Appunti di Ermeneutica Filosofica - Nietzsche e Heidegger: la volontà di potenza e l'esserci autentico
«È
notte: ora parlano più forte tutte le fontane zampillanti. Ed anche
la mia anima è una fontana zampillante.
«È
notte: ora soltanto si destano tutte le canzoni degli amanti. Ed
anche la mia anima è la canzone d’un amante.
«C’è
in me qualche cosa di non appagato e di non appagabile, che vuol
farsi sentire. C’è in me un desiderio d’amore che parla, esso
stesso, il linguaggio dell’amore.
«Io
sono luce; ah, foss’io notte! Ma questa è la mia solitudine ch’io
sono cinto di luce.
Preliminari
metafisici.
1
La
chiamata della coscienza non dà appiglio alla chiacchiera – ma
altrimenti può essere pervertita. Essa è un discorso, non una
facoltà dell'anima – è il discorso più originario dell'Esserci,
dicente il nulla – nota: in Nietzsche gli istinti precedono
ontologicamente l'anima. La
chiamata sospinge nell'insignificanza il Si – essa è pathos della
distanza. Nella chiamata la coscienza tace – è il silenzio più
pesante di ogni parola. Le parole, infatti, sono maschere, e sono
superficiali. La chiamata non è progettata: l'Esserci è gettato
nella chiamata. Essa viene dalla lontananza, dal fondo del nostro
esser-gettato, ma anche da sopra di me. L'Esserci è
gettato nell'esistenza. Come si diventa quindi ciò che si è?
(v.260 Al di là del bene e del male: l'aristocratico è
ciò che è in sé fondamento: qual è l'istinto a essere il
fondamento, al bastare a sé stessi, al non chiedere alcuna
trascendenza? Tale istinto si manifesta nella chiamata. L'essere più
proprio è proprio essere un Esserci – assumere il Ci gettato
dell'Esserci. Quale istinto muove nella chiamata? Quale indomabile
agire senza progetto? La
chiamata è l'istinto che, dicendo il nulla, isola nell'autarchia
ontologica l'Esserci – questo è fondamentalmente pathos della
distanza. In questo senso, la volontà di potenza è un prendere le
distanze dal mondo, scoprendolo come un nulla – come la tela su cui
dipingere il proprio volere.
2
Se
l'Esserci che è fondamento di ogni senso del mondo, è infondato, il
mondo stesso è infondato, ossia: sarà nullo, non ha più nulla da
dire. Solo a questo punto è l'autentico a dire, a forgiare
valori.
Cos'è
lo spaesamento? L'Esserci in quanto chiamante è l'Esserci nel suo
essere spaesato, nel non sentirsi più a casa propria – ma
l'aristocratico non ha bisogno di un cantuccio, ama le vette ostiche,
l'alto mare: l'aristocratico è nomade, conquistatore,
non stabile, sempre oltre sé stesso. Lo spaesamento è sì
nichilismo (ma nota che se il nichilismo viene dalla morte di Dio,
non può essere una condizione originaria, forse – o comunque, se è
condizione originaria nella sostanza assume la forma di nichilismo
solo a posteriori), ma è la condizione della coscienza come
comprensione nullificante. Ogni comprensione realmente nullificante
demolisce templi e idoli, ma sempre per far spazio a qualcosa – è
questo lo spazio che l'aristocrate abita. La chiamata richiama al
silenzio del poter-essere esistente. Tale è Achille, che si ritrae
in sdegnoso silenzio prima di scegliere il suo più proprio
poter-essere. Ma tale è anche Zarathustra che insegna la solitudine.
La chiamata viene dallo spaesamento come richiamante indietro
chiamante innanzi.
3
Qual
è la colpa dell'Esserci? E in termini nietzschiani, la colpa antica
è quella morale – ma in termini istintuali? Qual è l'istinto
della colpa? O meglio, la colpa è il pervertimento di quale istinto
su sé stesso? È un istinto deluso, frustrato, che si da la propria
colpa per poter essere espiato -e Cristo, che vuole espiare le colpe
degli uomini, vuole costringerli ad un amore che non provano. La
colpa è una vendetta degli istinti deboli. In Heidegger l'Esserci è
colpevole per il sol fatto di esistere. L'esser colpevole è un “è
colpa mia se...”, dunque l'esser fondamento di una mancanza. Il
modo di esser fondamento dell'Esserci è quello di non poter
diventare quel fondamento che l'Esserci è chiamato ad essere, nel
senso, quello di non poter fondarsi. L'esser nullo fondamento di una
nullità. (v. p.337-338 S u Z) Nota: l'esser colpevole e
l'esser fondamento che significano? La colpa ontica è un prodotto
culturale, non certo ontologico. In Nietzsche in che risiede? E in
Heidegger? Nella libertà-di e nella libertà-da. Il fondamento
ontologico dell'agire libero-di è l'istinto, che è possibile su
quello ontologico dell'agire libero-da, che è la nullità, il
nichilismo, la gettatezza del Ci. L'Esserci
non si è gettato d solo. Solo esistendo è il fondamento del
poter-essere. Ha da esser-fondamento. Tale essere dal e per il
fondamento è nichilismo agente. Ma l'esser gettato non possiede le
proprie possibilità, non può che nullificare quelle in cui è
gettato – l'anima nobile che forgia valori crea invece queste
possibilità. È per questo ancora “più potente” dell'autentico
heideggeriano? In un senso sì, ma se si considera che egli le crea a
partire da sé stesso, e non può che esser gettato... L'Esserci non
è fondamento del suo essere, ma l'essere del fondamento. La
colpa vuole responsabilità e possesso sulle proprie azioni. Ognuna
di queste è un non. La nullità del progetto fonda l'esser-libero
del progetto, dell'Esserci. La libertà è esser-libero-di-non. Cura:
nullo esser-fondamento di una nullità.
4
L'esser-colpevole
è fondamento della moralità in generale. (p.341-342) Ma in
Nietzsche cos'è la moralità? Cosa presuppone dunque la moralità?
In Heidegger, l'esser-colpevole, in Nietzsche: storicamente,
un processo di “martellamento” dell'anima, un reprimere e
rimuovere secoli di sofferenza; metafisicamente, quale
istinto? L'istinto al sopportare, ossia: quanto meno può sopportare
l'uomo che si corrompe nella moralità rispetto all'anima nobile?
