un creare valori – un solo valore invero, il più alto, e nel farlo deve distruggere ogni altro valore, sospingere nel nulla ogni articolazione di senso. L'angoscia isola, fa dell'Esserci un solus ipse, è innanzitutto un istinto al rango, alla pulizia e alla purezza (αὐτὸ καθ'αὑτὸ) – e apre il con-essere autentico, che è dialettico, vuole confrontarsi con lo sguardo dell'altro in quanto altro ed essere per lui coscienza. Ma la coscienza, sebbene sia una struttura ontologica dell'Esserci, è sempre sentita come aliena, estranea, perturbante, spaesante. In questo senso l'altro Esserci, compreso autenticamente, è radicalmente altro – e noi siamo altri a nostra volta. L'angoscia è massimamente divisiva, isola in un con-essere dialettico, oppositivo, in cui non è possibile alcuna chiacchiera. È in questo con-essere che lo spirito nobile ama la maschera, che redime l'angoscia stessa (che passa dal momento negativo della perturbante morte di Dio alla libertà positiva dello sguardo che tende al di là di ogni orizzonte, avendo avanti a sé un unico valore: la volontà, l'autosuperamento della vita) e rinnova ogni atto creativo e insieme lo vuole ancora – lo spirito nobile non sarà mai troppo vecchio per le proprie vittorie.

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Istinti superiori inferiori: in Al di là del Bene e del Male l'istinto più forte organizza quelli più forti, sottomettendoli ad una regola. Riesce Nietzsche realmente a trasvalutare i valori? Anche nella dialettica vi è l'oblio, che non è un far tabula rasa, ma un assumere e sublare i valori e la regola voluti, rimuovendo la sofferenza da cui essi sono venuti e interiorizzarli nella natura stessa (come habitus, ἕξις,, ἔθος) – fare del proprio passato la base 0 del proprio volere.
In Colpa e cattiva coscienza, il dimenticare è appropriazione spirituale, è una digestione (per questo, credo, ha il carattere di unheimlich – riscoprire ciò che si è assunto è perturbante, spaesante), affinché vi sia posto per il nuovo. La felicità e la nobiltà si fondano sull'oblio – su un profondo perturbante...

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L'oblio attivo non è un mero dimenticare, ma un naturalizzare ciò che si è appreso nel dolore, assimilarlo nello Spirito – dunque volere ciò che è proprio al punto da anteporlo a sé stesso, farne una natura. Per il signore, ciò che egli vuole, ossia la divisione che egli compie, il valore che forgia nel profondo dolore che ogni atto comporta, è “buono in sé”, “vero in sé”, lo precede. L'oblio è esattamente questo, il potersi annunciare come veritiero e non come verità, il potersi annunciare come discendente dagli dei e dagli eroi ecc. Ciò che viene propriamente obliato è la sofferenza, che è soggettiva e divide. La nuova forma è assunta come natura dallo spirito dell'aristocratico.
Al contrario, in che modo il “tornare a volere” della promessa, questo rendersi calcolabile, è in realtà un non possedere il proprio volere? Innanzitutto colui che non vuole la propria liberazione è colui che non soffre, ossia, colui che non si può comprendere né concepire come αὐτός.