Ma cosa si deve sopportare? L'esistenza stessa
naturalmente. La moralità è, come ogni volontà di potenza – ma
come del resto ogni interpretazione coprente – un rimedio al
nichilismo, al soccombere. A tal proposito vedi anche la prima
delle Operette morali di Leopardi. I valori hanno
tutti la stessa origine: l'abisso dell'esistenza. L'aristocrate crea
valori sul nulla dell'esistenza (non a caso la rete di valori e nomi
è sempre come le palafitte...), consapevole di questo nulla e della
responsabilità che viene da un tale forgiare valori sul nulla. E
dice: io ho creato questi valori – prima di me non v'era
nulla, ora ci sono io. Ma il servo non ha questa forza, e si
accontenta della “versione sclerotizzata” di ciò che gli dà,
ossia gli impone, l'aristocratico. Ma quando il servo se ne rendo
conto, ecco che ribalta. Non è più lui ad esistere al di là del
bene e del male, ma l'aristocratico, che è peccatore, che
è malvagio. Ma poiché il servo non ha guardato
nell'abisso, ma solo nell'aristocratico, non sa che significa essere
padrone di sé a partire da sé stesso. Deve dunque ipostatizzare il
fondamento per essere libero, ossia, per tener fermo il valore che
egli a fatica ha forgiato. Così nasce il Dio cristiano – e con
lui, la coscienza infelice.
La
chiamata fa comprendere questo esser-colpevole. (p.342) L'angoscia è
il guardare nell'abisso, e imparare la saggezza del dolore. Ma per
imparare bisogna saper ascoltare. Risvegliare all'esser-colpevole è
un risvegliare all'esser-responsabile. Tale comprendere è un
rendersi libero. Ha scelto sé stesso, dice Heidegger. Ma
Nietzsche non parla di mancanze.
Comprendere
il richiamo è un voler-avere-coscienza, ossia, il presupposto
esistentivo più originario del divenir-colpevole. Solo così
l'Esserci può essere responsabile. Con-essendo con gli altri sul
nullo fondamento, l'Esserci è già da sempre colpevole verso gli
altri. Voler-avere-coscienza in un silenzio carico d'angoscia
– decisione.
La decisione anticipatrice della morti può lasciar-essere gli
altri, diventare la loro coscienza. (60) L'Esserci autentico assume
il compito di corrispondere al proprio essere. Nell'angoscia il mondo
non ha nulla da dire – e l'autentico può parlare, come verbo.
Ma non bisogna restare incatenati alla propria liberazione.
L'angoscia apre l'Esserci come solus
ipse.
L'aristocratico vuole portare tutti “al suo livello”, inter
pares.
La decisione è Entscheidung.
L'autenticità va ri-aperta ogni volta di nuovo, non è un gesto
unico, una volta per tutte. Proprio perché l'Esserci è
essenzialmente predisposto alla deiezione, l'autentico
deve tenersi in
quell'apertura più propria, rinnovare l'apertura stessa ogni volta
di nuovo.
5
La
volontà diviene libera dall'avversione del “così fu”, vuole il
continuo ritorno di ogni cosa che “così fu”.La volontà che
vuole l'eterno ritorno è redenta dall'avversione verso sé stessa.
La volontà infatti, proprio perché è autosuperamento di sé, della
vita, si vuole ancora uguale a sé stessa solo eternamente. Ma il
punto no è solo volere l'eterno ritorno d'ora in poi, ma volerlo
sempre, ossia: non solo decidersi d'ora in avanti, ma decidersi sul
passato stesso. Ossia decidere per ciò che ci richiama indietro,
decidersi per il nostro Ci gettato. La decisione è eterna ed
evenemenziale. Il “così fu” deve diventare un “così volli che
fosse”. Questo è assumere la nullità del proprio
esser-fondamento. L'autentico assume questo nullo fondamento nel
senso che vuole sé stesso se non in quanto deietto, comunque in
quanto gettato – non rifiuta sé stesso, ma si vuole fino in fondo.
L'autentico non è meno gettato – è il nostro passato è ciò in
cui siamo gettati. Per volere a ritroso bisogna volere
l'eterno ritorno. Il Superuomo però è un fatto storico – così
l'avvento dell'autentico, è un Evento concernente il destino storico
dell'Essere?
Sugli
ἄριστοι della Genealogia della Morale e nel pensiero di
Nietzsche in generale.
6
La memoria della
volontà, il volere ancora, il ribadire il proprio volere- solo su
questo fondamento uno può essere colpevole, può non volere
più. La memoria della volotà è un potersi rendere responsabili
per essa. Ma l'uomo deve imparare qualcosa per disporre del futuro,
di sé, a separare l'accadimento necessario da quello casuale.
C'era
un tempo in cui si giudicava a partire dall'effetto. Ma
nell'ambito della moralità, si valuta l'intenzione.
Nell'ambito della moralità l'azione non appartiene più a chi la
compie, in quanto essa appartiene già alla comunità, al Si, che ne
pre-valuta e pre-interpreta la giustizia, cui l'intenzione può
conformarsi o meno. La comunità ha già giudicato l'azione – ora
si giudica l'agente, non però a partire dall'azione. L'agente,
quando si comprendere nel modo del Si, può giudicare la propria
intenzione, ma di certo non può dire di possedere le proprie azioni
– giudica così: “volevo/non volevo fare come si fa...”. Questo
non vale per l'aristocratico. Egli, inter pares, insieme
rivendica la propria azione ed è tutto in questa, quale che sia
l'esito dell'azione. La sua grande opera è la sua maschera, la
grande azione forgia il suo grande attore. L'aristocrate in questo si
giudica fondamento, si autocelebra – la propria azione gli
sembra cosa buona e giusta e per questo si
giudica καλὸς καὶ ἀγαθός. Le azioni sono
compiute sul fondamento del nulla. Ma il nulla è nell'Esserci,
nell'esistenza stessa. La maschera non cela che questo nulla – ma
non lo nasconde come per vergogna o paura, ma per manifestarlo,
articolarlo, farne una ποίησις e infine, attraverso uno
sguardo retrospettivo, redimerlo. Ma lo redime in quanto tale –
l'azione dell'aristocrate trasvaluta il Niente. La produzione
riprende, e così l'esistenza, ossia la vita, si autosupera. Questa
è volontà di potenza.
L'uomo
reso calcolabile e necessario è calcolabile dal Si, ossia, è
giudicato in base alla sua calcolabilità dal Si – ossia, in base
al suo conformismo. Esso retrocede nell'intenzione proprio perché le
azioni non gli appartengono – l'intenzione in un certo senso non è
che una mera situazione emotiva in cui è gettato. L'intenzione non è
un volere – il volere è un agire già. Quando
l'aristocrate onora i propri patres, onora il proprio
fondamento, vuole il proprio passato – in un certo senso, vuole le
proprie “condizioni di gettatezza”, e si considera come il punto
di arrivo del passato – un destino dunque.
7
All'individuo sovrano,
autonomo, sovramorale, al di là del bene e del male è consentito
promettere. Quest'essere divenuto libero, signore
del libero volere (e il volere è un agire), possiede sovranità su
di sé e su tutto. La sua volontà è misura di tutte le cose, a
partire da sé il signore onora e disprezza. Fa promesse ai suoi pari
(con lentezza), e promettendo distingue. La sua parola, quando
promette, non guarda al poi, non è una promessa dell'agire, ma è
una promessa dall'agire-già, del volere – essendo il suo volere
eterno, promettendo fissa nell'essere il suo volere. Il signore si sa
abbastanza forte da mantenere la propria parola anche contro il
destino, poiché egli è il fondamento delle proprie azioni, che
eternamente vuole (nel senso che la volontà è una qualità del
volere, non un suo modo temporale). Al contrario, il servo viene meno
alla sua parola nel momento stesso in cui ce l'ha sulle labbra. Il
servo ossia, non vuole, e con il suo volere muta anche la voce della
sua coscienza, che ora parla di rimorso, ora di risentimento, ora di
colpa, e mai dice l'Esserci come tale. Il signore ha il privilegio
della responsabilità, la consapevolezza di una rara libertà. Tale
responsabilità nel sovrano è istinto, istinto ad
espandere la propria volontà, ad imporre la propria forma, ad
assumere su di sé quanto più possibile, dando senso. In questo
senso il signore ha un rapporto diverso con la significatività del
mondo rispetto al servo: il servo si trova in una rete di rimandi
come un ospite (è invero la sua prigione, ma lui non lo sa), mentre
il signore è padrone di casa – anzi, ogni porzione di mondo è
terra di conquista, le cose offrono il proprio essere al suo libero
progettare che interpreta e lascia essere. In questo senso
il volere del signore è un agire che
è un creare valori. Ma proprio perché il signore
autenticamente lascia essere gli enti nelle
situazioni, egli chiama ciò che è da lui interpretato come
“giusto”, “buono” (ossia, ciò che lo appaga nel suo
progetto) Δίκη: ciò che è buono e giusto per il signore è
buono e giusto in sé – e quindi, seguendo la
genealogia degli aristocratici dei greci, la giustizia e il volere
divini. Nel silenzio dell'esistenza, il signore “parla”, e la
chiama voce degli dei, quegli dei da cui discende.
8
Qual
è il fondamento ontologico del far promesse? Promesse
aristocratiche, s'intende: il plebeo non ha la facoltà di promettere
realmente – deietto nel Si, (si) è già da sempre “promesso”
(a tal proposito sarebbe interessante mettere alla prova gli
argomenti politici presenti nel Critone, ancora oggi di
grande forza persuasiva). Innanzitutto il promettere aristocratico
non è volto al futuro come a un mero “domani”, ma è un
promettere che è presente, non perché sia labile ma proprio in
virtù della sua solidità. Questa dimensione del “presente” non
è deietta, ma in essa l'aristocratico opera distinzioni che egli
vuole ancora. In secondo luogo, all'interno di questa distinzione
operata egli tratta i suoi pari, ai quali promette, verso i quali il
con-essere assume l'esser-colpevole (che si risolve con il voler
elevare i pari agli stessi valori e alla stessa coscienza, ossia un
renderli liberi per il loro più proprio poter essere, ma
dialetticamente). Onorando la propria promessa il signore onora sé
stesso, è fedele a sé stesso, sceglie il proprio volere come un
valore, lo pone avanti a sé come una legge. In terzo
luogo, onorando la propria promessa, il signore onora la distinzione
da lui sancita. Ma ogni distinzione è una nullità di
qualcosa, qualcosa che viene lasciato fuori – ogni risolversi per
un poter-essere è un nullificare la possibilità che non si ha
assunto. In Essere e Tempo Heidegger sembra
adombrare la scelta esistenziale, come se questo nullificare fosse
uno dei caratteri della finitezza dell'Esserci, del suo limite
ontologico. E lo è. Ma alla stessa maniera l'autentico nullificare
una possibilità è l'onorare l'altra, un segnare distintamente un
valore positivo. La nullità del progetto autentico deve
essere voluta non solo “ora” ma come eternamente ritornante,
dunque anche in quanto passato. L'essere un progetto nullo è anche
un comprendersi sulla nullità del fondamento – essere quel nullo
fondamento che l'Esserci è. Il forgiare valori del signore è allora
ontologicamente possibile solo sul fondamento della colpa.
Questo è il dato più importante. Il secondo è questo: che tale
responsabilità si fa istinto, volere ancora – e
quindi coscienza. (vedi p.48 Genealogia della
Morale) Ma la coscienza è un risveglio alla colpa, quindi un
risvegliare al promettere, al giudicare, al far distinzioni, al
separare etc. – in altre parole, alla volontà di potenza.
(Nota: non a caso è quest'ultima che, rintuzzata su sé stessa
nelle/dalle articolazioni opprimenti del Si, genera quelli che sono i
“coprimenti” della coscienza come struttura ontologica
dell'Esserci...) I “non voglio” della società si imprimono a
sangue. In rapporto a questo si forma la società. Ma quei “non
voglio” riguardano l'intenzione: tu “non vuoi” fare certe
cose che non si fanno ecc. Lo stato interpretativo che
decide ciò che si può avere l'intenzione di fare o meno è già
deciso.
Sul sentimento
di giustizia. “Il delinquente merita la pena poiché avrebbe
potuto fare altrimenti” (avrebbe potuto nullificare una possibilità
esistentiva piuttosto che un'altra – ma le possibilità son già
decise): qual è il presupposto? Il delinquente è in qualche modo
responsabile, colpevole. Ma questo sentimento non è originario –
non v'è allora fin da subito il coprimento morale che afferma che in
seguito ad un'azione qualcuno possa essere colpevole. Nella deiezione
più primitiva la nullità di cui il delinquente è stato fondamento
(e non poteva essere altrimenti, ma il Si rende il discorso più
coperto e superficiale) non è una nullità/mancanza morale verso la
comunità (che necessita di una forte interiorizzazione dei “non
voglio”), ma il semplice esser fondamento di un danno. In questo
senso Heidegger nella sua critica alle genealogie dell'idea di colpa
dice non volendo qualcosa di vero. Ammesso che la colpa come fatto
esistenziale sia qualcosa di assolutamente interno all'Esserci
come solus – i più primitivi coprimenti di questo
fatto ragionano proprio secondo il concetto di debito. In questo
caso: il delinquente è in debito, e i debiti si pagano – il prezzo
è sancito dall'equazione con la sofferenza. Le genealogie criticate
da Heidegger naturalmente mancano la colpa come fatto esistenziale,
ma, con Nietzsche, la comprendono nella sua interpretazione storica.