La memoria della volontà diventa volontà della memoria – l'uomo può produrre una autorappresentazione del sé futuro, disporre di sé come di un avvenire, (…). Così si forma l'autocoscienza. Ma ricordarsi della propria volontà vuol dire ricordare la sofferenza che tale volontà comporta, soffrire la sua nullità – il non voler tornare a liberarsi, il tornare a volere, in che senso è una “cattiva digestione”? Non è forse un ribadire il proprio volere, volerlo eternamente?
C'è un problema. (Nota: questo tornare a volere descritto da Nietzsche non va assolutamente confuso con la sfida dell'Eterno Ritorno, perché è un tornare a volere quello che il Si vuole, ossia, riconfermare il non possesso di sé.) Sappiamo che la memoria si forma attraverso una dolorosa mnemotecnica che nel corso della storia plasma e, lentamente, ammansisce l'uomo. Ma questa stessa memoria permette all'uomo di definire una struttura e definirsi in questa struttura. Pensando alla genealogia del linguaggio e dei concetti che Nietzsche espone in Verità e Menzogna in senso extramorale possiamo immaginare che sull'uomo stesso avvenga lo stesso processo di violenza che l'uomo con le parole compie sulla natura. Ogni valore forgiato, ossia ogni onore tributato, ogni promessa fatta (v. p.49 della Genealogia) deve essere ricordato, scolpito nella mente in maniera da rendere stabile quel valore stesso, quella promessa. Proprio come le parole in Verità e Menzogna si fanno vere e proprie leggi, nomi che si fanno νόμοι, l'ἔθος (che è forma e valore morale) si fa per l'uomo stesso legge civile, e coscienza nella sua moralizzazione, attraverso un atto di crudeltà, di violenza pura – che abbiamo individuato come volontà di potenza, diritto signorile. La crudeltà è quella di chi è autenticamente autonomo ed è legge di sé. La coscienza nasce dall'esercizio della crudeltà: nobile quando è un rivolgersi verso l'altro al di là del bene e del male, verso colui che non si possiede e che viene trattato come la nullità che è; cattiva quando è un rivolgersi su sé stessa, nel disprezzo dell'uomo, verso il sé che non si possiede. In questo senso i valori servili di buono malvagio ancora nascondono, nella sostanza, quel che affermavano i valori signorili di cattivo (spregevole) e buono (nobile) – è esattamente il mutamento della forma che permette lo spostamento dell'ago della bilancia. Non è più, secondo la morale dei servi, buono chi possiede sé stesso e agisce secondo propria natura nella prospettiva dell'accrescimento della vita che è l'imparare dal dolore (questa è l'aquila che... fa ciò che fa l'aquila, senza nessuna cura per le sofferenze del gregge), ma chi evita il dolore nella mera autoconservazione. L'oblio che per il signore è un “dar per scontato”, un assimilare e anteporre a sé come autofondazione, per il servo è un mero dimenticare – e ciò non è ammisibile, perché il servo non può dimenticare, ossia non può fondarsi, deve essere consegnato al Si ed essere giudicato esclusivamente per le proprie intenzioni (e in effetti, senza la memoria delle intenzioni e della promessa non vi sarebbe possibilità di moralizzazione). Un'altra forma di oblio è quella del Si: quella del coprimento o, come forse è più interessante dire (dato che il coprimento ontologico è anche l'oblio di un fatto ontico troppo aderente all'essere), della rimozione. Lo studio genealogico, che è per certi versi affine alla psicanalisi, è il corrispettivo ontico di ciò che Heidegger chiama l'attestazione di certe strutture dell'essere dell'Esserci attraverso una comprensione autentica e adeguata dell'essere dell'Esserci.

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Sulla volontà di rivalsa. Al contrario del mero voler essere ripagati secondo un'equazione di dolore e saldo (in cui l'effettiva incapacità del creditore commerciale di farsi ripagare in termini di vita ed essere è dissimulata all'interno della “giustizia economica”, che è sentimento di reazione – nota inoltre come già si punisce per un'intenzione più che per un fatto, ossia la promessa non mantenuta, l'accordo), la volontà di rivalsa è un diritto signorile, e in quanto tale è un movimento attivo della volontà di potenza, un interpretare. Il signore può eventualmente essere danneggiato da qualcuno che non è autonomo come lui. Egli interpreterà quest'ultimo solo ed esclusivamente a partire dalla sua azione (senza riguardi per le intenzioni, le promesse e i contratti) e a partire dal proprio utile (il signore è autonomo, non etico, non soggetto a contratti – anzi, come notano i vari Trasimaco e Crizia, le leggi e i contratti sono strumento dei potenti). La crudeltà insita nella volontà di rivalsa è il fatto di poter nullificare l'altro.







Questi appunti, raccolti in maniera rapsodica, sono il prodotto delle riflessioni prodotte in conclusione del corso di Filosofia Ermeneutica tenuto dal filosofo Docens Turris VirgataeRiccardo Dottori presso l'Università di Roma Tor Vergata, anno accademico 2018/2019. Argomento del corso: Al di là del Bene e del Male e la Genealogia della Morale di Friedrich Nietzsche. Il corso ha esplorato, analizzando analiticamente entrambe le opere, i temi cruciali della volontà di potenza, del valore morale della verità, della saggezza dionisiaca del dolore, dell'aristocrazia e - forse uno dei temi a Nietzsche più cari - della maschera. La dialettica servo-padrone hegeliana e il concetto aristotelico di ἦθος sono cruciali per interpretare la volontà di potenza - e in fondo l'intera filosofia di Nietzsche. Conto di raccogliere ed editare gli appunti raccolti durante il corso quanto prima possibile.

Il risultato di queste riflessioni, condotte sotto la guida del professore, è stata un λόγος condiviso con Riccardo Dottori e gli altri studenti in occasione di un simposio di fine corso. Si brindò all'anima di Friedrich Nietzsche e all'amicizia.

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