In questo senso deiezione dell'interpretazione e interpretazione che
produce deiezione si alimentano vicendevolmente. Inoltre il senso del
debito e la punizione (il dolore per il dolore) come sfogo stessi,
pur essendo un coprimento della colpa esistenziale, ci dice qualcosa
del coprimento e della deiezione in atto: “l'altro è causa del mio
dolore; non è responsabile di tale dolore perché non si possiede,
non è realmente (moralmente) colpevole; nonetheless è fondamento di
una nullità, ossia il mio dolore (nota: il colpevole viene ancora
giudicato a partire dalle sue azioni, e non ancora dalle
sue intenzioni) e dunque deve pagare”. E dunque
frustrate. Qualcosa come la legge del taglione, ci dice Nietzsche,
già è una crudeltà più raffinata (per noi, con Heidegger, un
ulteriore coprimento), introduce un calcolo, una stima di valore. In
questo senso la nullità di cui il delinquente può essere fondamento
è già sottomessa alle stime quasi matematiche della legge. Qui
ancora il delinquente (che sente la pena come un accidente, con
un'ingenuità che Nietzsche definisce quasi spinoziana) è giudicato
a partire dagli effetti delle sue azioni – ma è un giudizio che si
muove secondo pregiudizi (“se ha rubato un tot, gli sarà tagliato
un tot di carne” e così via”).
9
Il
debitore dà in pegno il proprio corpo per garantire sul peso della
propria parola: il valore di una volontà si afferma attraverso un
abbandono del possesso di sé. Ora, la parola è un dar valore, ma
non qui: che valore è quello dato concedendo ad un altro il diritto
su di sé? Il proprio corpo, ma anche i propri possedimenti, la
propria donna ecc. sono tutti oggetti esterni che fondano la validità
della promessa – che hanno valore solo nello stato interpretativo
del Si (ad esempio, che senso avrebbe promettere in pegno una somma
di denaro in una società che non conosce il nostro tipo di
economia?). Il soggetto debitore non assume su di sé
l'esser-colpevole ma lo scarica su un oggetto esterno (fetish).
Inoltre l'esser posseduti da un altro, che è un modo particolare del
con-essere (che nella massima articolazione del Si da vita, credo,
all'onnipresente figura del Grande Altro), impone al debitore il
dover mantenere una promessa – che si mantiene grazie
alla paura, che sappiamo essere nient'altro che un
coprimento, un'interpretazione deietta dell'angoscia. In quanto tale
la paura esternalizza su un fetish esterno ciò che avviene
all'interno, la deiezione in fieri. Sapendo la debolezza
del proprio volere, si supplisce ad essa consegnando il fare al Si.
Il risultato è il sentimento deietto della colpa. Dal canto suo il
creditore, sfogando la propria rabbia, partecipa del diritto
signorile, che è il poter trattare il debitore al di là del
bene e del male. I “creditori” vanno costituendo prima la casta
governante (aristocrazia), poi, progressivamente, avviene la
“sclerotizzazione” della volontà del creditore che si fa prima
organo di controllo, poi Stato/Dio/ogni forma di auctoritas.
In questa maniera il Si (l'ideologia) si espande andando a
determinare quella situazione che Nietzsche vede nel mondo
contemporaneo. Ma nel momento più primitivo, lungi dall'esserci
un'ideologia, il Si è quasi una mera fattualità “economica”.
Chi è trattato al di là del bene e del male subisce letteralmente
il bene e il male di chi decide. Ma non è detto che il creditore sia
un signore autentico. Potremmo dire che il Si stesso usi per
costituirsi e rafforzarsi la dialettica tra classi. (In prospettiva
potremmo dire: la storia della dialettica tra classe di servi e
classe di padroni è l'articolazione del con-essere nel destino di
deiezione dell'Esserci e di oblio dell'Essere...)
Eppure...
far soffrire reca soddisfazione. Perché? Si compie l'esser
fondamento di una nullità, ma sull'altro. Come può essere il far
soffrire una riparazione? In che maniera una situazione emotiva può
“ripagare”?
10
Si
consideri la vergogna dell'essere umano dinanzi all'uomo, come
vergogna degli istinti: quale istinto perverso ha dovuto sviluppare
un simile trucco per la sopravvivenza? Ora, il dolore è contro
l'esistenza, ma prima... è una seduzione alla vita! Dal
dolore, subendolo e facendolo, si impara. Se la vita è dolore,
essere cagione di dolore è essere cagione di vita, e questo è il
dire di sì al dolore, che è nullità della vita. Sul fondamento
dell'angoscia, si creano valori, si da forma alla vita – come?
Cagionando dolore. La non assurdità della sofferenza (p. 57) è il
suo superarsi nel canto – nell'arte, nella morale
artistica, nella tragedia dionisiaca. Ma qual è il fondamento
esistenziale di un tale gioioso soffrire? L'angoscia. La
sofferenza, che è vita, ha senso e bellezza sul fondamento
dell'angoscia – ma ora nell'era del Si (della tecnica),
la sofferenza è assurda, va allontanata e eliminata come un male
superabile. Nel Si l'eliminazione della sofferenza è considerata
progresso! Anche la plebe vuole maschere, tanto più spesse e rozze
quanto minore è la pozzanghera della sua anima.
11
L'etica
soloniana è l'etica più nobile, di colui che si giudica
soltanto nella completezza della morte – ma che anticipando la
morte si giudica ora come già compiuta: perché è
“eterno”. L'esser-morti è una grande, angosciosa libertà –
l'angoscia è l'essere tesi fra vita e morte: la libertà è
diventare questa tensione. Ricorda le parole di Zarathustra
sulla libera morte...
12
Dio è
innanzitutto testimone del dolore umano -gli dà un senso. Ma così
facendo si esternalizza la causa, la responsabilità (dipende dal
dio). Una πόλις può porre nel dio questo dolore che non si
sopporta nella sua purezza, per riappropriarsene mediatamente nel dio
stesso. Ma nel dio polide c'è già un coprimento della nullità
dell'Esserci di un popoli. Ma questa è la civiltà in cui non v'è
alcuna virtù senza testimoni, ossia: l'Eroe, da quello epico a
quello tragico sono “autentici” poiché accettano e vogliono
il destino – e il destino è ciò che ci
costituisce come volere, come scelta, sul fondamento del nulla - il
gelido Ade che è l'insignificanza della vita
stessa. Ma: v'è la mediazione dello spettatore. Lo spettacolo
dell'autenticità è già qualcosa che copre il silenzio? Ossia, non
è una voce nel silenzio, ma una voce sul silenzio
(dal ditirambo a Euripide...?). E il libero volere (l'intenzione)
serve a perpetuare questa mediazione, approfondirla, spostare il
valore di ogni azione sempre di più al di fuori dell'Esserci, è il
perdersi di un popolo. La tragedia si risolve in commedia. Il
mondo antico per Nietzsche è essenzialmente pubblico. Ancora non v'è
un'introiezione psciologica-ideologica del Si (del Grande Altro).
13
La
giustizia non è reazionaria. Sono gli istinti attivi, la
brama di dominio e di possesso a fondare ogni giustizia. L'uomo
attivo è il signore. Egli ha lo sguardo libero,
la migliore coscienza. Il nobile non ha bisogno di
valutare pregiudizialmente il proprio oggetto. Il nobile non ha
pregiudizi poiché giudica a partire da sé,
accettando dionisiacamente tutto ciò che serba il
destino. Il diritto serve a stanare e a tener buono il risentimento.
Tutto ciò che è reazionario è quindi contro la legge. Il volere
dell'aristocratico, che è il giusto in sé, è imperante. Ogni
azione reazionaria è ὕβρις. L'aristocratico si concepisce come
degno di venerazione in quanto valore in sé.
14
(Vedi
pagine 64-65 dalla Genealogia della Morale) La legge
apprezza impersonalmente le azioni, arginando il pathos reattivo del
risentimento che vuole vendetta: il signore agisce come una forza
maggiore, il servo si sente colpito nella persona, nell'intimo.
Nascono diritto e torto, non a partire dal danno ma dalla legge
stessa. Il sottomettere della volontà a sistemi maggiori è un
creare più grandi unità di potenza, è un accrescimento di potenza.
Attraverso la sottomissione il con-essere dell'Esserci si articola a
formare unità dello Spirito maggiori – Dasein come popolo,
comunità ecc. Insieme, ogni sviluppo è sviluppo del senso. A questo
punto dobbiamo attestare, attraverso Nietzsche, come la morte di un
simile Dasein sia possibile, così come l'autentico e l'inautentico.
Morte:
la disgregazione della comunità? Non proprio. Cos'è
esistenzialmente la morte de Dasein? L'impossibilità delle
possibilità, del Dasein stesso che è poter-essere aperto. Un Dasein
collettivo “morto” è un Dasein che non ha più scelte da
compiere – e le scelte si compiono grazie gli istinti attivi, la
volontà di potenza. La morte di un Dasein-popolo è la stanchezza di
un popolo, il rintuzzarsi dei suoi istinti, lo scemare della vita, la
paralisi del Dasein collettivo. Per Nietzsche un Dasein simile è
quello democratico, quello socialista ecc. - in altre parole, quello
del gregge.
Inautentico:
non comprende la morte per quella che essa effettivamente è, e la
considera come... progresso! Solo in una simile traiettoria può
esistere il senso di colpa, che è un amare le proprie catene.
Autentico:
la storia ha dimostrato che bisogna essere cauti nel rispondere ad
una simile domanda. Non è questo il luogo adatto.
15
Quest'essere
che manca di qualcosa, che si strugge nella nostalgia del deserto e
che deve far di sé stesso un'avventura,
una camera di supplizio, una selva... questo giullare inventa la
cattiva coscienza. L'Esserci soffre sé stesso. (p.75) Caduto in
nuove condizioni esistenziali, si rivolge contro i suoi istinti più
intimi.
Bisogna
criticare Heideggere? Se quel che si dice è vero, vi sono stati
popoli in cui non v'era inautenticità né gettatezza (intesa in
senso peggiorativo). Cosa dovettero inventare i Greci per
sopravvivere al lungo travaglio di popoli e guerre che li ha
generati? La tragedia, il pessimismo, il genio
del cuore,
Dioniso. Tutto questo per permanere in una certa apertura sul mondo.
La storia più arcaica della Grecia ha generato, in una vera e
propria dialettica servo-padrone, un popolo libero, che guarda
nell'abisso, nella vastità del mediterraneo, e canta – il
ditirambo. Il Dasein di un simile popolo non conosce Si, poiché
rivendica la fondazione dei propri valori, loda i padri, ha il mito
dell'autoctonia. Il Greco non fa “perché si fa così”, ma perché
così vollero i padri. E dunque lui, in quanto Greco, vuole (ancora)
così. In lui non v'è un rintuzzarsi dell'istinto. Non v'è
solipsismo, tutto è preso nel coro ditirambico, nella formazione
oplitica, nell'ἀγορά . Il popolo greco è un
essere-per-la-morte perché: sa il non-valore della vita (v. Achille
nell'Ade), conosce la saggezza del sileno (meglio non nascere, o
morire presto), e la saggezza di Solone ecc. ecc. Eppure non ci si
può togliere il sospetto che anche in un simile popolo che racconta
sé stesso come un popolo autentico, che combatte sulla soglia
dell'abisso per secoli, traendo immagini apollinee dal proprio fondo
dionisiaco, non sia privo delle stesse mediazioni che noi sentiamo
come una caduta, e in cui invece loro erano completamente coinvolti
(Žižek ).
16
L'uomo
è posto in questa situazione esistenziale da un atto di violenza.
Tale atto fu un plasmare l'uomo stesso, un signoreggiare e
conquistare. Lo Stato è esattamente questo (a Sparta era ancora
palese). Il Si non è un contratto, ma è imposto. La violenza a
volta può essere tale da insegnare – un perdersi, altre volte... Tali
signori giungono come il fulmine, senza motivo, come un destino,
troppo repentini, non progettati, troppo persuasivi per essere anche
solo odiati, o temuti. L'intero mondo crolla. Se i signori sono
plasmatori di forme, il mondo non ha più una forma (e per erigere
nuovi templi, devono radere al suolo quelli vecchi – il mondo deve
crollare nell'insignificanza). Il servo si ritrova dall'oggi al
domani in un mondo devastato, irriconoscibile. A volte, se impara, si
riconquista. A volte si richiude nel risentimento. Un popolo di
conquistatori potrà essere la coscienza del popolo sottomesso a
volte, altre potrà sottomettertelo fino all'annichilimento. La
volontà di potenza è un forgiare valori, orizzonti di comprensione,
ossia luoghi in cui nulla ha senso se non il tutto. (p.67) I signori
ignorano cosa sia colpa, responsabilità, scrupolo. Nell'opera si
sanno giustificati in anticipo e per l'eternità. La loro opera è un
punto fermo arbitrario della loro volontà, ribadito e affermato.
Quale è il fondamento ontologico del sottomettere? Qual è il
con-essere autentico?
17
Le
prime stirpi si sentivano in debito presso i genitori: non ci si
possiede, ci si sente in debito. La stirpe non attribuisce
direttamente a sé le proprie conquiste – questo non per incapacità
di un popolo che si sente incatenato, ma perché, giudicandosi
aristocraticamente a partire dagli effetti, le azioni determinano il
Dasein solo a posteriori. Se le azioni hanno successo allora sarà
grande il Dasein, sarà infimo se si risolveranno in fallimento. Ma,
se vogliamo, sta qui l'impasse dell'aristocrazia: come può
l'aristocratico assumere pienamente il possesso sulle proprie azioni
se non può legarvi un volere precedente ad esse? Comunque... l'etica
dell'intenzione sembra comunque essere un delegare agli altri la
comprensione delle possibilità dell'essere.
L'aristocratico
è potente e le sue grandi azioni creano a posteriori il loro autore
– l'antenato, il progenitore, il dio ecc. da cui l'aristocratico
che è discendente trae legittimazione. Attraverso la mediazione
mitologica l'aristocratico può prendere possesso delle proprie opere
e scoprirsi come destino, come il punto finale della
stirpe ecc. È l'autentico quell'essere che si risolve per il suo più
proprio poter essere, ossia per il suo destino (e per il suo essere
un...). Non solo la morte, ma ogni azione fondata nell'Esserci
autentico nasce da un'adeguata comprensione delle possibilità che la
situazione offre ecc. ossia, ogni azione ha carattere destinale.
Il
senso di debito verso i propri avi è un autentico risolversi per il
proprio essere colpevole? Risvegliandosi alla colpevolezza
l'aristocrate insieme si sa infondato (ma le grandi azioni hanno
bisogno di un grande fondamento – dunque esternalizzazione) e
avente da essere quel fondamento (ci si coglie come fondati sul
passato in cui siamo gettati ecc.). Nessun Esserci ha veramente
possesso delle proprie azioni - c'è sempre uno scarto tra l'Esserci
(esistenza gratuita) e le proprie azioni, le proprie possibilità
esistentive (essenze). L'autentico, scegliendo l'ente che è, sceglie
l'insignificanza – scopre che non c'è un Grande Altro. L'autentico
resta connesso al Si. Non solo quindi crea valori, ma avendo avanti a
sé ancora il Si nella sua insignificanza, i valori nella loro
falsità ecc. sa dell'insignificanza trascendentale della propria
opera. Da qui viene la necessità di autosuperamento.
18
Il
Dio cristiano non è un dio polide, ma è contro ogni autorità.
Mentre l'aristocratico può sanare debiti (ossia può sinceramente
promettere), i debiti del servo sono incommensurabili e insanabili al
punto che solo Dio può redimere l'uomo. (p.80) Il massimo senso di
debito diventa debito verso la causa prima. Il senso di colpa si
volge all'indietro, verso Dio, Adamo, la Natura, l'Esserci coe tale,
l'esistenza stessa., che non è in sé valida. Nasce il desiderio del
nulla, al punto che solo Dio può salvare l'uomo. Gli istinti sono
colpe verso Dio – bisogna non volere, frenare gli
istinti: essi giudicano valori diversi da Dio. Se è vero che la
rinuncia al piacere diviene presto il piacere della rinuncia e il
modo in cui queste anime sopravvivono, tutti gli altri istinti attivi
dovranno “andare in letargo”, essere repressi. La volontà e la
vita non devono tentare l'autosuperamento, poiché son troppo deboli.
(p.83) L'angoscia è negativa e positiva perché ci rivela la nostra
libertà sul fondamento del nulla (come il cogito cartesiano,
è un solus ipse) – si scontrano la finitudine
dell'esistenza e l'infinità della libertà. L'angoscia ha portato
Adamo a peccare. Dio gli disse: “sei libero – e dunque, non lo
sei”. La libertà si conosce proprio nel momento del limite, e in
questo scarto nasce l'angoscia. In Adamo la proibizione diventa
tentazione. La deiezione si fonda proprio sull'angoscia, sulla
gettatezza (da cui viene una libertà costretta ed essere libertà).
L'angoscia, in altre parole, è il risultato di proibizione che
diventa desiderio e punizione che diventa ostacolo. L'innocente non è
colpevole, eppure, è in angoscia come se lo fosse. Il nullo
fondamento di una nullità è presente nel creare valori. Ma questo
creare valori è una libertà a cui si è costretti – un
nullificare a cui si è costretti. Eva si lascia tentare dalla
conoscenza del bene e del male, ossia, della condizione in cui Dio li
ha gettati – ha scelto sé stessa, con tutto il travaglio che
questo comporta. Il cadere dell'uomo è invece
proprio la gettatezza, la possibilità del possedere sé stessi,
essere senza Dio/come Dio/oltre Dio. Il bene e il male che si
conoscono mangiando i frutti proibiti non sono valori morali
specifici, ma la natura stessa di ciò che si dice essere bene e
male, ossia, un limitare e un nullificare. Adamo, cui era stato
assegnato di nominare gli enti, dar loro valore ecc, scopre che la
sua è stata un'opera carica di nullità. Ma poiché ora è “come
Dio”, dobbiamo dire che questa nullità è interna a Dio creatore
stesso.
19
Esistono
modi più nobili di servirsi della poetica creazione di dei,che il
fine non sia l'autocrocifissione. Es. gli dei greci, che sono nobili
e signori di sé, bestie divinizzate. I greci son “teste di
fanciulli”. I Greci vedevano in sé la radice del male nella
stoltezza – e davano la colpa agli dei! E gli dei ringraziavano per
ogni bene. Il Greco si appella al dio in ragione degli effetti delle
azioni, diversamente dal Dio cristiano, cui si confessano le
proprie intenzioni. Nel mondo greco la “colpa” del
dio non è diversa dal “fato” – si pensi alla storia di Aiace.
Lo spirito nobile ha bisogno di pericoli; lo spirito del servo “si
lascia andare”. Dai pericoli il signore trae la sua grande
salute.
20
L'autentico,
ci dice Heidegger, risulta essere quasi un rafforzamento della
soggettività metafisica, che sappiamo culminare nella volontà di
potenza. La volontà di potenza crea nuovi orizzonti di senso –
l'autentico scopre le sue possibilità storiche. L'autentico è
un'apertura all'Essere – la volontà di potenza è l'Essere.
21
Per
Nietzsche la Verità è un valore che esprime e riproduce la volontà
di potenza, di vita. Conoscere è sfruttare la propria sofferenza:
nell'uomo creatura e creatore sono lo stesso – non è questo
l'aver-da-essere. Ogni trascendenza è un negare la finitudine
dell'esistenza. In questo senso anche l'autentico come apertura
sull'Essere è idealista, non accetta la finitudine dell'esistenza,
ossia – cogliendosi all'interno delle sue possibilità storiche,
all'interno della storia dell'Essere, e sapendo il rapporto
privilegiato che questo ha con l'Esserci, si eleva ad una
trascendenza in cui gli orizzonti “creati” si ricomprendono
nell'orizzonte della storia dell'Essere. Ha ragione Nietzsche quando
afferma che per creare non bisogna solo distruggere, ma anche
saper dimenticare.
22
Il
signore deve porre il proprio volere sopra di sé come una legge. È
vero che, al contrario del “gregge”, l'inautenticità e il Si
sono un fatto ontologico – ma pur sempre dati fenomenologici. Per
il Si, qualsiasi cosa venga conquistata con lo sforzo diviene
qualcosa di cui parlare, ogni segreto perde la sua forza. Una volta
sopraggiunta e compresa la domanda, uno non può non...? Porsi la
questione sulla decisione non è una terza parte intermedia, non ha
senso. Se l'eroe arcaico che duella è autentico, e si fa coscienza e
destino dell'altro, può esserlo colui che conquista e sottomette?
23
La
verità nietzschiana non è solo un valore, ma un modo fondamentale
della volontà di potenza, un meta-valore. Non è incompatibile con
l'ἀλήθεια, poiché la volontà di potenza “produce”
apertura, e ogni apertura viene da un nascondimento – ogni verità
è una maschera. La verità è anche l'oblio dell'Essere. Gli istinti
(lo sappiamo da Lo Stato Greco) fondano a posteriori sé
stessi, per poter essere e agire. Per Heidegger l'apertura
dell'Essere è il destino stesso dell'Essere, e a partire da essa
l'autentico comprende la propria situazione storica. L'autentico si
comprende a partire dall'Essere in quanto Essere – e in questo
senso non v'è alcuna essenza, ma la pura gratuita storica esistenza.
Le essenza sono quindi maschere, che vengono prodotte poieticamente,
costituiscono quell'apertura che è il destino storico dell'Essere –
dunque l'autentico si comprendere come Esserci poietico, che forgia
valori, orizzonti di comprensione. Ma ogni creazione è una maschera
– di cosa? Di Dioniso...
24
Le
autentiche possibilità storiche riguardano sia l'Esserci che
l'Essere come tale – ma a volte Nietzsche parla di certe esplosioni
della volontà di potenza quasi come di eventi, eventi
storici che si rivelano fondanti per la stessa storia dell'Essere
(degli enti). Ma ricordiamo che nella critica heideggeriana,
Nietzsche è l'ultimo dei metafisici proprio perché è interessato
all'essere degli enti, non all'essere in quanto tale. L'Esserci
autentico è rilasciato (Gelassenheit),
possieduto dall'Essere in quanto tale (eigent-lich): l'Esserci
non ha controllo sulla storia. Ma anche in Nietzsche l'uomo è una
corda già da sempre tesa fra la scimmia e il Superuomo, il suo
destino non gli appartiene, ma è invece gravido di avvenire.
26
Sulla
profonda sofferenza –
essa
crea profonda divisione.
Ogni divisione è un creare valori. La sofferenza più profonda e
individuale, che massimamente divide e isola? L'angoscia.
Essa come divisione è un creare valori – un solo valore invero, il
più alto, e nel farlo deve distruggere ogni altro valore, sospingere
nel nulla ogni articolazione di senso. L'angoscia isola, fa
dell'Esserci un solus
ipse,
è innanzitutto un istinto al rango, alla pulizia e alla purezza
(αὐτὸ καθ'αὑτὸ)
– e apre il con-essere autentico, che è dialettico, vuole
confrontarsi con lo sguardo dell'altro in quanto altro ed essere per
lui coscienza. Ma la coscienza, sebbene sia una struttura ontologica
dell'Esserci, è sempre sentita come aliena, estranea, perturbante,
spaesante. In questo senso l'altro Esserci, compreso autenticamente,
è radicalmente altro – e noi siamo altri a nostra volta.
L'angoscia è massimamente divisiva, isola in un con-essere
dialettico, oppositivo, in cui non è possibile alcuna chiacchiera. È
in questo con-essere che lo spirito nobile ama la maschera, che
redime l'angoscia stessa (che passa dal momento negativo della
perturbante morte di Dio alla libertà positiva dello sguardo che
tende al di là di ogni orizzonte, avendo avanti a sé un unico
valore: la volontà, l'autosuperamento della vita) e rinnova ogni
atto creativo e insieme lo vuole ancora – lo spirito nobile non
sarà mai troppo vecchio per le proprie vittorie.
27
Istinti
superiori / inferiori: in Al di là del
Bene e del Male l'istinto più forte organizza quelli più
forti, sottomettendoli ad una regola. Riesce Nietzsche realmente a
trasvalutare i valori? Anche nella dialettica vi è l'oblio,
che non è un far tabula rasa, ma un assumere e sublare i
valori e la regola voluti, rimuovendo la sofferenza da cui essi sono
venuti e interiorizzarli nella natura stessa (come habitus,
ἕξις,, ἔθος) – fare del proprio passato la base 0 del
proprio volere.
In Colpa
e cattiva coscienza, il dimenticare è appropriazione
spirituale, è una digestione (per questo, credo, ha il carattere
di unheimlich – riscoprire ciò che si è assunto
è perturbante, spaesante), affinché vi sia posto per il nuovo. La
felicità e la nobiltà si fondano sull'oblio – su un profondo
perturbante...
28
L'oblio
attivo non è un mero dimenticare, ma un naturalizzare ciò che si è
appreso nel dolore, assimilarlo nello Spirito – dunque volere ciò
che è proprio al punto da anteporlo a sé stesso, farne una natura.
Per il signore, ciò che egli vuole, ossia la divisione che egli
compie, il valore che forgia nel profondo dolore che ogni atto
comporta, è “buono in sé”, “vero in sé”, lo precede.
L'oblio è esattamente questo, il potersi annunciare come veritiero e
non come verità, il potersi annunciare come discendente dagli dei e
dagli eroi ecc. Ciò che viene propriamente obliato è la sofferenza,
che è soggettiva e divide. La nuova forma è assunta come natura
dallo spirito dell'aristocratico.
Al
contrario, in che modo il “tornare a volere” della promessa,
questo rendersi calcolabile, è in realtà un non possedere il
proprio volere? Innanzitutto colui che non vuole la propria
liberazione è colui che non soffre, ossia, colui che non si può
comprendere né concepire come αὐτός.
La
memoria della volontà diventa volontà della memoria – l'uomo può
produrre una autorappresentazione del sé futuro, disporre di sé
come di un avvenire, (…). Così si forma l'autocoscienza. Ma
ricordarsi della propria volontà vuol dire ricordare la sofferenza
che tale volontà comporta, soffrire la sua nullità – il non
voler tornare a liberarsi, il tornare a volere, in che senso è
una “cattiva digestione”? Non è forse un ribadire il proprio
volere, volerlo eternamente?
C'è
un problema. (Nota: questo tornare a volere descritto da Nietzsche
non va assolutamente confuso con la sfida dell'Eterno Ritorno, perché
è un tornare a volere quello che il Si vuole, ossia, riconfermare il
non possesso di sé.) Sappiamo che la memoria si
forma attraverso una dolorosa mnemotecnica che nel corso della storia
plasma e, lentamente, ammansisce l'uomo. Ma questa stessa memoria
permette all'uomo di definire una struttura e definirsi in questa
struttura. Pensando alla genealogia del linguaggio e dei concetti che
Nietzsche espone in Verità e Menzogna in senso
extramorale possiamo immaginare che sull'uomo stesso avvenga
lo stesso processo di violenza che l'uomo con le parole compie sulla
natura. Ogni valore forgiato, ossia ogni onore tributato, ogni
promessa fatta (v. p.49 della Genealogia) deve essere
ricordato, scolpito nella mente in maniera da rendere stabile quel
valore stesso, quella promessa. Proprio come le parole in Verità
e Menzogna si fanno vere e proprie leggi, nomi che si
fanno νόμοι, l'ἔθος (che è
forma e valore morale) si fa per l'uomo stesso legge civile, e
coscienza nella sua moralizzazione, attraverso un atto di crudeltà,
di violenza pura – che abbiamo individuato come volontà di
potenza, diritto signorile. La crudeltà è quella di chi è
autenticamente autonomo ed è legge di sé. La coscienza nasce
dall'esercizio della crudeltà: nobile quando è un rivolgersi verso
l'altro al di là del bene e del male, verso colui che non si
possiede e che viene trattato come la nullità che è; cattiva quando
è un rivolgersi su sé stessa, nel disprezzo dell'uomo, verso il sé
che non si possiede. In questo senso i valori servili
di buono e malvagio ancora
nascondono, nella sostanza, quel che affermavano i valori signorili
di cattivo (spregevole) e buono (nobile)
– è esattamente il mutamento della forma che permette lo
spostamento dell'ago della bilancia. Non è più, secondo la morale
dei servi, buono chi possiede sé stesso e agisce secondo propria
natura nella prospettiva dell'accrescimento della vita che è
l'imparare dal dolore (questa è l'aquila che... fa ciò che fa
l'aquila, senza nessuna cura per le sofferenze del gregge), ma chi
evita il dolore nella mera autoconservazione. L'oblio che per il
signore è un “dar per scontato”, un assimilare e anteporre a sé
come autofondazione, per il servo è un mero dimenticare – e ciò
non è ammisibile, perché il servo non può dimenticare, ossia non
può fondarsi, deve essere consegnato al Si ed essere giudicato
esclusivamente per le proprie intenzioni (e in effetti, senza la
memoria delle intenzioni e della promessa non vi sarebbe possibilità
di moralizzazione). Un'altra forma di oblio è quella del Si: quella
del coprimento o, come forse è più interessante dire (dato
che il coprimento ontologico è anche l'oblio di un fatto ontico
troppo aderente all'essere), della rimozione. Lo studio
genealogico, che è per certi versi affine alla psicanalisi, è il
corrispettivo ontico di ciò che Heidegger chiama l'attestazione di
certe strutture dell'essere dell'Esserci attraverso una comprensione
autentica e adeguata dell'essere dell'Esserci.
29
Sulla
volontà di rivalsa. Al contrario del mero voler essere ripagati
secondo un'equazione di dolore e saldo (in cui l'effettiva incapacità
del creditore commerciale di farsi ripagare in termini di vita ed
essere è dissimulata all'interno della “giustizia
economica”, che è sentimento di reazione – nota inoltre come già
si punisce per un'intenzione più che per un fatto, ossia la promessa
non mantenuta, l'accordo), la volontà di rivalsa è un diritto
signorile, e in quanto tale è un movimento attivo della volontà di
potenza, un interpretare. Il signore può eventualmente essere
danneggiato da qualcuno che non è autonomo come lui. Egli
interpreterà quest'ultimo solo ed esclusivamente a partire dalla sua
azione (senza riguardi per le intenzioni, le promesse e i contratti)
e a partire dal proprio utile (il signore è autonomo, non etico, non
soggetto a contratti – anzi, come notano i vari Trasimaco e Crizia,
le leggi e i contratti sono strumento dei potenti). La crudeltà
insita nella volontà di rivalsa è il fatto di poter nullificare
l'altro.
Questi
appunti, raccolti in maniera rapsodica, sono il prodotto delle
riflessioni prodotte in conclusione del corso di Filosofia
Ermeneutica tenuto dal filosofo Docens
Turris VirgataeRiccardo
Dottori presso l'Università di Roma Tor Vergata, anno accademico
2018/2019. Argomento del corso: Al
di là del Bene e del Male e
la Genealogia della
Morale di Friedrich
Nietzsche. Il corso ha esplorato, analizzando analiticamente entrambe
le opere, i temi cruciali della volontà di potenza, del valore
morale della verità, della saggezza dionisiaca del dolore,
dell'aristocrazia e - forse uno dei temi a Nietzsche più cari -
della maschera. La dialettica servo-padrone hegeliana e il concetto
aristotelico di ἦθος sono cruciali per
interpretare la volontà di potenza - e in fondo l'intera filosofia
di Nietzsche. Conto di raccogliere ed editare gli appunti raccolti
durante il corso quanto prima possibile.
Il
risultato di queste riflessioni, condotte sotto la guida del
professore, è stata un λόγος condiviso con Riccardo Dottori e
gli altri studenti in occasione di un simposio di fine corso. Si
brindò all'anima di Friedrich Nietzsche e all'amicizia.
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